Oaxaca e la vigilia dei Morti 

Oaxaca, da leggersi ” Uahaca” con la h pronunciata. Capitale dello stato omonimo, conta circa 300.000 abitanti in centro e altri 300.000 nella zona metropolitana e si trova nel sud del Messico. 
Faccio un giro di perlustrazione senza grandi piani. Non sembrano esistere walking tour gratuiti qui, quindi con l’aiuto della guida decido di crearmelo io. 


La piazza principale si chiama Zócalo, il nome dato alla piazza principale di Città del Messico e successivamente adottato da altre città messicane. 



Comune a molte delle altre città che ho visitato fin’ora anche Oaxaca presenta una griglia di strade, di sicuro un’eredità dei primi urbanisti spagnoli.



Lo stato di Oaxaca è uno dei più variegati a livello etnico e le maggiori popolazioni locali che è possibile incontrare in città sono i zapotechi e i mixtechi, anticamente importanti civiltà che ebbero una propria cultura e sviluppo e che vennero assorbiti nell’impero azteco poco prima dell’arrivo degli spagnoli. 





Questa in realtà non è la prima volta che sono in Messico. Undici anni fa ho visitato la penisola dello Yucatán, da Cancun e la Riviera Maya fino a Chichen Itza e la città coloniale di Mérida. Tornare in Messico, anche se in località molto diverse rispetto allo Yucatán, per certi sensi è un po’ un piccolo deja-vu. Il Zocalo di Oaxaca mi ricorda un po’ la piazza principale di Mérida, così come le casette basse e colorate e l’aspetto della gente locale. 



Oaxaca dev’essere bella tutto l’anno ma in questi giorni è doppiamente bella. 




Come lo festeggia il Giorno dei Morti il Messico non lo festeggia nessuno e questo si deve alla specifica miscela tra credo cattolico, importato dagli europei e esercitato in tutta l’America Latina in modo fervente e le tradizioni di popolazioni del centro e sud del Messico, tra cui gli Aztechi, che inizialmente festeggiavano i propri morti per almeno un mese a ridosso del mese di Agosto. 


Mentre generalmente il giorno dei morti è un evento solenne e malinconico, in Messico viene festeggiato con una certa allegria. Alla base di tutto sta il concetto che la notte tra il 31 di ottobre e il primo di novembre i defunti possano ritornare spiritualmente nel mondo dei vivi, e già che è solo un giorno all’anno in cui teoricamente possiamo entrare di nuovo in contatto coi nostri cari deceduti i messicani non hanno di certo intenzione di intristirli o sprecare tempo. 

Per questo la notte del 31 e per un paio di giorni prima e dopo questa data in Messico si organizza una grande festa in cui tutti si divertono e vanno al cimitero a onorare chi non c’è più, portando loro la compagnia della famiglia e varie offerte cerimoniali in forma di cibo e pure alcol. 
Data la grande presenza indigena nello stato di Oaxaca questa è una delle zone del Messico in cui la festività è più sentita e celebrata e dove l’impronta preispanica è più forte. Quando progettavo questo viaggio per me non c’è mai stato nessun dubbio che se mai fossi arrivata in Messico per questa data speciale sarei stata proprio a Oaxaca per viverla. 
I preparativi fervono ovunque e la città pullula di eventi culturali, concerti e decorazioni. Vedo già molti artisti di strada che offrono i propri servizi per dipingere volti e i venditori di Cempasúchil, i fiori tipici dai colori sgargianti di questa festa il cui profumo tradizionalmente serve a guidare i morti verso il mondo dei viventi. 



Visito i due mercati principali di Oaxaca, il Benito Suárez e il 20 de Noviembre. Nel primo è possibile trovare ogni sorta di prodotto, dalle camicie Lacoste a secchi colmi di varietà infinite di peperoncini.


Questi mercati sono dei buoni punti per ricordare che c’è solo un’altra cosa per cui Oaxaca è famosa oltre alla sua festa dei morti, ed è la sua cucina. Ci sono piatti e prodotti che si possono trovare solo qui, come il famoso Mole. 

Il Mole è una salsa che si può servire con qualsiasi tipo di carne e, nel piatto finale, l’attenzione principale è appunto riservata alla salsa e non alla proteina con cui viene servita. Preparare il Mole non è un gioco da ragazzi, a seconda della ricetta infatti si usano dai 20 ai 30 ingredienti, tutte cose che a primo impatto sembrano un gran casino ma che, se sapientemente bilanciati, creano salse molto complesse e ricche di sapore. 

Oaxaca è famosa in tutto il Messico per i suoi sette tipi di Mole, ognuno preparato con una combinazione di ingredienti diversi : il nero, il giallo, il rosso, il verde, il coloradito, Chichilo e Manchamantel. 


Al mercato trovo basi per la preparazione dei vari mole in versione polvere o pasta e ho modo di provare un delizioso Mole nero, che conta ben 34 ingredienti tra cui il cioccolato, servito con del pollo e delle tortillas che niente hanno a che vedere con quelle cose che sanno da plastica che chiamiamo tortillas in Europa. 


Mi aggiro per le strade soleggiate di Oaxaca in maniche corte, fa calduccio ma non è umido. Ci sono belle stradine decorate da grandi alberi lussureggianti e le molte casette colorate ospitano negozi di bell’artigianato e piacevoli locali dal gusto messicano. 







La sera esco per mangiare qualcosa e la mia fame viene saziata nuovamente dal mercato. Vado in cerca di un qualcosina di dolce per finire la serata e mi trovo sul corso principale della città, chiamata Alcalá, un’ampia via pedonale che oggi pullula di gente. Sono cominciati i festeggiamenti per il giorno dei morti e mi imbatto in bande musicali, maschere tipiche e una serie di altari dedicati ai defunti all’interno della biblioteca principale che stasera tiene le porte aperte al pubblico. 







Finisco la serata sorseggiando una Michelada, una birra servita con sale, limone e peperoncino, mentre osservo una coppia ballare sulle note suonate da una banda locale. 

Domani mi aspetta la vera e propria celebrazione del Dia de Muertos e non vedo  l’ora. Sono anni che sogno di essere in Messico per l’occasione e ho sempre pensato che mai ce l’avrei fatta di esser potuta venir qui in un periodo che normalmente non coincide con le classiche ferie. 

E invece eccomi qua, un piccolo sogno diventato realtà. 

Una noche de ( quasi) amor a Città del Messico e trasferimento verso sud 

Nuovo mese, nuovo paese. Benvenuti in Messico! 
Atterriamo a Città del Messico che sono le 20:30. Purtroppo non sono seduta al finestrino ma ho comunque modo di osservare la distesa senza fine che è questa metropoli che conta più di 20 milioni di abitanti. 
Come un terzo degli abitanti dell’Italia. 
Come due Portogalli messi assieme. 
Come quattro Norvegie. 
Davvero numeri da far girare la testa! 
Atterriamo in quello che sembra il centro città, l’aeroporto infatti è localizzato ben dentro ai confini cittadini. 
Non mi fermo a Città del Messico, o meglio non ancora.

Nei miei piani ho fatto coincidere il mio arrivo in Messico con la famosa Festa dei Morti, che in questo paese si festeggia notoriamente in gran stile, in un misto tutto particolare di tradizione cattolica e preispanica. 
Ho sempre sognato di essere in Messico per il Dia de Muertos, così lo chiamano qui, e ho sempre desiderato vedere le celebrazioni che si preparano a Oaxaca, una città nel sud del Messico famosa per la propria specifica identità indigena e per essere uno dei posti che lo celebra in maniera più sentita. 

Da quando ho deciso di includere il Messico in questo viaggio ho organizzato tutto attorno al fatto che sarei stata a Oaxaca in questi giorni, e per questo mi serve passare solo una notte a Città del Messico. Per ora. 
Due settimane fa cerco una sistemazione veloce e possibilmente contenuta nel prezzo che sia relativamente vicina all’aeroporto e alla stazione degli autobus. Una missione quasi impossibile, dato che quasi tutto è già stato prenotato e che le distanze a Città del Messico fanno venire le vertigini e qualsiasi cosa che sembra vicino sulla mappa si trovi in realtà anche a ORE di distanza, traffico permettendo. 
Su Booking trovo una stanza singola in un’area decisamente non turistica ma relativamente vicina a quello che mi interessa. Le sistemazioni scarseggiano così tanto che non ci penso molto e prenoto senza molte esitazioni. 
L’aereo atterra, dobbiamo aspettare a bordo per ben 10 minuti che arrivi il bus shuttle che ci porti al terminale. Quando finalmente entriamo il labirintico aereoporto Benito Juarez di Città del Messico, come è di prassi, ci mettiamo in fila per farci stampare il passaporto dalla dogana. 
L’attesa dura per più di un’ora, forse un’ora e mezza dal momento in cui mi metto in fila al momento in cui mi viene restituito il passaporto dalla guardia. 
Mi aspettavo un trattamento più severo verso i cittadini americani dopo le tensioni tra i due paesi nell’ultimo anno, invece sembrano passarla liscia come qualsiasi altro straniero. 

Beh, o quasi. Chi invece si deve preparare a un vero e proprio interrogatorio lungo e fitto di domande sono i cittadini colombiani, ” colpevoli” di avere il passaporto del paese che anticamente regnava nel traffico di droghe e che viaggiano verso quello che a tutti gli effetti è ora il vero paese epicentro del narcotraffico. 

Come immaginerete, sul mio volo da Bogotá di colombiani ce n’erano parecchi. 
Quando finalmente l’attesa straziante si conclude arrivo alla zona di ritiro bagagli, mi capita per la prima volta che il tappeto già non è più in funzione e il mio zaino e i bagagli di altri passeggeri sono stati adagiato sul pavimento. 
Esco, cambio qualche euro in pesos messicani tanto per avere un po’ di soldi e prendo un taxi autorizzato. 
Il tassista mi domanda come mai vado ad alloggiarmi in una zona così poco tranquilla. 

Io gli spiego che ho bisogno di un letto solo per una notte e che non intendo salire dalla stanza. 
Gli chiedo per curiosità se per ” poco tranquilla” intende che è una zona di feste o se è una zona pericolosa, e mi fa capire che intende più la seconda opzione che per la prima. Non lo nego, mi preoccupo un pochino, però come avevo già detto il piano era solo dormire e il giorno dopo prendere un taxi e via. 
Troviamo l’hotel, un edificio dipinto di vari toni di rosa e con cuori che campeggiano ovunque.
Mi assale il dubbio. 
Entro in reception e sono separata dagli addetti ai lavori da un vetro nero da cui loro possono vedermi ma io non vedo loro. 
Il dubbio si ingrandisce. 
Mentre trattano del mio check in mi guardo intorno: vari avvisi sulla sicurezza del posto, regole di check in e check out,cuoricini ovunque, prezzi a ora. 
Porca miseria, sono finita in un motel. 
È troppo tardi per cambiare, non saprei dove andare e il naso fuori dall’edificio non ce lo metto neanche se mi pagano. Siccome lo staff è decisamente cortese e amichevole, decido di vedere la stanza prima di prendere una decisione. 
Usciamo dall’edificio dalla parte posteriore e vengo condotta verso un blocco lungo dove si accede alle stanze da fuori, proprio stile motel. 
Ho un garage personale e, salire le scale, la mia stanza è ampia così come il mio bagno. C’è un segnale da mettere sulla porta per non disturbare sponsorizzato da una marca di preservativi, e vicino al telefono trovo un messaggio che mi invita a chiamare la reception nel caso in cui voglia consultare il loro catalogo erotico. 




Mentre esploro l’alloggio devo concludere che di fatto sembra tutto pulito e decente, l’acqua della doccia è calda e il Wi-Fi ha un forte segnale. Potrebbe essermi andata peggio. Chiudi la porta a chiave e mi preparo a dormire, fuori il sabato sera impazza e sento il rumore di un sacco di petardi e gente che urla. 
Verso mezzanotte sento dei rumori filtrare la barriera dei miei tappi per le orecchie e mi sveglio. Un uomo e una donna discutono giovialmente a un volume di voce molto alto, così alto che sospetto siano vicini, molto vicini. 

Tipo al piano terra. 

Tipo nel mio garage. 
Ho la porta chiusa a chiave quindi sono al sicuro, ma non so bene cosa stia succedendo. 
La donna sale le scale continuando a civettare, arriva a cercare di aprire la porta e la sento rivelare all’uomo che è chiusa. Segue uno scambio di parole che non capisco, si devono essere accorti dello sbaglio e in pochi minuti se ne vanno. Io che ormai 20 anni non ce li ho più ( Lo sappiamo tutti che più si va avanti con l’età e più scende il livello di pazienza per certe cose!) e che magari dieci anni fa avrei lasciato passare chiamo la reception decisamente irritata: il garage , che poi è la porta principale del mio ” mini appartamento”, la posso solo aprirei io da dentro o la reception da fuori, quindi mi è chiaro che qualcuno alla reception ha aperto il mio garage dimenticandosi che la stanza era già occupata da me. Tollero tante cose, ma siccome sto pagando per questa stanza e già che sto mandando giù un sacco di cose su come funziona questo hotel davvero, ho poca tolleranza per la distrazione che può portare a una mancanza di sicurezza. La reception si scusa profusamente e decido che se mi mandano un’altra coppia di piccioncini alla porta tiro su un putiferio.

Per fortuna per il resto della notte non succede più niente, ma ora ho perso il sonno e voglio assolutamente che arrivi la mattina per togliermi da questa situazione poco piacevole in cui mi sono messa. 
La mattina arriva e tuttosommato ho pure dormito bene. Chiamo un Uber per dirigermi alla stazione degli autobus e l’autista è cortese e cominciamo subito a chiacchierare. 

Con delicatezza mi chiede cosa ci facevo in una zona così, io gli spiego il malinteso e lui si mette a ridere di gusto. Ammette che a Città del Messico ci sono moltissimi ” hoteles del amor” , come li soprannominiamo sul momento , e in maniera educata ma ironica mi prende un pochino in giro per la mia scelta. Io incasso e me la rido, concordiamo che almeno avrò una storia interessante da raccontare al mio ritorno: la mia Noche de pasión en la Ciudad de México! 
Ero talmente concentrata a sopravvivere al controllo passaporti e al mio hotel dell’amore che ho tralasciato la prenotazione di un bus. Arrivo alla stazione degli autobus di Città del Messico e cerco una compagnia con l’autobus che salga dalla città il prima possibile, e purtroppo quelli del mattino sono tutti prenotati. Mi vedo costretta a prenotare un posto su un bus che parte all’una, e sono solo le nove e mezza. 
Al posto di piangere sul latte versato decido di prendere la mattinata per organizzarmi con ciò che offre la stazione, ritiro dei soldi e compro una scheda sim messicana. 

Parte delle priorità come primo giorno in Messico: il taco giornaliero!

Finalmente giunge l’ora di partire da Città del Messico e l’autobus parte in orario.

Percorriamo la strada che porta fuori dalla metropoli e, come ormai da tradizione, mi appisolo in men che non si dica. 

Quando riapro gli occhi siamo in mezzo al verde, un paesaggio che potrebbe benissimo essere Italia. 
Gradualmente le conifere fanno spazio a una vegetazione diversa, meno familiare, intravedo anche molti cactus. 

Le dolci colline diventano bei monti una volta entrati nello stato di Oaxaca, e mentre osservo il paesaggio cala la notte. 


Il bus finalmente arriva a Oaxaca che sono le otto e mezza. Trovo il mio ostello, questo sì prenotato mesi addietro vista la grande popolarità delle sistemazioni disponibili in città a ridosso del giorno dei morti, e vado in cerca della cena. 
Mentre seguo I profumini di cibo nell’aria mi aggiro per il centro di Oaxaca, che si sta preparando per le feste che si intensificheranno già da domani. Il centro mi da una buona impressione e posso girare tranquillamente senza apparenti pericoli. Individuo un posticino che fa tacos in stile oaxaqueño e me ne sbafo ben cinque a un prezzo davvero irrisorio. 
Torno in ostello presto, non ho fatto molto oggi ma lo ” stress” della notte prima, la lunga attesa in stazione e il viaggio in autobus mi hanno stancata. Non vedo l’ora di visitare Oaxaca domani! 

Il paesino coloniale e ultimo ritorno a Bogotá 

Mi sveglio a Villa de Leyva con il belato di una capretta che scorrazza libera per la strada. 
Mi preparo velocemente per uscire e visitare il centro abitato. 

Villa de Leyva fu fondata dagli spagnoli e mantiene tutt’ora un’architettura prettamente coloniale. Qui poco è cambiato nel tempo e giustamente sembra di essere in Spagna o in Alentejo in Portogallo più che in Sudamerica. 

Il ciottolato della piazza dev’essere un incubo per chiunque porti i tacchi!

Il fine settimana sembra venga invaso da bogotani in cerca di pace e idillio bucolico, ma durante la settimana è tutto molto più tranquillo. Villa de Leyva è così sonnecchiante che appunto, non vedo quasi nessuno in giro e molti negozi sono chiusi o vuoti.

 




Contavo di starci il più possibile e poi prendere un bus per Bogotá verso il primo pomeriggio ma devo dire che il centro è così piccolo che nel giro di due ore già non so più che fare, quindi sorseggio una cioccolata calda fatta con del cacao locale e studio la via del ritorno.


Le borse tradizionali colombiane, le mochilas. A Villa de Leyva le fanno in uno stile tutto loro, meno decorate e in lana grossa

Una delle mie cose preferite in Colombia. I ghiaccioli fatti in casa!

È anche questo il bello di viaggiare nella modalità in cui sto viaggiando: se un posto piace è sempre possibile starci un po’ più a lungo, e se si rivela non proprio nelle nostre corde o se la visita non necessita di molto tempo è facile spiccare il volo e dedicarsi ad altro. 
Prendo il bus delle 12:30, un minivan di certo non lussuoso ma decisamente dignitoso e… non ci crederete mai. Partiamo alla mezza spaccata. 
Contenta per l’inaspettata puntualità mi metto comoda e mi godo il paesaggio per le prossime 4 ore di viaggio. 
Arrivando a Bogotá in realtà ci mettiamo ben un’ora dall’entrata nella città al terminal degli autobus, tra traffico e autista che si ferma ogni tre secondi per far salire e scendere varie persone che utilizzano il servizio per spostarsi da casa a lavoro e i venditori ambulanti che cercano di venderci ogni sorta di leccornia e libazioni. 
La sera mi ritrovo con uno dei due amici fatti a Medellín e che ora stanno passando qualche giorno nella capitale, dall’indomani loro partiranno verso sud e anche io pian piano mi sposterò più a nord. Dopo cena ci salutiamo ripromettendoci di rivederci un giorno da qualche parte nel mondo: così sono le amicizie fatte on the road , le poche ore che si passano insieme sembrano giorni e si creano bei legami. 
È sempre interessante vedere come si rapportano i viaggiatori in solitaria con il resto delle persone. Dopo qualche settimana si comincia ad entrare in una logica per cui si cerca il contatto umano: viene spontaneo e sempre più facile parlare con persone sconosciute e aprircisi, parlando della propria vita, le proprie idee, aspirazioni, paure. Si finisce per trattare tutti come potenziali amici e ci si prende dentro ad ogni occasione per avere un po’ più di compagnia, nel visitare qualche posto o anche semplicemente per dividere un pranzo. C’è poi quel vecchio desiderio di voler avere qualcuno al nostro fianco con cui condividere i momenti unici e le esperienze vissute in un viaggio così importante, ed è sempre bello poter pensare che c’è qualcuno al mondo con cui potrei inviare una conversazione sui bei tempi vissuti per esempio a Cusco o a Medellín. 
Non c’è viaggiatore in solitaria che non sia aperto e comunicativo: era proprio vero quello che diceva Jørgen, si è soli solo se lo si vuole. 
I miei giorni in Colombia stanno scadendo e oggi mi rimane tutta una giornata a Bogotá senza molto da fare. Mi dedico alle ultime compere e a riorganizzare nuovamente lo zaino per prepararmi alla prossima grande meta, che come per “ tradizione” vi svelerò solo all’ultimo momento. 

Tre settimane e mezza in Colombia sembrano molte ma a me sembra di aver appena grattato la superficie di un paese così complesso e multi sfaccettato. Più tempo rimango e più mi rendo conto di quante cose mi rimangono ancora da vedere. Tanto meglio, significa che dovrò assolutamente ritornare. 
La situazione politica in Colombia si è recentemente stabilizzata permettendo l’arrivo del turismo in tutta sicurezza, e spero che le cose continuino così ancora per molto tempo. 

Nel dubbio io vi consiglio di approfittarne e lanciarvi alla scoperta di questo meraviglioso paese pieno di perle, dai paesaggi alla sua calorosissima gente, ora che si è aperta questa finestra. Conosco pochi paesi al mondo che abbiano così tanto da offrire sia al turista alle prime armi che al viaggiatore incallito che ormai non si fa più impressionare facilmente. 

Viste di Bogotá dall’alto e cambio di scenario per una notte 

Lunedì dedico tutta a giornata a una sola attività, andare a vedere Bogotá dall’alto a Monserrate, un monte su cui troneggia un monastero da cui si gode una vista su tutta la metropoli. 
Ho titubato per molto prima di andarci, avevo sentito “ storie dell’orrore” di furti abbastanza intensi e non volevo andarci da sola, ma mancandomi la compagnia o ci vado da sola o non ci vado proprio. 
Decido di spostarmi in taxi, anche se non è troppo lontano e potrei arrivarci tranquillamente a piedi voglio che qualcuno mi molli proprio all’entrata in modo da minimizzare i rischi. 
L’idea si rivela buona perchè infatti non mi trovo mai ne sola ne esposta, e non c’è modo di incorrere in pericoli. 
Per raggiungere il monastero di Monserrate si prende una funicolare che, in un paio di minuti, ci trascina su per il monte e passiamo improvvisamente dai 2600 metri sopra il livello del mare di Bogotá centro a 3200 metri. 
Camminando attorno al monastero sento l’altitudine, improvvisamente uno scalino sembra una torre e dopo due passi ho il fiatone. Per fortuna c’è poco da camminare e molto da ammirare: la vista da quassù è incredibile e si riesce davvero a capire quanto estesa sia questa città che conta ben 10 milioni di abitanti.






Mentre ammiro il panorama scambio qualche parola con un ragazzo venezuelano di Caracas e finiamo per chiacchierare a lungo. Anche lui sta viaggiando brevemente da solo e mi invita a pranzo in centro. Io che non ho nient’altro da fare accetto. 
Sarei tentata di riprendere l’autobus per il ritorno, non fidandomi di camminare, ma il ragazzo propone di fare il tragitto a piedi perché all’andata non gli è sembrato male. Si parla di criminalità e furti, mi fa vedere il suo braccio su cui è presente una grande cicatrice profonda e mi racconta che qualche tempo fa si trovava in una località remota del suo paese a compiere il suo lavoro di fotogiornalista quando una banda di ladri l’ha assalito con delle bottiglie rotte. Mi dico che se lui si fida a fare il tratto a piedi dopo le esperienze passate, allora mi fido anche io. 
Camminiamo e continuiamo a parlare di Italia, Norvegia e soprattutto di Venezuela. Mi racconta di come le cose stanno andando di male in peggio, di come lo stato non proibisca l’emigrazione ma la rende così ostica e costosa che di fatto solo pochi venezuelani possono davvero fuggire, di come le elezioni siano sempre truccate e come la classe al potere, i politici e l’esercito, siano in una posizione troppo favorevole per loro per ascoltare le proteste del popolo. Mi confessa che il suo paese gli piace tanto ma che sfortunatamente non vede una soluzione prossima ai problemi del Venezuela e che vorrebbe tanto emigrare. Magari la Colombia, meglio ancora il Messico, ovunque si accettino ancora venezuelano dato che sempre più paesi stanno chiudendo loro le porte sia per non ritrovarsi nuovi immigrati che per non creare problemi col governo venezuelano. 
Camminiamo per la via del ritorno e mi sembra tutto sicuro e tranquillo. È proprio vero quello che si dice, le cose bisogna provarle prima di giudicarle. 
Pranziamo in centro e poi ci salutiamo, io torno in ostello e me la prendo con comoda per il resto della giornata. Riorganizzo lo zaino che, dopo due mesi che viene fatto e disfatto ogni paio di giorni comincia ad essere bello grasso e mi concentro su cosa fare il giorno dopo. 

Non so più cosa fare a Bogotá così mi convinco che potrei fare una piccola gita fuori porta a Villa de Leyva, circa quattro ore di bus dalla capitale. 

Per la prima volta non pianifico alla perfezione il trasporto, mi fido che a qualsiasi ora arrivi in stazione degli autobus troverò un qualche tipo di trasporto senza fasciarmi tanto la testa. 

La mattina mi sveglio presto ma senza fretta, colazione, ultima sistemata allo zaino che lascio in custodia in ostello ( Mi porto dietro solo un minizaino dato che passerò solo una notte fuori) , chiamo un Uber e in mezz’ora sono nella stazione degli autobus. 

Nonostante sia grande ho capito come funziona, mi dirigo nel terminal giusto navigo tra le mille compagnie di trasporti che propongono le corse, trovo quella che avevo letto essere la più consigliata, compro il biglietto e mi affretto alla porta d’imbarco dato che il bus parte tra cinque minuti. Così mi dicono, ma tanto noi lo sappiamo già che non partirà tra cinque minuti no?
Molto sull’autobus, ancora una volta un mezzo pulito e moderno. La partenza è prevista per le 10:05. 
E indovinate a che ora partiamo? 
Alle 10:06. 
Cosa??? Aspetta, stiamo partendo in orario? 

Non ci credo, mi guardo attorno, sono confusa ma si, stiamo partendo. 
Usciamo dal terminal dei trasporti e ci immettiamo nel traffico intenso di Bogotá. 
Dopo un’ora siamo ancora a Bogotá immersi in un mare di auto. Per fortuna siamo partiti in tempo, penso, almeno questo! 
Poi ci fermiamo un una specie di stazione. L’autista spegne il motore. E per mezz’ora aspettiamo nuovi passeggeri che pian piano montano a bordo. La mia gioia per la partenza in tempo sta progressivamente calando. 
Finalmente ci lasciamo dietro la città e comincia un bel paesaggio verde e che ricorda molto la nostra Europa. 


L’autista ci delizia con un film, una pellicola d’azione hollywoodiana tutto Vin Diesel, tette e umorismo scontato, peggiorato solo dal doppiaggio in spagnolo. 
Non ho trovato un bus diretto da Bogotá a Villa de Leyva quindi mi sto dirigendo verso una cittadina chiamata Tunja, che è poi da dove partono molti minibus per la più piccola Villa de Leyva .

Arrivata alla stazione dei bus di Tunja non trovo indicazioni scritte per i minibus per Villa de Leyva ma basta affinare l’orecchio per sentire gli autisti che gridano “ Villa de Leyva!” per farsi individuare facilmente. 

Salgo a bordo del piccolo van e a fianco a me si siete una señora del posto che… diciamo è di dimensioni generose. Io seduta a fianco del finestrino mi trovo strizzata e privata di metà del mio sedile, accomodata in una posizione un po’ innaturale. 
Mentre ci dirigiamo a Villa de Leyva la señora si comporta un po’ come fossi io a invaderle lo spazio, io faccio finta di niente e anzi, nonostante la posizione poco comoda mi addormento come un sasso.
Apro gli occhi e siamo al capolinea: finalmente dopo cinque ore in totale di viaggio sono a Villa de Leyva! 
Villa de Leyva è un paesino fondato dagli spagnoli costituito interamente da edifici di epoca coloniale. 



Servono solo un paio di minuti camminando per le sue strade per avere un senso di Deja-Vu, ricorda molto un paesino spagnolo o della regione dell’Alentejo in Portogallo. 
Questa notte dormo in una specie di pensione, una bella casa coloniale con una zona comune, un magnifico patio e molte stanze, che di solito vende le sue stanze private a 34€ ma io sono riuscita ad accaparrarmi un prezzaccio last minute e pago solo 8€. Mica male! 


Fatto il check in gironzolo un po’ per il centro per farmi una prima impressione, anche se la vera e propria visita la lascio per domani mattina. 







Torno a casa con un gran mal di testa, che da una parte mi rovina la serata ma dall’altra preferisco stare male qui, che ho una stanza tutta mia, la mia privacy e tanta calma attorno, che essere a Bogotá in mezzo al casino. 
Ci sentiamo domani per un po’ più di Villa de Leyva! 

Dal forno al freezer 

L’aereo per Bogotá parte da Cartagena con un’ora di ritardo perché ormai è così, quando mi sposto in giro per la Colombia se non c’è un po’ di ritardo allora ci sarebbe qualcosa di strano. 

Addio forno!
 

Atterro all’aereoporto El Dorado e nel giro di un’ora piombo dai 32 umidissimi gradi della costa caribeña ai 12 gradi della capitale. Mi viene in mente Gabriel García Márquez, originario di un villaggio a qualche ora da Cartagena, e le famose parole nell’autobiografia che spiegano cosa avesse pensato da ragazzo quando si trasferì a Bogotá per studi e la visitò per la prima volta : 

“ Era una città remota e lugubre dove una pioggia insonne cadeva apparentemente dall’inizio del sedicesimo secolo”. 

Non è mistero che il quattordicenne García Márquez non ebbe un amore a prima vista per la capitale del suo paese. E come potrebbe lui, abituato fino ad allora al clima torrido della costa, amare una città che tutti i colombiani chiamano ironicamente La Nevera , “ il freezer”? 

A me che non sono caribeña però questo fresco non dispiace, anche se ho una punta di freddo pure io. 

Questa volta sto in un ostello leggermente più centrale rispetto a quello che avevo scelto appena arrivata a Bogotá quasi tre settimane fa, e ne sono contenta. I luoghi di interesse sono più vicini e posso perfino salire brevemente la sera senza temere pericoli. 

La giornata successiva passa senza una vera e propria attività programmata e gironzolo per la città. Come a Lima la prima volta anche per Bogotá vivo una prima visita, in cui mi sono dovuta abituare non solo alla nuova città ma anche a un nuovo paese con tutta una serie di novità e cose da imparare, e una seconda visita in cui ritorno a vedere luoghi già visitati ma ora senza la pressione di dover imparare come funziona la città e il paese. 

Cambia l’esperienza del posto soprattutto perché sono cambiata io. Appena arrivata a Bogotá avevo ancora qualche dubbio sulle mie qualità di viaggiatrice zaino in spalla, alla fine avevo fatto tutto il Perù ( Fatta eccezione per Cusco-Lima) spostandomi con quel servizio di autobus che mi portava da ostello a ostello e facevo molte gite attraverso dei tour che organizzavano il trasporto e mi chiedevo se sarei stata in grado di spostarmi autonomamente in giro per la famigerata Colombia che teoricamente presentava pericoli a destra e a manca. 

A tre settimane di distanza e dopo tutto un itinerario compiuto senza l’aiuto di nessuno torno a Bogotá con una rinnovata confidenza nelle mie capacità. Non solo sono riuscita a spostarmi da sola ma sono sempre stata al sicuro e non sono incappata in nessunissimo problema. È proprio il caso di dirlo a voce alta: non solo la Colombia è un paese straordinario con così tante cose da vedere che tre settimane servono solo a grattarne la superficie , ma osservando le classiche regole di sicurezza personale che si adottano nel resto dell’America Latina è possibile non incappare in nessun tipo di problema. Quello che è sicuro è che le strade sono sicure, i trasporti moderni e il circuito turistico battuto abbastanza da non essere gli unici sulla strada ma ancora vergine abbastanza da non essere inondati da orde di altri turisti. 

Ossia, un vero paradiso per il viaggiatore. 

Comincio ora e non finirò di dirlo molto presto, ma in Colombia ci dovrebbero venire tutti e subito! 
Mi muovo per Bogotá con molta più confidenza della prima volta e comincio a sentirmi pronta e “ matura” abbastanza per la prossima meta che raggiungerò questo sabato. Meglio, perché atterrerò in quella che si dice sia la città più grande del mondo e ho bisogno di tutta la confidenza possibile per navigarla.
Per ora però mi gusto gli ultimi giorni colombiani, e come mi mancherà questo bel paese! 
Rivisito alcuni luoghi visti tre settimane fa e mi sento a mio agio.






Per la Candelaria molte insegne e nomi di vie sono scritti con questo carattere
Cioccolato caldo alla colombiana. In Colombia, e soprattutto a Bogotá , la cioccolata è molto liquida e viene servita accompagnata da un paninetto spalmato di burro, un’almojabana ( un paninetto dolce fatto di formaggio e farina di yuca) e… un pezzo di formaggio. I paninetti vanno intinti nella cioccolata mentre il formaggio… va spezzettato e buttato dentro la tazza! A contatto col calore il formaggio si scioglie un pochino e lo si raccoglie col cucchiaio per mangiarlo. Sembra un abbinamento stranissimo ma non è così terribile come sembri!

 La grande “ missione” di oggi è cercare un ufficio postale per mandare un paio di cartoline. Vi sembrerà strano ma cerco dei francobolli da ormai due settimane, invano. 

“ Sellos para postales?” Francobolli per delle cartoline, chiedo in innumerevoli negozi. Ricevo sguardi perplessi e/o confusi, nessuno li vende e molti non saprebbero nemmeno dove consigliarmi di andare. Ho cercato uffici postali a Medellín e Cartagena ma niente. Oggi ho tutto il tempo a disposizione e mi lancio in una ricerca approfondita. Finalmente a forza di chiedere qualcuno mi segnala un ufficio dove trovo sia i francobolli che la maniera di mandare le cartoline e mi viene spiegato l’arcano. 

La Colombia non ha le poste. 
O meglio, non esiste un’entità statale che funzioni come le poste. 

Mi sembra di capire che un cittadino che ha bisogno di mandare qualcosa si dirige in uno di questi pochi uffici, forse dei servizi di posta privati. Non so perché ma di un paese senza posta statale non ne avevo mai sentito parlare! 
La sera mi ritrovo con l’italiano e il ticinese incontrati a Medellín una settimana fa e che fatalità stanno passando qualche giorno a Bogotá prima del loro volo verso la zona amazzonica della Colombia. 

Riflettiamo un po’ sulle differenze tra Medellín e Bogotá : la prima avrà pure quartieri in cui non ci si mette piede e il centro di giorno ha aree che sono sicure e altre meno e la sera non sembra essere una buona idea andarci, ma è anche vero che esiste una zona benestante, pulita e “ ripulita” dai pericoli dove si può girare senza grandi pensieri anche la sera, anche con oggetti di valore, senza impensierirsi. E senza il bisogno di grandi forze di polizia dispiegate per mantenere la sicurezza.. 
Bogotá non sembra avere questo tipo di zona e perfino nella zona turistica della Candelaria una via può essere sicura e quella a lato un po’ meno. Si vedono bogotani vestiti in maniera ricercata e moderna ma anche tanti barboni e mendicanti in estrema povertà. Inoltre ovunque sono visibili gruppi delle forze dell’ordine, polizia ma anche l’esercito, armati fino si denti con tanto di mitra e enormi cani con la museruola. La sera poi passata una certa ora cala una strana pace e le strade di svuotano. 

Mi da l’idea che le zone sicure di Medellín siano state precedentemente “ripulite” dai pericoli: almeno qui non si vede povertà , ci sono molti pochi poliziotti e non ho visto nessun mitra dispiegato. Forse quello che sta avvenendo a Bogotá è una forma di pulizia che in quelle zone di Medellín è già stata compiuta da qualche anno. 
Se poi includiamo Cartagena nell’equazione, le differenze non potrebbero essere più grandi. La città caraibica non sembra porre nessun pericolo più grave di quelli che si potrebbero incontrare in una cittadina europea, e di forze dell’ordine se ne vedono molte poche. A Cartagena si può andare in giro ovunque nel centro storico con cellulare e macchina fotografica a vista, a Bogotá è meglio guardarsi attorno prima di tirarli fuori dalla borsa, si scatta una foto veloce o si manda un breve messaggio e li si nasconde di nuovo prontamente . 
E se dovessimo aggiungere anche la sonnacchiosa Salento nella discussione, beh allora dobbiamo ricordarci che li non c’era l’ombra di pericolo ne di tensione, un vero paradiso. 
Ho deciso di rimanere un altro giorno almeno a Bogotá, mi sento pigra e non mi va molto di spostarmi. Delle volte in un viaggio così lungo servono anche dei giorni di inattività, una vacanza dalla vacanza che ironicamente sembrano ai giorni di trantran quotidiano di casa, fatto di andare al bar, in qualche negozio, magari un una libreria e godersi il dolce far niente. 
 

Acqua cristallina e Playa Blanca 

Il bus shuttle per Playa Blanca è previsto per le 8:30.
Esatto, avete indovinato: ovviamente partiamo alle 8:50.


Attraversiamo la periferia di Cartagena e costeggiamo il suo porto, che sembra essere ancora grande e importante come lo è da secoli. Vedo anche segni della nuova fonte di ricchezza di Cartagena oltre al turismo: le raffinerie di petrolio. 
Vorrei restare sveglia per vedere il tragitto verso la spiaggia ma mi addormento come un sasso. La sera prima le mie compagne di dormitorio erano in vena di festa e io che son la vecchietta di casa che non ha voglia di festeggiare non ho accumulato molte ore di sonno. Questo, oppure mi sto davvero abituando ai viaggi in autobus e appena si accende il motore perdo i sensi e mi appisolo all’istante! 
Apro gli occhi e siamo in mezzo al verde.
La Playa Blanca si trova a circa un’ora e mezza da Cartagena su un isola chiamata Barú. Fino a recentemente era una penisola ma la costruzione di una nuova diga l’ha trasformata in un isola a tutti gli effetti. 
Per gli amanti delle spiagge, Cartagena non offre il meglio del meglio che ha la Colombia ma si difende bene. Le gite più popolari sono verso le Isole del Rosario, poco fuori città e raggiungibili da lance. 
Ieri ho potuto scegliere tra una giornata in una delle isole del Rosario a un costo esorbitante e un trasporto verso la più vicina Playa Blanca, con un prezzo molto più alla mano. Non essendo un’amante delle spiagge e leggendo che probabilmente ci sarà brutto tempo non ho avuto dubbi e ho optato per la soluzione più economica. 
Al nostro arrivo ci accoglie una marea di giovani ragazzi che cercano insistentemente di venderci di tutto e rimpiango le giornate tranquille a Salento, Medellín e perfino Bogotá dove nessuno ti importuna in quanto perenne fonte ambulante di soldi solo perché si ha la faccia da gringo. 

Arriviamo alla spiaggia e effettivamente è molto bella, con l’acqua cristallina e una ricca vegetazione. 
Cammino per un po’ in cerca della mia visione romantica di spiaggia caraibica: un albero dalla fronda lussureggiante sotto cui accoccolarmi leggendo un buon libro e ascoltando le onde del mare. 



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L’albero giusto non lo trovo ma in compenso scovo un angolo di spiaggia non affollato dove almeno posso godermi un po’ di pace. 

Per prima cosa mi immergo un po’ in acqua, il caldo è alle stelle e per raggiungere questo posto ho sudato così tanto che sembra sia appena uscita dall’acqua. Il mare è caldo ma offre rinfresco dalla calura, anche se appena usciti dall’acqua l’effetto rinfrescante dura poco. 
Mi piazzo nel mio angolino di spiaggia e leggo. 

O almeno ci provo. 

Ogni paio di minuti passa qualche venditore ambulante che cerca di vendermi di tutto, da collanine a ostriche. Certi se la mettono via dopo un sorriso e un No Gracias, altri invece devono pensare che se mi elencano tutta la lista degli articoli che vendono oppure se mi propongono un oggetto quattro o cinque volte mi sorgerà l’interesse e comprerò. Purtroppo mi tocca assumere un tono da maleducata e ribadire con fermezza e una punta di fastidio che NO GRACIAS, e delle volte nemmeno questo basta. 
Cedo solo a una persona: Macarena. 
Macarena parla tanto e offre massaggi. Non faccio in tempo a dirle di no che mi sta già palpeggiando il polpaccio, ovviamente sente molto stress nei miei muscoli e mi vede stanca e sciupata. Il tocco di Macarena è così piacevole che mi chiedo se non mi possa permettere un mini massaggio a questi piedi che gironzolano ormai da due mesi. 
50.000 pesos . Soli 14 euro ma in Colombia un certo sproposito, se calcoliamo che con 25.000 pesos mi faccio una cena. Dico a Macarena che non ho portato abbastanza soldi, che mi dispiace ma ciao. Lei allora mi propone uno sconto simpatia, 40.000 pesos! Sono ancora due delle mie cene, le sorrido e le dico che scusa, no. Giuro che non sto bluffando, penso semplicemente che non mi va di spendere così tanto. 

Macarena allora mi fa uno sconto di super simpatia, un massaggio più corto a 20.000 pesos. 

Mi convince, così mi godo un massaggio davvero ristoratore ai piedi e la vista sui Caraibi. 
In orizzonte si avvicina minacciosa una nuvolona color indaco e sento dei possenti tuoni in lontananza.


 Dopo qualche ora di sole la spiaggia si annuvola, anche se per fortuna non arriva mai a piovere. A me il sole a tutti i costi non interessa quindi continuò a leggermi il mio libro, gustandomi il relativo fresco creatosi e la pace di questo angolo di spiaggia. 




Cosa c’hai da guardare, gringa?

Arriva l’ora del ritorno in città e devo trovare di nuovo il parcheggio. Siccome la mattina arrivando in spiaggia ero distratta perché stavo parlando con una ragazza argentina (non tanto perché la conversazione fosse interessante ma perché l’accento argentino, ho scoperto, mi è ostico) e non ho fatto caso all’aspetto dell’entrata della spiaggia, passo una buona mezz’ora vagando nel tratto più affollato di Playa Blanca, facendomi strada tra ancora più venditori ambulanti che mi ficcano parei e braccialetti sotto il naso e bagnanti ovunque. 

Un paradiso poco paradisiaco
Finalmente trovo la via di casa e salgo sullo shuttle, già rinfrescato dall’aria condizionata. 
Di nuovo vorrei vedere il tragitto verso casa, ma di nuovo svengo con la testa appoggiata sul finestrino e la bocca indecorosamente aperta. 
La sera non fa molto caldo, o meglio: l’umidità è un po’ più bassa e si suda un po’ meno girando per le strade. Esco per la cena e penso a uno dei miei timori più grandi prima della partenza per questo viaggio: ma come farò a mangiare da sola? E come farò a gustarmi le cose senza la compagnia di qualcuno con cui condividerle? 

Quella del mangiare da sola, ho scoperto, non mi da assolutamente problemi e mi ci sono abituata alla grande, tanto che più quelle volte che ho compagnia per mangiare mi da quasi fastidio che si debba avere mille discussioni del genere “ Dove ti va di mangiare? Qua va bene? O proviamo più in là? O no qua? “ .

Il gustarsi le cose senza compagnia, invece, è un po’ più complesso, o meglio. Pensavo di starci peggio e invece non mi dispiace come pensavo mi dispiacesse, riesco a godermi le cose da sola anche senza compagnia e tutto sommato questo blog è un po’ la compagnia che non ho. Chiaramente mi piacerebbe avere le persone ai cui voglio bene accanto, ma siccome non è così ho imparato a gustarmi invece i lati positivi dell’essere da sola: indipendenza, non dover rendere conto a nessuno, libertà di fare quel che si vuole come si vuole.
Trovo un posticino moderno che fa Ceviche, siccome sono sulla costa ho intenzione di mangiare pesce a più non posso. Il locale propone una versione loro del classico Ceviche alla peruviana, solo che al posto del lime usano il Lulo, un frutto locale che ha note di agrume acido e un po’ di rabarbaro, e viene servito su un letto di carote tagliate a forma di spaghetti.

Purtroppo le luci non erano granché ma che piatto !

 Dei Ceviche mangiato fino ad ora qui a Cartagena questo è il re assoluto: adoro quando trovo qualcosa da mangiare che mi resta marcato nella mente anche molto dopo aver finito il piatto! 
Ultima notte a Cartagena, domani pomeriggio volo verso Bogotá e verso quasi venti gradi di meno. Per certi sarebbe una tragedia, io non vedo l’ora! 

A spasso per la città dai colori sgargianti 

Cartagena è un luogo pieno di storia. 
Si attesta una presenza umana in quest’area della Colombia già da 4000 anni prima della nascita di Cristo, si susseguono una dopo l’altra una serie di civiltà indigene. 
La città di Cartagena de Indias viene fondata da un comandante spagnolo chiamato Pedro de Heredia nel 1533 su ciò che precedentemente era un insediamento indigeno denominato Kalamarí. Le viene dato questo nome per via della cittadina spagnola da cui venivano la maggior parte dei suoi marinai, e le viene aggiunto “ De Indias” per distinguerla. 
In poco tempo Cartagena si impone come importante porto, il principale in Sudamerica per l’impero spagnolo e qui arrivava l’argento peruviano e boliviano che veniva poi trasportato verso la Spagna. La manodopera venne inizialmente affidata alle popolazioni indigene che molto presto cominciarono a perire per via del duro lavoro e le malattie portate dagli europei, e gli spagnoli procedettero a sostituire i lavoratori con schiavi importati dall’Africa. 

Cartagena era il porto d’entrata per molti schiavi che , per la maggior parte, venivano acquistati dagli spagnoli in territorio allora portoghese a Salvador de Bahia, dato che la traversia Africa- Salvador era ben più corta. 
L’importanza strategica di Cartagena la fece diventare un bersaglio ambito dai pirati che venivano supportati dai governi di Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi, e da subito si costruirono alte mura di protezione e una fortezza per meglio difendere il porto spagnolo. Queste costruzioni sono ancora ben visibili e in splendido stato nel centro storico di Cartagena, così come le chiese, le residenze e gli edifici costruiti dagli spagnoli. 
Nonostante le difese Cartagena venne attaccata varie volte dai pirati e nel 1586 venne gravemente danneggiata dall’aggressione del famoso pirata Francis Drake, che bruciò circa 200 case e la cattedrale e si ritirò solo dopo che le autorità spagnole gli pagarono un’ingente somma. 
Nel 1610 venne istituita la Santa Inquisizione anche a Cartagena, e le sentenze di eresia, blasfemia e stregoneria venivano punite con la morte, da attuarsi in una piazza ora denominata Piazza di Bolívar. 
La città giocò una parte importante nel processo di indipendenza dell’America Latina dall’impero spagnolo: qui si combatté cruentemente tra spagnoli e latinoamericani dal 1820 al 1821 e Cartagena uscì vittoriosa da un assedio, impresa che le valse il soprannome di “ città eroica” datore dal padre dell’indipendenza latinoamericana, Simon Bolivar. 
Oggi passo la giornata senza piani se non quello di girovagare per la città. 

Comincio la visita dalla Fortezza di San Felipe de Barajas che si trova a circa 15 minuti dal mio ostello. 


Sono le dieci del mattino, non faccio in tempo ad arrivare all’entrata che sto già sudando copiosamente. 


La fortezza si rivela un po’ scarna, forse sarebbe stato più interessante se mi fossi presa una guida. La cosa peggiore però è che non sembra esserci un accenno di ombra! Sono così accaldata che vedo pure ai prezzi esorbitanti del bar improvvisato nell’antica residenza del guardiano e pago quasi due euro per una limonata, che in Europa sono pochi soldi ma qua è un prezzo quasi esorbitante. 


Nonostante abbia pagato una cifra abbastanza alta per l’entrata ( Sempre rispetto ai normali prezzi colombiani) scappo dopo soli venti minuti, tempo di fare qualche foto alla bella vista sull’intera città che si gode dalle mura. 



Dopo una camminata sotto il sole cocente e l’umidità che ammazza trovo rifugio in un centro commerciale, si non é molto esotico e non serve volare da tutt’altra parte del mondo per qualcosa che trovo anche a casa ma c’é l’aria condizionata e ho bisogno di abbassare la temperatura corporea. 
Quando penso di essermi ripresa é ora di pranzo e mi dirigo verso un posto chiamato La Cevicheria che sembra sia uno dei migliori posti della città per provare il famoso piatto di pesce. Come da prassi a Cartagena anche qua i prezzi sono salato e mi accontento di una mezza porzione. Il piatto è molto buono anche se manca della complessità dei ceviche che ho provato in Perù! 


Vi informo che lo spritz aperol è arrivato anche ai Caraibi

Con la pancia piena e ormai ricoperta di vari strati di sudore, approfitto delle nuvole che ogni tanto coprono il solleone e girovago per le vie del centro. Rimango affascinata dall’architettura del centro storico, che per fortuna è così piacevole che fa quasi… quasi… dimenticare il caldo torrido. 









L’interno di una casa abitata. Visto il perenne caldo le finestre sono sempre spalancate ed è possibile spiare dentro




Carretto fornito di acqua di cocco e rhum









Passo davanti a una delle tante Palenqueras, le donne di origine africana che pullulano per il centro vestite in colori sgargianti e vendendo frutta esotica, i veri e propri simboli della città. Così come le señoras di Cusco vestite in abiti tradizionali e accompagnate da lama e alpaca che per una foto chiedevano un contributo monetario, anche le palenqueras non si fanno fotografare gratis. Per questo ho aspettato di selezionare bene la mia palenquera e quando l’ho trovata le ho comprato un bel bicchiere di Mango Biche, fettine di mango acerbo servite con una bella spruzzata di succo di lime e sale e ta dah, anche io ora ho la mia foto classica con la palenquera.

Anche se poi ne ho beccata una a passeggio e le ho rubato uno scatto 🙂
Palenqueras si dirigono al lavoro

Vago ancora un po’ per il quartiere di Getsemaní, adiacente al centro storico e dove é ubicato il mio ostello. 

Getsemaní é sempre stato il quartiere per i ceti meno abbienti, per gli schiavi e successivamente per i loro discendenti. Al giorno d’oggi, oltre a mantenere questo aspetto sociale, é anche un quartiere che ospita vari artisti, artigiani e movida notturna. 





Limonata fresca



Ghiacciolo al Lulo , un frutto locale con una bella acidità
Discussioni importanti




Quando sono le quattro torno in ostello perchè devo pianificare l’attività di domani. 
Tutti i visitatori qui a Cartagena vanno in una delle tante spiaggia limitrofe, e per quanto io non sia proprio una tipa da spiaggia mi sento un po’ in colpa a non metterci almeno il naso, così domani andrò a godermi una spiaggia e spero che nonostante sia sabato non sia TROPPO piena. Le immagini promettono un vero idillio caraibico, ma ne parleremo domani 🙂 

Fine settimana con vista Caraibi 

Anche il tempo a Medellín giunge al termine e come è volato in fretta il tempo. 

Ho passato molte ore in compagnia dei due ragazzi incontrati il primo giorno e, ora che sono partiti anche loro in direzione sud, ritorno a viaggiare da sola. Devo ammettere che mi ero abituata alla loro compagnia e ritornare per conto proprio è un po’ difficile.

Per l’ennesima volta metto lo zaino in spalla e mi appresto a lasciare un luogo. 
Questa volta “imbroglio” un po’ e non prendo l’autobus. Il tragitto da Medellín a Cartagena si stima duri circa quattordici ore ma ormai abbiamo capito l’antifona, che quattordici le ore non lo sono mai. Siccome la Colombia ha molti voli low cost, se il costo è più o meno simile a quello del bus non mi faccio molte pare e prendo l’aereo. 
Arrivo alla stazione degli autobus di Medellín da cui partono i taxi collettivi, ossia normalissimi taxi che aspettano di occupare tutti i posti prima di partire per una stessa meta. 
Percorriamo una superstrada che si snoda tra le colline che abbracciano Medellín e vediamo la città nella sua versione più bella, dall’alto . Mi godo l’aria fresca che entra dal finestrino e il calore del sole di questo luogo che è in perenne primavera tarda, dove non serve mai il giubbotto ma non si muore mai dal caldo. 

Il tassista forse si crede un campione di Formula 1 e corriamo a rotta di collo verso l’aereoporto, arrivando molto prima di quello che avevo previsto. 
Perdo del tempo in aereoporto dato che sono arrivata troppo in anticipo e quando finalmente ci stiamo quasi per imbarcare ci informano che l’aereo è in ritardo di un ora causa guasto delle luci della pista a Cartagena. Se mai prenderò un mezzo di trasporto in Colombia che parta o arrivi puntuale rimarrò scioccata. 
Il volo dura 47 minuti e mentre voliamo alla nostra sinistra possiamo ammirare un incredibile tempesta di tuoni, un fenomeno che non avevo mai visto da così in alto. 

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Atterriamo a Cartagena che sono le otto di sera. 

Sembra umida solo a vederla

Esco dalla porta dell’aereo e mi sembra di essere stata gettata in una pentola di acqua calda. 

Nonostante il sole sia calato da un paio d’ore il calore è ancora molto acuto e, peggio di tutto, l’umidità è alle stelle. 

Solo durante la camminata tra l’aereo e l’aereoporto, un paio di minuti neanche, comincio a sudare e ciuffi di capelli mi si arricciano istantaneamente. 
Si aprono le porte di vetro del terminal e entriamo in una cella frigorifera, mancano solo i pinguini. Mentre il corpo prova ad abituarsi allo shock termico arriva lo zaino ed è ora di uscire. 
Aspetto il taxi autorizzato dell’aereoporto nel forno dell’aria aperta e mi viene la pelle d’oca dal freddo quando entro nel taxi. Il tassista non dice una parola per tutto il tragitto e non mi saluta nemmeno quando mi scarica davanti all’ostello. 
Entro nel mio dormitorio e faccio amicizia con l’unica compagna di stanza, una simpatica venezuelana di Maracaibo che vive a Bogotá. Mi invita a mangiare fuori con lei e il suo amico messicano e passiamo una bella serata nel quartiere di Getsemani a parlare di vita e viaggi sorseggiando una birra michelada, una birra che viene servita con dell’abbondante succo di limone e il cui bicchiere viene bordato di sale. 
Sono sollevata al pensiero che il nostro dormitorio ha l’aria condizionata che si accende tutte le sere dalle otto, senza non riuscirei a sopravvivere.
Mi sveglio senza fretta perché il walking tour a cui mi sono iscritta comincia solo alle dieci e mezza. Mi godo la colazione a bordo piscina ( Eh si, queste notti pago leggermente di più ma ho pensato che se devo avere a che fare con un clima così ostico almeno mi tratto bene) e comincio già a sudare. Non sono nemmeno le nove e ci sono già trenta gradi , col solito 500% di umidità. Mi chiedo come si faccia a vivere così! 

Mi presento al punto di incontro per il tour, aspetto mentre sudo copiosamente ma non si presenta nessuno. Nonostante la conferma sono stata lasciata a piedi! 
Dopo la brutta sorpresa non demordo e vado a fare un giro di perlustrazione per conto mio. 


Cartagena è senza dubbio bellissima. Il centro storico mantiene il suo carattere coloniale e le vecchie mura che lo cingono ricordano in tutto per tutto una vera e propria città caraibica come da immaginario. Sembra sia finta da quanto è perfetta!





Gli edifici sono coloratissimi e ristrutturati in maniera raffinata, ogni balcone è rigoglioso in maniera esagerata e ogni dettaglio è curato. 





È la prima volta in Colombia che sono in un posto che è chiaramente turistico e questo influenza la mia opinione di Cartagena nel bene e nel male. 

Queste guave erano così mature che quando mi sono passate affianco hanno lasciato la scia di profumo


Se da una parte la sua bellezza è innegabile e non penso che un viaggio in Colombia sarebbe completo senza includere questa città, dall’altra mi dispiace tornare ad essere in un posto in cui la separazione tra i locali e i gringos è sentita e diventare di nuovo una fonte di soldi ambulante per chi mi vede. Dopo aver passato quasi una settimana e mezza in Tierra Paisa, dove tutti sono eccessivamente cordiali e felici di averti attorno, essere tornati ad essere visti come i turisti scomodi rattrista un po’.

 Inoltre la prima impressione è che la gente non sia così simpatica com’era più a sud, ma non si se siano così con tutti o solo con noi “ di fuori” . 

Mentre nelle altre località trovavo addirittura a fatica delle cartoline o dei souvenir Cartagena sembra attrezzatissima per allettare i visitatori con ogni sorta di gadget firmato Colombia, e il centro storico pullula di eleganti hotel e bei locali. Il costo dei ristoranti qui è decisamente più alto rispetto agli altri posti in cui sono stata. 

Mango mango mango



E il caldo… il caldo è insopportabile. Una signora in un negozio mi dice che oggi si sta pure benino, molto meglio dei giorni scorsi, io penso che se adesso si sta bene non oso immaginare quando si sta male! 
Ma come dicevo, nonostante le tante cose negative Cartagena è di una bellezza innegabile. 

L’antico e il nuovo

Ciò che mi affascina della città è il suo carattere caraibico, sono innegabilmente in un posto ben diverso rispetto a ciò che ho visitato fino ad ora.




 Questa Colombia non finisce di stupirmi: dalle Ande, alla terra dei “ cowboy”, alla città dall’eterna primavera, alla fitta giungla dell’Amazzonia ( che questa volta non ho tempo di visitare ma che esiste), città coloniali fino al puri Caraibi non c’è tema che questo paese non scopra, c’è davvero qualcosa per tutti. 
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Il giro di avanscoperta per Cartagena mi mette un po’ in ansia. Qualche giorno fa ho prenotato un volo che da Cartagena mi riporterà a Bogotá e l’unico volo col prezzo accessibile era il martedì. Questo significa che ho circa sei giorni qui e per quanto la città sia molto bella, per quel che riguarda i miei interessi capisco di avere un po’ troppo tempo a disposizione quassù. 
Il clima non mi piace, non sono tipa da spiaggia ne da feste fino all’alba e la parte di Cartagena che mi interessa di più, la parte storica, dopo qualche giorno di visita si è esaurita. Altre località d’interesse, come la penisola della Guajira o San Basilio de PAlenque, un paese abitato esclusivamente da afrodiscendenti che osservano ancora le tradizioni dei propri avi o perfino la zona di Santa Marta, terra d’ispirazione del libro che sto leggendo ora , Cent’anni di solitudine ( Perché Gabriel García Márquez era originario di queste zone), si trovano tutte troppo lontane e mi ci vorrebbero ben più giorni dei sei , ormai cinque, che mi rimangono. A peggiorare la situazione sembra che ci stiamo immettendo in un periodo di piogge. 
Provo a guardare online per spostare il volo e, dopo un po’ di ricerca, trovo il modo di spostare il volo la domenica con un sovrapprezzo di trenta euro. In un viaggio così lungo si cerca sempre di mantenere sotto controllo le spese e avrei dovuto saperlo che sei giorno a Cartagena per me erano un po’ troppi, però è inutile rimuginarci troppo e soprattutto non vedo perché dovrei stare in un posto in cui non ho voglia di stare, soprattutto se per cambiare ci rimetto solo trenta euro. 

Col cuore in pace ora mi organizzo per esplorare al meglio Cartagena e zone limitrofe nel poco tempo che mi rimane, e sotto sotto non vedo l’ora di tornare al clima più mite di Bogotà. 

Medellín e siamo alla frutta 

Una delle cose più belle del Sudamerica è senza dubbio la varietà di frutta esotica. 
Frutti che vediamo anche nei nostri supermercati ma che inevitabilmente arrivano a noi quando sono troppo acerbi o blandi nel gusto , ma anche frutta che non abbiamo mai sentito nominare prima, qui sono di casa. 
In Perù ogni mercato è munito di una sezione di señoras che vi prepareranno ogni sorta di succo di frutta in quantità industriali, ma in Colombia sembra non esserci la stessa cultura di succhi di frutta, o meglio la sezione non è così grande e nutrita. Quello che sicuramente è diverso in Colombia rispetto al Perù è che la varietà di frutta è possibilmente ancora più ampia, e molti frutti esistono solo in questa area del Sudamerica. 
Era solo una questione di tempo prima che mi unissi a un tour di frutta esotica! 
Ne parlo con l’italiano e il ticinese e decidono anche loro di venire, quindi questa mattina ci troviamo per andare al punto di incontro prestabilito. 
Prendiamo un taxi per far veloce e mentre sfrecciamo per le vie trafficate di Medellín gli spieghiamo il nostro piano della giornata. 

Appena arriviamo nel quartiere del mercato Minorista l’autista ci chiede di chiudere i finestrini e di bloccare le porte, ci dice che non siamo in un quartiere non molto tranquillo. Ci chiede cosa andiamo a fare al mercato, noi innocentemente gli spieghiamo del nostro tour e lui si limita a dire più di una volte di fare molta attenzione alle nostre cose. 
Scendiamo, un po’ intimoriti dalle parole del conducente, e ci dirigiamo a tutta velocità al punto di incontro, dove troviamo puntuale la nostra guida che ci aspetta con un gran sorriso. 

Il tour viene offerto dalla stessa compagnia che ci ha fatto fare il giro per il centro quindi sappiamo che è gente professionale: ci chiediamo perché siamo finiti in un mercato se è un posto pericoloso, ma ci fidiamo della compagnia quindi li lasciamo fare. 





Il tour è organizzato benissimo e la guida è simpatica e professionale. Ci arma di cucchiai perché proveremo la frutta senza mai mangiare la pelle, la maggior parte della frutta in vendita nel mercato infatti non è lavata e mangiandone solo il contenuto evitiamo il mal di pancia. 
Camminiamo per il mercato labirintico e siamo l’attrazione del giorno. La guida ci spiega di non avercene a male ma riceveremo molti sguardi sorpresi e curiosi, non c’è niente di male ma di gringos qua non se ne vedono molti e causiamo sempre una certa attenzione. 

Io intanto sono felicissima di non essere da sola tanto per cambiare e di essere accompagnata da tre spilungoni, ne approfitto e mi ci nascondo dietro!

Tamarillo in italiano. Sembra a un pomodoro e di gusto non è molto lontano, ma il tamarillo è più dolce. In Colombia è popolare consumarlo sotto forma di succo e viene dato soprattutto ai bambini per aiutare nella crescita.
Ibrido tra tamarillo e more
Un frutto dalla spiccata acidità, si abbina bene agli agrumi nelle limonate
Mais in fase di lavorazione per diventare farina

Proviamo una gran varietà di frutta esotica mentre la guida ce ne spiega gli usi e come vengono consumati in Colombia. Mentre mangiamo ci viene promesso che a fine visita ci verrà raccontata la storia del mercato, ma che intanto veniamo esortati a guardarci attorno. 
Un mare di scarti che andranno al bestiame
Un lavoro durissimo ( 12 ore al giorno) e mal pagato: ricavare il mais dalle pannocchie.
Cerchiamo il più possibile di essere cortesi con le persone da cui la guida compra la frutta in modo che, anche se di gringos ne passano pochi per di qui, almeno che rimanga di noi stranieri una buona impressione . 

Questo frutto ricorda vagamente la castagna o la patata dolce e viene consumato soprattutto dalle popolazioni indigene della Colombia
Fuori e piante usate per le loro proprietà medicinali

Dopo ormai una decina di frutti la guida ci da una quindicina di minuti per vagare da soli per le vie del mercato, così facendo scopriamo la sezione del pesce e dei formaggi. Riusciamo a ritrovare la guida senza problemi e proviamo dell’altra frutta. 

Carruba
Per i superstiziosi. Saponi che promettono di esaudire i vostri desideri : quello che promette di ammaestrare i bellimbusti, quello che promette prodezze maschili e pure quello che assicura cascate di denaro!
La guida ci racconta che normalmente conduce i tour in inglese ma tutti e tre stamattina abbiamo espresso la preferenza di ricevere il tour in spagnolo e devo dire che fa una grande differenza. Non c’è niente di meglio quando le persone che incontriamo capiscono quello che la guida dice e riescono a entrare in contatto con noi, e noi con loro. È più facile abbattere il muro della diffidenza e ingraziarseli un po’: poi loro di base sono pur sempre colombiani e soprattutto paisa, quindi basta solo prenderli dal lato giusto e si rivelano tutti persone simpatiche e cordiali. 

Avocado di due varietà: criollo in primo piano, il più diffuso qui in Colombia, e Haas, più comune bei nostri supermercati

Mango
E ancora mango perché non c’è mai abbastanza mango. Non immaginate il profumo intenso emanato da queste meraviglie!!!
Mangostano, forse il mio preferito!
Bancarella di Arepas, delle specie di tigelle a base di mais molto diffuse e popolari


Mentre faccio alcune foto alla frutta sento il proprietario dello prodotti parlare con un suo conoscente. Non capto l’inizio dello scambio di parole ma sembra che il conoscente sia stupito della nostra presenza e il nostro interesse per tutta questa frutta per lui normalissima. Il proprietario gli risponde che “ Ecco, guarda, in Colombia abbiamo così tanti bei prodotti che vengono pure dall’estero ad assaggiarli. Qui abbiamo tante belle cose e abbiamo bisogno degli stranieri per ricordarcene!” . Il conoscente concorda e ci guardano con sguardo orgoglioso e compiaciuto, felici di avere un paese che ora attira l’attenzione. 

More, molto popolari in Colombia e dall’aspetto leggermente diverso dalle nostre
Varietà di banane
Uno dei frutti più popolari tra i turisti, ha un gusto gradevole e una consistenza cremosa
Guava
Papaye e la mia mano per far capire le dimensioni
Varietà di frutti della passione. La “ passione “ nel nome non si riferisce a niente di afrodisiaco. Vengono detti della passione per via della passione di cristo: sembra che il fiore da cui derivi questa frutta venne adottata dai conquistadores come metafora per la passione di Gesù per via della forma del fiore che sembra a una corona di spine


Varietà locale del dragon fruit, più buona di quella “classica” asiatica

A fine tour ci sediamo in un piccolo baretto dentro al mercato e finalmente ci viene rivelata della breve storia di questo luogo, la guida preferisce cambiare lingua e parlarci in inglese per evitare che i passanti lo capiscano. 
Ci viene raccontato che fino a molto recentemente anche questo era un luogo molto malfamato e la ragione è che negli anni 80 esso era completamente controllato da un’organizzazione criminale legata strettamente al cartel di Medellín e a Pablo Escobar. Il mercato era così pericoloso che in passato qui sono avvenuti degli omicidi e la gente comune se ne teneva debitamente alla larga. 
Dopo la morte di Escobar però si creò un vuoto di potere e qualche anno fa il comune di Medellín si è impegnato a ripulire il mercato. Qualche anno fa arriva ad installare una stazione di polizia direttamente dentro al mercato, assieme a molte telecamere che sorvegliano le viuzze. 
La realtà odierna del mercato Minorista ci viene raccontato è molto diversa rispetto a quella di una volta e oggi la violenza è scomparsa. Quello che non è ancora scomparso però è la sua reputazione, e molti abitanti di Medellín non metterebbero piede nel mercato manco pagati, un po’ come il nostro autista stamattina. Per l’ennesima volta ci viene spiegato che la nostra presenza qui è importante, non c’è niente che stimoli le persone a rivedere le proprie idee fissate nel tempo che un gruppo di gringos “ avventurieri” che vanno nei luoghi che una volta erano off limits: la speranza è che sempre più persone pensino “ se ci vanno i gringos allora è sicuro anche per me” e pian piano si spera di tornare a vedere la gente comune passeggiare per le vie del mercato godendosi la nuova sicurezza che vige nel mercato. 
Penso non mi sia mai capitato di visitare un luogo in cui il turismo gioca una parte così importante nello sviluppo di una città. Come ho già menzionato più volte ma ci viene ripetuto spesso da varie persone, la nostra presenza è sinonimo di un miglioramento radicale nella sicurezza e nel progresso della città. Gli abitanti di Medellín vengono esortati a prendere parte al cambiamento e in qualche maniera anche al turista viene chiesto di partecipare. La parte che svolgiamo noi è quella di essere tra i primi stranieri che certi abitanti incontreranno ed è importante comunicare con loro in modo da espandere i loro orizzonti e creare ponti tra Medellín e l’esteriore. Qui mi sento doppiamente in dovere di essere simpatica, comunicativa e cordiale, rispondo perfino agli uomini che per strada mi salutano ( Cosa che tendenzialmente non faccio per non attirare attenzioni inconvenienti) . 
Il mio tempo a Medellín sta per finire, domani ho un volo il pomeriggio tardi verso la costa caraibica. 
Devo dire che mi dispiace lasciare Medellín perché mi sono affezionata. Non è una città piena di monumenti da visitare e certi quartieri sono pure bruttini, ma in compenso ci sono anche delle belle zone e soprattutto Medellín più che una città da visitare per l’estetica è una città da apprezzare per la sua energia positiva. 

Le lezioni che ho imparato qui sul come potersi rialzare da un passato complicato e come affrontare la vita nonostante le tragedie relativamente decenti non le dimenticherò facilmente! 

Visitando la Pietra e assorbendo Medellín 

La domenica comincia presto, alle 6, nonostante abbia fissato la sveglia per le 8. Io avrei dormito di più, soprattutto dopo che la festa improvvisata dal gruppo di colombiani di Bogotá ospiti nel mio ostello ha imbastito un vero e proprio show di risate, urla e musica a tutto volume fino all’una, orario in cui sono partiti per le discoteche. Alle 4 ritornano dalla città e si piazzano nella bella terrazza separata dal il mio dormitorio da una grande finestra che, viste le temperature a Medellín, deve rimanere aperta giorno e notte. 

So che sono tornati alle 4 perché quando mi sveglio alle 6 per colpa delle urla uno dei miei compagni di stanza è già sveglio a causa loro da quell’ora. 
Di malumore e col sonno rovinato mi preparo per la giornata. 
Non avevo piani per questa domenica, e a dire il vero sembrano esserci proprio poche cose da fare. Mi ero rassegnata a un giorno tranquillo in giro per il centro quando mi chiama l’italiano conosciuto durante il tour della città gratuito e mi chiede se voglio unirmi a lui e al suo compare ticinese per andare a Guatapé, un posto che pianificavo di visitare lunedì o martedì. Mi sembra una buona idea e mi piace avere della compagnia per cambiare.
Ci dobbiamo trovare per le nove ma siamo un po’ tutti in ritardo quindi ci troviamo per le dieci. I ragazzi sono in fase di dopo sbornia quindi ci fermiamo a fare colazione, tra una chiacchiera e l’altra di fanno le undici. Prendiamo un Uber verso la stazione degli autobus e ci arriviamo per le undici e mezza, e ci avvertono che il prossimo autobus per Guatapè parte tra mezz’ora. Quando alla fine arriva il minibus c’è un gran casino: al posto di avere un grande autobus che trasporti tutti mettono in servizio svariati minibus e ci ficcano dentro a seconda del numero sul nostro biglietto. 

Strizzati come sardine dentro a un autobus con le finestre che non si aprono e l’aria condizionata che non funziona, aspettiamo di partire per l’ora prevista, mezzogiorno e cinque. Lasciamo la stazione degli autobus poco dopo la mezza. 
Non facciamo in tempo a uscire da Medellín che le teste dell’italiano e del ticinese ciondolano e torneranno ad alzarsi solo al nostro arrivo a Guatapé. Io mi permetto un breve sonnellino ma per la maggior parte del tempo osservo il paesaggio fuori. Verde rigoglioso ovunque , molti grandi ristoranti sul ciglio della strada senza finestre ne mura, segno che qua il freddo non arriva proprio mai, con grandi griglie che alzano colonne di fumo dal profumo invitante, e molte belle fincas, case di campagna dai colori sgargianti o bianche ma con gli infissi colorati e larghe verande decorate da sedie su cui rilassarsi e piante lussureggianti. 

Foto prese dall’autobus


La riserva del Peñol-Guatapé è un bacino d’acqua artificiale realizzato dallo stato colombiano negli anni ‘60 per erigere una grande diga, creando energia elettrica per l’intera zona. 
Il paesino di Peñol venne allagato e fatto scomparire quasi totalmente fatta eccezione per il campanile che fuoriesce ancora dall’acqua, gli abitanti vennero trasferiti in un nuovo paesino creato ad hoc chiamato Nuevo Peñol. 

Il paese di Guatapé invece non venne allagato e invece si ritrovò improvvisamente un bel lungolago che ora usa per richiamare migliaia di abitanti della città durante il fine settimana per passare un weekend all’insegna della natura e del relax.
Arriviamo a Guatapé molto più tardi di quello che avevo previsto tra me e me quando progettavo questa gita, e comincio a pensare che la “scalata”della grande roccia del Peñol, che si trova fuori dalla cittadina, non sia possibile farla oggi prima che venga buio. Comincio a rinunciarci e alla fine me la metto già pensando che posso sempre tornarci domani o dopodomani, nonostante le ore in bus. 






Entriamo a Guatapé alle tre e mezza e, nonostante la cittadina sia molto pittoresca, dopo mezz’ora decidiamo che abbiamo visto un po’ tutto. 


Mentre aspettiamo l’autobus che porta alla pietra camminiamo sul fiume lungo il Malecon, la passeggiata che costeggia le acque e che è piena di famiglie, amici e fidanzati che si godono la domenica e i tanti rivenditori di cibo e bibite fresche.


 La mia preferita tra quest’ultime, anche se non la prendo oggi, è la birra “ michelada”: si sceglie il tipo di birra fresca che si vuole e viene servita su un bicchiere spolverato sul bordo di sale e lime. Ho visto anche birre “ micheladas” con l’aggiunta di mango acerbo dentro, mi riprometto di provarlo. Per oggi mi accontento di un buon gelato fatto in casa al cocco e ananas. 
Arriva l’autobus, un’altra scatola per sardine, e in poco più di cinque minuti siamo alle pendici della Piedra. 


Arrivando all’entrata delle scalinate osserviamo la strana struttura, mezza cemento mezza mattoni. Siamo stanchi solo a vedere le scalinate ma non possiamo non andarci. 



Lungo la scalinata incontriamo un papà colombiano e i suoi due bambini per metà svizzeri. Il nostro svizzero e i due marmocchi intavolano una piccola conversazione in romancio e mi sa che abbiamo assistito alla primissima chiacchierata in questa lingua sulla Piedra . 
Sudati e sfiancati arriviamo sulla sommità e la vista è meravigliosa. In qualche maniera in cima ci sono almeno due baretti e ci riforniamo di preziosissima acqua. 


Rimaniamo per un bel po’ ad osservare il panorama e restiamo fino al tramonto, dato che il nostro bus di ritorno per Medellín è stato fissato per le 19:05. 



Rotoliamo verso le pendici e aspettiamo la nostra scatola per le sardine. Alle 19:10 il responsabile per l’imbarco dei passeggeri sugli autobus giusti comincia a chiamare i passeggeri del bus delle 18:30, e cominciamo a capire che è meglio prepararsi per una lunga attesa. 
Saliamo finalmente sul nostro bolide poco più tardi delle 20:00 e finalmente partiamo… fila permettendo… verso Medellín. 
Oggi, lunedì, non mi rimangono molte cose da fare in città quindi me la prendo con calma. Mi dedico all’ultima vera attrazione che non ho ancora visto, la teleferica. 


La teleferica di Medellín fu la prima teleferica urbana del Sudamerica ad essere costruita, con lo scopo di collegare quartieri lontani e poveri al centro e per sormontare le evidenti sfide topografiche di una città come questa . Essa servì come esempio a molte altre città con lo stesso problema geografico, come ricorderete bene a La Paz. 
Ci sono varie linee di teleferica ma io ne prendo solo una, quella raccomandata dalla guida del tour gratuito fatto il primo giorno, per via delle sue viste. 
Finisco per percorrerla ben due volte alla ricerca delle foto e dei filmati perfetti.


Li vicino visito anche una nuova biblioteca consigliatami dai ragazzi con cui ho passato la giornata di ieri. Forse non è uno dei monumenti principali da visitare ma la sua struttura e funzione hanno molto da dire sulla città moderna e piena di nuove speranze che è diventata Medellín. 


Il visitatore che ancora non fosse riuscito a scrollarsi di dosso l’immaginario di Medellín come una città dedita al narcotraffico e alla criminalità violenta questa biblioteca situata nel cuore della Comuna 13 , un quartiere povero e anticamente fonte di guai di cui abbiamo parlato recentemente, serve per capire invece quanti progressi si siano fatti e quanto interesse ci sia da parte della città e dei suoi abitanti di crescere ed acculturarsi in un ambiente di pace. 



Vedo spesso manifesti in giro per Medellín che esortano la  sua popolazione a prendersi cura delle infrastrutture, a tenere pulita la città e a sentirsi parte di un progetto di miglioramento in cui l’individuo è parte integrante. 


La biblioteca è un ambiente calmo e piacevole dove vedo pubblicizzare molte attività culturali per adulti e bambini. Ci sono aule multimediali, stanze adibite all’insegnamento, bei murales e un piacevole giardino con annesso mini orto. 


Sento che questa città ha molto da insegnare a tutti noi come cittadini e esseri umani. Come una fenice che rinasce dalle sue ceneri, Medellín è riuscita a scrollarsi di dosso le cose brutte che le sono successe e guarda speranzosa al futuro. Il cambiamento non sarebbe possibile senza la partecipazione attiva della popolazione, che viene esortata a utilizzare in maniera sicura le nuove infrastrutture e a prendersene cura.  

Penso alle tante città i quartieri problematici che abbiamo perfino in Europa e mi piacerebbe tanto che si parlasse di più di Medellín e del suo esempio positivo, della sua energia , la sua speranza è anche del suo duro lavoro per migliorare le cose. 

Parlando di colui di cui a Medellín non si parla 

È difficile parlare di Medellín senza nominare uno dei suoi ex abitanti più noti, Pablo Escobar. 
Operativo dagli anni 70 al 1993, la sua attività nel narcotraffico e successivamente l’instaurazione del Cartel di Medellín influenzeranno profondamente il quotidiano degli abitanti di Medellín e chissà quanto tempo ci vorrà perché la città riesca a scrollarsi di dosso il nome Escobar, dissolvendo lo stretto legame che i due nomi occupano nella mente di molti. 

Primi arresti per un giovane Escobar alla fine degli anni ‘70

Escobar nasce poco fuori Medellín, a Rionegro, ma cresce in città. Comincia da giovanissimo la sua vita da criminale con piccoli furti qua e là e nel giro di poco si lancia nel contrabbando di vari oggetti di valore e nel commercio della marihuana, settori in cui la Colombia criminale al tempo eccelleva. 
In questo periodo si fa strada sempre di più la possibilità di raffinare la pianta della coca, una pianta che come abbiamo visto essere tradizionalmente usata dagli abitanti delle Ande e quindi presente anche in Colombia. La caratteristica che negli anni 70 alletta i criminali rispetto alla marihuana è che la cocaina si può vendere a prezzo più caro e crea molta più dipendenza: questo porta potenzialmente a un numero infinito di fedelissimi clienti, sempre disposti a comprare la mercanzia. 
Escobar è uno dei primi a vedere l’opportunità che gli si para davanti e in poco tempo si impose come il miglior esportatore di cocaina del paese. 
Al tempo il mercato era ancora in erba, c’era poca concorrenza e nessuno sospettava l’imminente pandemia di cocainomani che presto caratterizzerà gli anni ‘80. Il cliente maggiore di Escobar e del narcotraffico di cocaina colombiana erano e sempre saranno gli Stati Uniti d’America. 
Per i primi anni quindi Escobar contrabbanda cocaina in maniera relativamente aperta e semplice verso le coste americane e i profitti crescono esponenzialmente . 

Il giovane Pablo aveva un grande sogno da quando era bambino: guadagnare un milione di pesos colombiani prima di arrivare all’età di 22 anni. Beh, a 26 anni si trovò a depositare i suoi primissimi… 100 milioni di pesos, 3 milioni di dollari americani. 

Nel 1982 comprò poco fuori Medellín la sua residenza più nota denominata Hacienda Nápoles.Tra le tante cose essa conteneva un lago, un giardino di sculture, un’arena per tori , un giardino con enormi statue di dinosauri stile Jurassic Park e uno zoo di animali esotici. 


Si stima che a metà anni ‘80 il cartel di Medellín riuscisse a contrabbandare almeno 11 tonnellate di cocaina per ogni volo verso gli Stati Uniti. 
Escobar era un personaggio carismatico ed era maestro nel vendere la sua immagine. Mentre diventa sempre più ricco non trascura di coltivare un’immagine di “Robin Hood Paisa”, quello che ruba ai ricchi per dare ai poveri. 


Si prende specialmente cura delle comunità più povere della sua città natale, arrivando ad ereggere edifici, campi da calcio e perfino un intero quartiere. 

Questa generosità ha fatto si che in certe zone di Medellín egli fosse visto come il benefattore che aveva dato loro una chance nella vita e non era inusuale che egli venisse aiutato dalla popolazione locale per sfuggire dalla legge. Tutt’ora queste sono le uniche zone di Medellín in cui la gente o non lo odia o addirittura ne tesse le lodi. 

In realtà le attività di Escobar portarono anche molta criminalità in queste zone, finendo per assoldare molti giovani senza sbocchi nella vita che vedevano nel narcotraffico la via del successo. 
Negli anni 80 Escobar si montò la testa e decise di entrare in politica. Il suo sogno era diventare un giorno il Presidente della Repubblica colombiana e per far ciò doveva entrare nel Congresso.


Un partito corrotto riesce a farlo entrare nella propria lista ed è così che per un breve periodo il più potente narcotrafficante della storia siede nel parlamento colombiano. Fatto poco noto, ma per la posizione che occupava allora nel partito fu proprio lui a presenziare all’insediamento del primo ministro spagnolo Felipe González Márquez come il rappresentante per la Colombia. 


Escobar uomo politico però non va bene a tutti : tra i tanti oppositori c’era Luis Carlos Galán, un liberale che le attività illegali di Escobar proprio non le manda giù. 


In quel periodo la grande ricchezza accumulata in così poco tempo dal giovane Escobar non aveva una spiegazione così diretta e logica e non c’erano prove delle sue attività criminali, anche se sotto sotto tutti avevano capito ma nessuno osava parlare. Poco dopo l’ingresso di Escobar nel parlamento colombiano , Galán un giorno prende la parola e denuncia davanti a tutto il Congresso la criminalità del narcotrafficante, cominciando tutto un processo di esposizione delle sue attività illegali e costringendo molti politici a togliere, almeno a livello pubblico, il loro appoggio alla permanenza di Escobar in politica. Comincia così una breve ma sicura sconfitta che vede il narcotrafficante costretto a uscire dal mondo politico. 
Galán andò oltre: non solo lo denunciò apertamente per quello che era ma promosse l’estradizione di tutti i narcotrafficanti negli Stati Uniti ( Ricordiamo che Escobar era la punta dell’iceberg ma la Colombia pullulava di signori del crimine raggruppati in almeno quattro principali cartel) . 

La faccenda dell’estradizione sarà un fattore molto importante per gli anni a venire: si sa infatti che a finire in una prigione locale è sempre possibile corrompere un giudice qua e una guardia la, rendendo la vita del carcere una passeggiata e assicurandosi una breve permanenza. Più difficile negli Stati Uniti, dove si verrebbe giudicati per i veri criminali che si è, e nessun narcotrafficante voleva pagare. 
Deluso e rancoroso dalla fine del suo sogno politico di finire giudicato negli Stati Uniti, Escobar venne allo scoperto per il criminale che era e comincia a minacciare il governo di ritorcersi contro in caso l’accordo di estradizione venga stipulato. 
Escobar non sentì ragioni, il governo neppure e allora il criminale dichiarò che se il governo continuasse con la sua posizione egli si sarebbe trovato costretto a … seminare il terrore. 
Il governo del presidente Vargas (‘86-‘90) non mollò il pugno di ferro e Escobar cominciò ad attaccare la popolazione in veri e propri atti di terrorismo facendo esplodere bombe in luoghi pubblici, dando premi ai propri sicari ogni qualvolta riuscissero ad ammazzare un poliziotto ed arrivando a far detonare un volo di linea della compagnia aerea di bandiera Avianca ( secondo i piani doveva contenere il candidato presidenziale del 1990 e futuro presidente della Colombia dal ‘90 al ‘94 Cesar Gavíria Trujillo, un’altro fautore dell’estradizione, ma questi all’ultimo decise di non imbarcarsi. Quel giorno morirono 110 persone, normalissimi civili in viaggio da Bogotá a Cali) . 


A fine anni ‘80 la Colombia piomba nel terrore e nella violenza, nessuno è più sicuro da nessuna parte. Presto si creò anche un malcontento verso il governo di Vargas, accusato dalla gente di aver scatenato il diavolo Escobar. 
Nel 1989 Galán, candidato alla presidenza, si trovava sul palco di un comizio politico a Soacha quando venne freddato davanti a 10.000 spettatori, e sappiamo bene chi dette l’ordine dell’omicidio. 
L’anno dopo la Colombia ha un nuovo presidente, César Gavíria, che inizialmente era solo un portavoce di Galán e che dopo la morte di quest’ultimo venne spinto a prendere il suo posto. 


Gaviria affrontò il cartel di Medellín con forza e alla fine Escobar e il governo scesero a patti. 
L’accordo che venne trovato però era una gran presa in giro: Escobar e i suoi scagnozzi ottennero di non essere estradati e accettarono di andare in prigione. Basta che fosse una prigione scelta da loro! 
Nasce così “ La Cattedrale” , una prigione costruita fuori Medellín ad hoc per ospitare i narcotrafficanti. La si costruisce secondo le direttive di Escobar, che ebbe pure voce sulla scelta delle guardie. Pablo in quegli anni cominciava ad avere problemi di conflitto con altri cartel, ed è plausibile che sia sceso a patti col governo per crearsi una fortezza in cui essere protetto dai nemici. 


Dura la vita di Pablo alla Catedral: aveva un campo da calcio, un bar, una jacuzzi e perfino una cascata. C’era anche un telescopio perchè potesse osservare sua figlia quando la chiamava al telefono e la domenica era usuale vederlo allo stadio di Medellín, in cui arrivava scortato da un intero plotone di poliziotti a sua protezione, per vedere la partita di calcio. 

E non vi preoccupate che mentre rimaneva ufficialmente rinchiuso alcuni suoi fedeli collaboratori continuavano il contrabbando di droghe come se niente fosse. 
Il governo gradualmente si stufò della presa in giro così plateale e decise di invadere a sorpresa la prigione con l’esercito. 

Durante l’assedio Escobar miracolosamente riesce a fuggire per un pelo ( Si dice che uscì semplicemente dal cancello di dietro…) e comincia una vita di latitanza. 
Per scovare Escobar intervengono gli americani con una vera e propria task force ( istituiscono e armano un gruppo speciale di poliziotti colombiani che chiamano Search Bloc) e si crea un gruppo di vigilantes finanziato dai suoi rivali principali che includono il Cartel di Cali e che viene chiamato Los Pepes , Los Perseguidos por Pablo Escobar . 

Los Pepes adotteranno una linea dura e si macchieranno di orribili crimini alimentati dalla vendetta in cui 300 persone legate a Escobar, dal suo avvocato ad alcuni dei suoi parenti, periranno in maniera cruenta. In questo periodo gli affari del cartel di Medellín vanno sempre peggio e Escobar non solo non può uscire dalla latitanza per riassumere la leadership che tanto mancava al suo cartel ma deve rimanere il più nascosto possibile per evitare la morte. 
Nel tentativo di localizzare Escobar, elementi del Search Bloc e della forza americana colludono con Los Pepes e il probabile sforzo congiunto porta al compimento della missione. 
Il giorno dopo il suo 41esimo compleanno e separato ormai da mesi dalla sua amatissima famiglia, una moglie e due figli, Escobar commette l’errore di chiamare al telefono suo figlio.

Dopo la morte di Escobar, la moglie e i figli dovettero scappare in tutta fretta e affrontando molto pericoli. I nemici li volevano morti, specialmente il figlio visto come potenziale erede del Cartel. La famiglia riuscì ad attraversare il confine con l’Ecuador e si stabilì in Argentina cambiando nomi e identità.

Il narcotrafficante più famoso di tutti i tempi… davanti alla casa bianca

 I pochi minuti passati alla cornetta servono a localizzarlo in una casa nella periferia di Medellín e nel giro di poco tempo viene circondato da ogni sorta di forza dell’ordine. 

Pablo Emilio Escobar Gaviria muore crivellato di pallottole sul tetto nel probabile tentativo di fuga. 

Rappresentazione di Botero dell’uccisione di Escobar

Ad ascoltare gli americani i responsabili dell’uccisione furono loro insieme alle forze dell’ordine colombiane ma molti colombiani, visto il vicolo cieco e i mille problemi in cui virava la vita del narcotrafficante, non escludono il suicidio. 
Se pensate che la morte di Escobar pone fine al narcotraffico in Colombia purtroppo vi sbagliate di grosso. Con la scomparsa del cartel di Medellín scompare anche l’unica vera concorrenza del Cartel della città di Cali. 

Capeggiato dai fratelli Orejuela, José Santacruz Londoño detto El Chepe e Hélmer Herrera detto “ Pacho”, l’approccio di Cali è molto diverso da quello di Escobar. Niente azioni eclatanti e niente eroe populista. Il Cartel di Cali si caratterizzerà per una visione più “ business” del narcotraffico: meno sangue caldo e più teste fredde e calcolatrici , meno bombe e più omicidi efferati a porte chiuse ma soprattutto molta più infiltrazione nel tessuto politico, molta più corruzione nelle sfere di potere più alte. 

Fratelli Orejuela

Un visitatore a Medellín non può non chiedersi cosa rimane di Escobar, cosa ne pensa la gente. Chiunque abbia più di trent’anni attorno a me ha memorie dirette o indirette dell’Escobar che presenziava l’inaugurazione dell’ennesimo progetto urbano pagato di tasca sua o delle bombe che straziavano con regolarità la città. 
Da quando Medellín è diventata una città più sicura da visitare e da quando il turismo ha cominciato a svilupparsi, veramente da pochi anni, l’attrazione più richiesta dai visitatori sono senza dubbio i tour che ti portano in giro per la città a visitare tutti i luoghi “ cult” del cartel di Medellín ripercorrendo la vita e la morte di Escobar. Ne esistono davvero tanti, certi più culturali e altri che magari abbinano un giro di zip-line o una partita di paintball. 

Escobar Painball

Si effettuano sorte di pellegrinaggi all’Hacienda Nápoles ( Che, curiosità, caduto Escobar venne e viene tutt’ora depredata da persone in cerca dell’incredibile fortuna celata in innumerevoli nascondigli e il cui zoo venne abbandonato, dando la possibilità a qualche animale esotico di scappare e rifarsi una vita nella periferia di Medellín. Si dice che i due ippopotami dello zoo dell’Hacienda Nápoles abitino placidamente nel fiume Magdalena) e alla Catedral. 

Posando felici davanti alla casa di un terrorista

Hacienda Nápoles oggi

Soldato colombiano che per la prima volta entra all’Hacienda Nápoles e trova lo zoo

Esiste perfino un tour organizzato e condotto niente meno che da Roberto Escobar, il fratello di Pablo.

Pagando uno stipendio fisso a un prominente ex membro del Cartel di Medellín. Cheeeeeese!

Durante il walking tour in centro ieri approfitto della cordialità e della trasparenza della nostra guida per chiederle cosa ne pensano gli abitanti di Medellín di questi tour, e lei mi dice che ben pochi di quelli che hanno vissuto gli anni di Escobar sono contenti. Alcuni non solo non sono contenti, sono proprio arrabbiati e non è inusuale incorrere in qualche animo scaldato durante un tour su Escobar. Allo stesso tempo ammette che da una parte è anche la ragione per cui molte persone visitano Medellín, portando turismo e quindi prosperità alla città, e la speranza è che la gente arrivi per Escobar e se ne vada ricordando tutto il resto, facendolo passare in secondo piano. 

La situazione è così tesa che quando parliamo di lui durante il tour non lo nominiamo mai: la gente attorno a noi tendenzialmente non parla inglese e la guida non vuole lanciare in aria il suo nome così, senza contestualizzare. 

Il rischio di idealizzare figure negative : bambino colombiano con le figurine di Escobar


Ci ho pensato molto se unirmi a un tour di Escobar o no, e ho deciso di non andarci .Siamo di tante teste al mondo e sono sicura che i tour più culturali siano interessanti e informativi ma ho problemi ad accettare il fatto che nessuno di questi tour sia gratuiti e che quindi si capitalizzi su un personaggio che fu a tutti gli effetti un megalomane, un terrorista, un assassino, la ragione di tanto dolore e perdite di amici e familiari e lo stereotipo con cui ogni colombiano nel mondo dovrà fare i conti per le generazioni a venire . 

Trovo ancora più di cattivo gusto il tour guidato da suo fratello, ora un nonnino dall’aspetto innocuo ma che mentre era parte del Cartel di Medellín ne era il contabile e che si stima fu il responsabile dell’80% della cocaina trafficata verso gli Stati Uniti. 
Ma non facciamo il loro gioco, non parliamo anche noi solo di Escobar, parliamo di Medellín e cosa ho fatto oggi.
Dopo aver prenotato qualche giorno fa oggi mi sono presentata in un bel bar moderno che organizza corsi sul caffè. 

Mi sono viziata con una degustazione professionale di caffè, in cui si provano vari tipi di caffè di diverse tipologie seguendo le regole degli assaggiatori esperti, e un mini corso accelerato da barista, in cui ho imparato le tecniche e le teorie dietro alla preparazione di bevande come l’espresso e il cappuccino. Purtroppo ero impegnata a “ lavorare” e per questo non ho molte foto della giornata ma sono contenta dell’esperienza fatta, un’altra di quelle cose per cui questo viaggio mi sta servendo come crescita personale! 


Domani mi aspetta una giornata avventurosa. Mi dirigerò in una zona fuori Medellín di cui vi racconterò di più domani, e ci vado in compagnia dell’italiano e il ticinese conosciuti ieri durante il tour gratuito. Che bello avere un po’ di compagnia ogni tanto 🙂 

Il centro di Medellín e Comuna 13 a diversi livelli di papaye 

Prima giornata a Medellín e quando si arriva in una nuova città non c’è niente meglio che buttarsi a capofitto in un free walking tour. 
Anche Medellín ne ha uno e ci troviamo alle 9 del mattino alla stazione della metro. 
Come molti turisti in città il mio ostello si trova nella zona del Poblado, un’area ricca e sicura piena di ostelli, ristoranti e bar. Il lato negativo è che il Poblado è lontano dall’essere la Medellín dove vivono i veri locali, e giudicare la città solo da questa zona sarebbe fuorviante. 
Il tour di oggi mira a presentarci il centro di Medellín e per raggiungerlo dobbiamo prendere la metro. 
Sembrerà un passo da niente, la metro, ma in realtà cominciamo subito il tour in compagnia di una delle attrazioni principali di Medellín. 
La metro è tutta sopraelevata e nuova di zecca, pulita e tecnologica, il vero vanto di una città in cui fino a pochissimi anni fa non solo non esisteva niente di simile, ma non sarebbe nemmeno stato sicuro prenderla. 


Medellín più di tutte le città colombiane, sudamericane e in un certo senso anche a livello mondiale, è la vera fenice che rinasce dalle sue ceneri. 
Le ceneri di Medellín si sono formate negli anni 70 e sono cresciute sempre più durante gli anni 80 e 90, e per un buon periodo questa è stata considerata la città più pericolosa al mondo. 

Guerrilla, narcotraffico, omicidi, attentati e bombe che hanno ucciso migliaia di civili: in grado di pericolosità diversi durante il tempo, questo era il vero pane quotidiano di tutti gli abitanti di Medellín . 
Medellín ha una reputazione difficilissima da scrollarsi di dosso, sia a livello nazionale ma soprattutto a livello internazionale. “ Fa parte della normalità per noi gente di Medellín viaggiare in giro per il mondo è arrivare al controllo passaporti… presentate il passaporto colombiano e già la guardia si fa sospettosa, quando poi lo apre e vede che siete nati a Medellín, beh, preparatevi al lungo interrogatorio che vi dovrete sorbire con le forze dell’ordine, cercando di spiegare che no, non importate droga e no, non fate parte di un cartel!” Ci racconta la nostra guida Maribel . 

Maribel ci racconta anche della violenza con cui è cresciuta, con il rumore degli spari e delle granate fuori dalla finestra. Racconta del terrore della gente di uscire di casa e dell’inevitabilità di doverlo fare per andare a scuola o a lavoro, la paura di non vedere un proprio familiare tornare a casa, il timore per i propri cari mentre si trovano fuori. 

Appena arrivati in centro ci sediamo su delle scalinate guardandoci intorno e ascoltando Maribel che ci racconta brevemente la storia della regione culturale in cui ci troviamo, la regione Paisa di cui abbiamo già parlato un po’ nei passati articoli. 
Gli antenati dei Paisa arrivano nel 17esimo secolo in queste zone di alte montagne verdeggianti e fanno parte di due popoli tipicamente molto distinti e con particolarità culturali tutte loro : i baschi e gli ebrei ispanici. 

Qualche mistura con dei popoli locali ma soprattutto un isolamento che dura secoli portano i Paisa a comporre un gruppo a se stante, con una cultura e una parlata ben specifica. 
Nel 19esimo secolo la Tierra Paisa è una zona rurale dedita, tra le altre coltivazioni, alla produzione del caffè. Il forte isolamento dovuto alle alte montagne però fa si che quest’attività non fuoriesca dalla zona. 

Tutto cambia con l’avvento della ferrovia che, prima in Colombia, collega la Tierra Paisa con resto del paese. Da quel momento l’industria cresce esponenzialmente e i soldi cominciano ad entrare in territorio Paisa e specialmente nella sua capitale, Medellín, diventando il vero e proprio polo economico del paese. 

Questa nuova prosperità si applica a un popolo che, non dimentichiamoci, fino a recentemente è rimasto chiuso su se stesso e l’apertura del commercio non coincide automaticamente con l’apertura mentale. Il Paisa è stato abituato per secoli a pensarsi migliore al mondo perché beh, non aveva molte maniere di incontrare nessun’altro colombiano o non-paisa, e questo senso di unicità si è mantenuto nel tempo fino ai giorni nostri.
In Colombia lo stereotipo del Paisa , che come tutti gli stereotipi si basa su una certa realtà anche se poi è sempre pericoloso generalizzare eccessivamente, è quello di una persona che lavora sodo, che produce, un businessman nato. Ma il Paisa è anche quello che è bravo a venderti il prodotto ma che fai attenzione perché è così bravo a rigirarti tra le tue mani che magari finisci per esserti accaparrato la parte peggiore dell’accordo stipulato. 
Il Paisa si sente così diverso rispetto al resto dei colombiani che ovunque a Medellín gli unici monumenti alla storia e alla cultura riguardano i Paisa, come se gli altri non esistessero. 
È tristemente ironico come non potesse venire da nessun’altra parte della Colombia quello che fu il più prolifico, più ricco e potente di tutti i narcotrafficanti non solo a livello colombiano ma senza dubbio a livello mondiale : Pablo Escobar. 
Durante il tour non lo chiamiamo mai per nome, alludiamo sempre a lui ma non lo nominiamo. Maribel dice che al giorno d’oggi questo personaggio polarizza molto l’opinione pubblica, e molti abitanti di Medellín hanno sofferto o hanno perso qualcuno di caro a causa dell’organizzazione che capeggiava Escobar, il cartel di Medellín. 
Giuro che prima di lasciare Medellín scriverò qualcosa di più approfondito su questo personaggio che non si può non nominare quando si parla di questa città, ma oggi ho fatto così tante cose che se includessi anche la storia di Pablo Escobar staremo qui fino a domani. Ci basti nominarlo e tenerlo in mente per ora. 
Ci muoviamo per il centro e Maribel ci avverte che si fermeranno molti locali a guardarci o a parlare con noi. Ci chiede di non esserne intimoriti e di accettare la parte nel gioco. Il turismo in Colombia è un evento recente, ma a Medellín è ancora più recente. 

Fino a pochissimo anni fa la città era ancora relativamente instabile e ancora oggi ci sono vere e proprie zone off limits. La gente non solo non è abituata agli stranieri, è abituata ancora meno al turista che desidera recarsi a Medellín per visitare la città. È normale quindi incontrare persone che rimangono ancora un po’ sorprese della nostra presenza, e la stragrande maggioranza in realtà è contentissima di questo: non c’è niente che gridi sicurezza e prosperità in una città come la presenza del turismo, quindi la nostra presenza significa che la città è sufficientemente sicura anche per loro. 

Vediamo moltissime persone, soprattutto di mezza età e anziane, che si fermano ad osservarci, un po’ perplessi, molto curiosi. Provano ad ascoltare ma di inglese non ci azzeccano nulla, può succedere che ti chiedano in spagnolo cosa sta dicendo la guida per sentire cos’ha da dire. 

Maribel ci dice che è comune che qualche locale si introduca nel nostro gruppo, o che per strada ti si dica “ Hey Gringo!” ( Ricordate che gringo non è assolutamente un termine derogatorio ma giocando su degli stereotipi non è neanche il più piacevole per descrivere gli stranieri) frase a cui Maribel suggerisce di rispondere “ Hey Paisa!” . Maribel fa in modo di entrare in contatto visuale e verbale con ognuno di loro, una sorta di monito come a dire “ Lasciali stare” ma anche “ Se vuoi partecipare a questa nuova Medellín che ora prospera e ha turisti, prego, cos’hai da dire loro?” 
Maribel ci insegna un termine colombiano , Papaya. Papaya è il frutto, chiaro, ma vuoldire anche “ opportunità” e viene usato per descrivere le opportunità di fregatura o furto. Quando lasci la borsa aperta con tutta la tua roba, in Colombia si dice che stai “ dando una papaya” a un ladro, ossia gli stai dando qualcosa di succulento e ovviamente lui lo prenderà . È importante quindi “ non dare papaye” , non dare opportunità. Appena fatta la foto mettete via la macchina fotografica, se fate una foto col cellulare impugnatelo con due mani e non con solo una. Passiamo quindi a definire le varie zone dove passeremo a livelli di Papaya: Papaya 1 vuoldire che siamo in una zona sicura, Papaya 5 vuoldire che dobbiamo fare attenzione extra alle nostre cose. Ho fatto molte foto delle zone Papaya 1 e 2, anche se sempre molto cosciente del potenziale pericolo attorno, e di foto in zona Papaya 5 ne ho fatte poche, poco artistiche e un po’ tremolanti. Sapete com’è , troppa Papaya ed è meglio fare le foto con la mente 🙂 
Passiamo per una bella piazza che funge un po’ da simbolo di Medellín: fino a recentemente era una delle zone più pericolose della città, una vera e propria zona da evitare come la peste. Negli ultimi anni è stata pulita e riqualificata ed è ora una bella piazza ampia ed arieggiata, decorata da delle bellissime piante di bamboo e delimitata da una delle tante biblioteche sorte nel centro.



 La piazza è delimitata da un edificio che fino a qualche anno fa era l’epicentro della criminalità della zona di questa piazza, piena di prostituzione, traffico e consumo di droghe.


 Nel progetto di riqualificazione di questa zona hanno ben pensato di rimettere completamente a posto questo edificio, anticamente così noto per le sue attività illegali e trasformarlo in un centro dedicato all’educazione, proprio come a dire che dalle cose brutte nascono le cose belle.
Ci spostiamo in altri livelli di Papaya, raramente succede qualcosa ma è sempre una buona idea aver ben presente dov’è la borsa. Papaya 1 o perfino Papaya 5 non si può dimenticare che fino a pochissimo tempo fa quest’intera città era a Papaya 15 o 20, era una città in cui NON ci si metteva il naso per nessun motivo, e solo il fatto che stiamo camminando tranquillamente per le strade del centro di Medellín è una sorta di miracolo impensabile fino a qualche tempo fa.




Ci sono molti edifici moderni e sebbene non abbondi di monumenti o negli edifici la verità è che ha un centro a tratti gradevole. C’è molta vita attorno a noi e la bella giornata di sole da maniche corte e shorts aiuta a darci una bella impressione. 
Passiamo per Piazza Botero, uno dei punti più famosi della città. 



Vi ricordate di Botero, l’artista colombiano di cui abbiamo parlato quando eravamo a Bogotá? Finalmente siamo nella sua città natale, una città che, nonostante lui viva stabilmente a Parigi, non manca mai di visitare per un intero mese ogni anno. 

Alla città Botero ha donato una serie di statue che sono state esposte appunto nella piazza rinominata in onore dell’artista, proprio davanti al Museo di Antioquia che ospita una serie di suoi quadri. Per mia sorpresa Maribel ci informa che siamo in una zona di Papaya 5, e io mi stringo bene la borsa appresso. 
Parte della piazza è un edificio un po’ strano. Sembra una chiesa ma in realtà è un centro culturale. 



A costruirla fu un architetto belga, chiamato dall’Europa appunto per progettare e costruire l’opera. Durante la costruzione però la gente del posto lo trova sempre più simile a una chiesa e comincia a chiedersi se ne valeva davvero la pena chiamare un europeo per costruire una chiesa. Dopo tutte le critiche il belga decise di mollare la spugna e lasciare il progetto e le istruzioni ai colombiani, che se erano più bravi di lui che si arrangiassero. I locali da bravi Paisa ovviamente non avevano dubbi di riuscire a tirar su l’edificio. Questo fino a quando non presero i progetti in mano e… non ci capirono niente. Finirono per rattoppare un po’ il resto dell’edificio in uno stile non ben definito e ben lontano da ogni fasto architettonico, e la guida scherza con noi e ci fa vedere “ Lato Europeo… Lato Paisa!” 
Ci spostiamo e osserviamo una piazzetta piena di uomini. Maribel ci spiega che sono tutti pensionati, tutti annoiati a casa, tutti che si ritrovano qua per scambiarsi oggetti e concludere grandi affari. Maribel una volta ha chiesto a qualcuno di loro se sono mai riusciti ad aggiudicarsi qualche oggetto di valore: molti di loro hanno risposto di no, ma che è pur sempre meglio della noia di casa. 


Passiamo per zone a livelli di Papaya molto diversi e vediamo molte zone diverse del centro, zone più tranquille e curate e zone dove l’energia nell’aria cambia, l’aria profuma di marihuana e passiamo l’ubriacone occasionale.
Finiamo il tour in una piazza in cui non tornerei da sola ma che sono contenta di vedere in gruppo perché ne avevo sentito parlare. Anche qui ci sono delle statue di Botero solo che una fu fatta saltare in aria da un gruppo di guerrilla nel 1995, proprio nel bel mezzo di un concerto, uccidendo una decina di persone. Il sindaco di Medellín era risoluto nell’eliminare la statua danneggiata per eliminare il brutto ricordo ma ricevette tempestivamente una chiamata dallo stesso Botero, che insistette per lasciarla così com’era, sfasciata, a memoria dell’orrore della violenza, e donò alla città un’altra statua uguale identica da mettere a lato, a simboleggiare la resistenza alla violenza e il desiderio di pace della città. 

Durante il tour faccio amicizia con un ragazzo italiano e un ticinese. A fine tour mi trovo davanti al bivio di tornare in ostello o di seguirli verso un altro walking tour di cui abbiamo sentito parlare, e siccome è ancora presto mi dico perché no. 

Ci infiliamo nella metro e prendiamo la coincidenza giusta per arrivare al nuovo punto d’incontro prestabilito. Da lì prendiamo tutti in gruppo un minibus locale per raggiungere la Comuna 13, un quartiere di case popolari che fino al 2003 era una zona di non accesso tanto era pericolosa e che ora è stata riabilitata e profondamente trasformata. 


Chi ci porta in giro è una ragazza che vive nella Comuna 13 e che sembra conoscere chiunque, oppure tutti conoscono tutti.

 Ci fermiamo da Doña Alba, una signora del posto che basta chiamare a voce alta e lei esce dal balcone. 
Vende gelati fatti in casa con vari gusti, e io prendo un gelato al mango. Si rivela essere un ghiacciolo di mango verde con limone e una punta di sale. Non ho dubbi: il miglior ghiacciolo della mia vita! 


Saliamo per le vie della Comuna 13 e tutti sono cordiali e sorridenti, le case sono semplici ma spesso colorate e decorate da bei graffiti che abbelliscono il quartiere. 



Prendiamo le scale mobili, un’altra opera di vanto per il comune di Medellín che non solo è riuscito a normalizzare la situazione nella zona ma ha installato queste moderne scale mobili coperte che aiutano le persone a spostarsi meglio da un punto all’altro del quartiere. 



Dall’alto godiamo di una vista mozzafiato su Medellín e entriamo in contatto con i locali, che sembrano tutti incuriositi e felici della nostra presenza. Parliamo con qualche bambino, accogliamo un’anziano afrocolombiano che si siede con noi mentre ascolta la spiegazione sulla tragica storia di violenza che ha segnato il suo quartiere per tanti anni e osserviamo dei giovani che ci fanno uno spettacolo di breakdance e rap improvvisato in cambio di qualche moneta. 

Nessuno di noi ha dubbi che questa che è la zona più povera e che dovrebbe metterci più paura è invece la zona più amichevole, tranquilla e fondamentalmente bella della Medellín che finora abbiamo visto.

 


La sera mi trovo per cena con l’italiano, il ticinese e un tedesco che abbiamo adottato lungo la strada per la Comuna 13 e chiacchieriamo a lungo di vita e di viaggi.

 Torno a casa tardi e ora mi devo davvero mettere a letto per svegliarmi presto domani, perché ho altre attività previste! 

Le palme del Cocora e il trekking “involontario” nella giungla 

Il secondo motivo per cui sono venuta a Salento è la Valle del Cocora. 
Un tempo della Colombia non sapevo proprio niente. Poi ho cominciato a sentirne parlare da viaggiatori che tornavano dai loro viaggi, tutti innamorati di questo paese. Poco tempo dopo vidi delle immagini della Valle del Cocora, forse le prime a entrare nella mia testa associate alla Colombia e da quel momento ho saputo che, un giorno o l’altro, l’avrei vista anche io. 
Anni dopo mi ritrovo finalmente davanti alle alte palme del Cocora. 


Ma con calma, non precipitiamoci. 
La mattina provo a svegliarmi presto. Sono ormai lontani i giorni iniziali in cui risentivo ancora dell’effetto del jet lag e mi svegliavo prestissimo, sono tornata la solita pigrona di sempre . 
Mi dicono che per la visita completa alla Valle del Cocora ci vogliono circa sei ore, e so che il pomeriggio è prevista della pioggia mentre il mattino dovrebbe essere bello. 
Per arrivare alla Valle del Cocora, che dista circa mezz’ora da Salento, bisogna prendere una delle tante jeep stazionate nella piazza principale del paesino. Teoricamente c’è almeno una jeep che parte ogni mezz’ora, ma in pratica se la domanda sale le jeep partono il più presto possibile. Per assicurarsi il passaggio basta avvicinarsi al conducente e chiedergli se ha spazio. 

Immancabilmente il conducente ti risponde che si, è pieno di spazio e col dito ti punta una jeep stipata di visitatori che aspettano il raggiungimento della quota massima di passeggeri richiesti per la partenza. In una jeep da sei posti un buon conducente riesce a strizzarne almeno dieci se non undici: otto seduti ( quattro e quattro) e due o tre in piedi appesi al tettuccio. 
Trovo il mio conducente, gli chiedo se ha spazio. Lui risponde che Claro, hay espacio! Eccola laggiù la sua jeep. 
A me pare piena, gli chiedo se è sicuro. Lui dice Claro que hay espacio. Basta stare in piedi. Vedi, appesa così, al tettuccio. 

Gli chiedo quando parte la prossima jeep. 

Tra un’ora.

Troppo tardi. 

E va bene, penso, tettuccio sia. 
Faccio per sistemarmi in piedi quando un turista francese ha pietà di me e comanda alla sua ragazza di stringersi un po’ per farmi spazio. Li ringrazio profusamente e mi accomodo nel poco spazio disponibile sul sedile. 
Mezza chiappa sta sul sedile e l’altra che oscilla fuori dalla jeep insieme a tutta la metà sinistra del mio corpo. Prego che la destinazione non sia a un’ora di distanza, come avevo sentito, e ci mettiamo in moto.
Passati dieci minuti la mia gamba destra comincia ad addormentarsi e il tubo di metallo che mi si è conficcato nella schiena comincia a farsi sentire. Chiedo a una turista tedesca di farmi una foto così, mezza dentro e mezza fuori, scherzo chiedendo se per favore mi può fare una foto così poi la mando a mia madre per terrorizzarla. Lei ride ma intanto non capisce niente e mi fa una foto in cui si ci sono io, ma non si vede la gamba che tengo fuori. Purtroppo questa è uno degli svantaggi del viaggiare da soli: quando si affida la propria macchina fotografica a uno sconosciuto ti può capitare di darla a chi di fotografia non c’azzecca proprio niente. 

Finalmente dopo mezz’ora arriviamo al parcheggio della valle del Cocora, smonto e mi ci vuole un po’ per riattivare la gamba destra che ormai è in pieno letargo . Per aggiungere un po’ di umorismo alla mia condizione mi cadono delle monete per terra, e vedermi mentre mi piego con la gamba addormentata dev’essere stato un vero spettacolo da cabaret. 
Prima di prendere la jeep mi sono fermata in un baretto specializzato in pranzi al sacco per chi va a visitare il Cocora. Con una manciata di euro ti preparano un bel sacchetto di carta con panino, due snack, una banana e dell’acqua. 

Entrando il barista mi chiede se vado alla valle del Cocora e io confermo, lui mi chiede se so come arrivarci e cosa fare, io dico più o meno e lui si prodiga a spiegarmi per filo e per segno cosa fare con una mappa sottomano. Un’altro colombiano infinitamente cortese così come sembrano essere tutti qua attorno. 
Esiste un circuito classico circolare in cui si segue un percorso che porta a vari punti di interesse e che dura circa sei ore. Mi sento positiva e non so cosa aspettarmi quindi imbocco l’entrata del circuito. 
Praticamente subito cominciano le belle colline ricoperte di queste altissime palme molto suggestive. Si chiamano palme da cera e fino a poco tempo fa erano a rischio d’estinzione. 


La particolarità di questo paesaggio è che le palme da cera crescono unicamente in questa valle. 


Appollaiate sulle ripide colline c’è qualche mucca intenta a mangiare e a oziare, e lungo il percorso mi imbatto in piccole scuderie con dei cavalli adibiti al trasposto dei visitatori che pagano per questo servizio. 


Mi guardo attorno e giuro, potrei essere in Alto Adige d’estate. 

Non fosse per le palme?!?


Mi godo il momento di essere arrivata finalmente nel posto che ho tanto desiderato vedere dal vivo, ma so che ho ancora molta strada da fare. E poi, penso, è inutile soffermarsi troppo: ci saranno scenari così durante tutte le sei ore! 
I campi simil-altoatesini finiscono improvvisamente e il percorso si inerpica in una foresta fitta fitta. Nel giro di qualche metro sono entrata in una vera e propria giungla con vegetazione tropicale e un fiume che scende dalla montagna e forma ripide e cascate. 

Il percorso si snoda nella fitta giungla, e nonostante vorrei guardarmi attorno finisco per dover tenere lo sguardo fisso a terra per vedere dove metto i piedi.

Diciamoci una cosa: le camminate mi piacciono, il trekking un po’ meno. Posso fare eccezioni ed adattarmi se la meta vale la pena o se il percorso è molto suggestivo, ma sia perché non sono la camminatrice più atletica ed esperta e sia perché non capisco cosa ci sia di divertente nel percorrere un tratto tutto a ostacoli per cui passo più tempo a naso in giù che in su guardandomi attorno, di solito non mi si trova a far trekking. 
Penso che presto la giungla finirà, presto ricominceranno le palme e le mucche. Inoltre so che per questa strada si raggiunge Acaime, un piccolo rifugio che ospita dei colibrì e che il mio ostello consiglia vivamente di vedere. 
Vado avanti e cerco di studiare bene il percorso per sporcare il meno possibile le mie scarpe, che sono delle scarpe da ginnastica un po’ più tecniche sia nel materiale impermeabile con cui sono rivestite sia nella suola più stabile. Il percorso si rivela irregolare, tanti grandi sassi su cui salire e scendere continuamente e molto, molto fango. E cacche di cavallo. 
Qualche altro metro e ricominciano le palme. Mi dico.
Solo che le palme non ricominciamo mai e invece mi avventuro sempre più nel fitto della giungla. 
Seguo quello che pare un percorso prestabilito ma mancano segnaletiche. Per capire se sono sulla strada giusta mi baso sulle impronte di scarpe e ferri di cavallo che vedo a terra, segno che non sono la prima a passare. 
Il problema è che sono sola. 
Completamente sola. 
Pensavo di imbattermi in altri camminatori, ma forse siamo nella stagione bassa e non ci sono molti visitatori o… forse sono sulla strada sbagliata?… chiederei, ma non sembra esserci nessun’altro.
Fossi saggia girerei i tacchi e tornerei indietro, però una parte di me pensa che oltre a saggia sarei anche noiosa e eccessivamente timorosa. Delle volte bisogna anche osare e uscire dalla propria comfort zone, che poi è il leitmotiv di questo viaggio no? E allora continuo, tra sassi e mari di fango sempre più profondo. 
Passa il tempo. I minuti si moltiplicano e diventano un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora. 
La strada è difficile e sento la pelle sensibile al clima tropicale tutt’attorno. Ci sono molti moscerini, spero non siano zanzare perché non ho il repellente. Poi la parte paranoica del mio cervello comincia ad attivarsi, e prega fortemente che non ci siano zanzare portatrici di malattie.
Malaria.
Febbre gialla! 
La parte razionale del mio cervello zittisce la parte paranoica rassicurandola: 
Malaria? So che non mi trovo in un dipartimento a rischio di malaria. 
Febbre gialla? Ma cosa dici che quest’estate ti sei fatta il vaccino e per una settimana non ti si poteva nemmeno sfiorare il braccio. 
Su, su, zitta e avanti. 
Altri sassi, altro fango, l’occasionale cacca di cavallo che attira miriadi di bellissime farfalle dai colori sgargianti.


 Attorno a me una natura sempre più rigogliosa e tropicale, un fiume sempre più in piena. 



Non incontro nessuno, sono completamente sola, io e la natura. 

Affascinante, ma anche un po’ terrorizzante. 
E se metti giù male il piede e non puoi muoverti, interviene puntualmente la Giorgia paranoica. 

La Giorgia razionale ci pensa e non trova molte obiezioni: è vero, potrebbe succedere, andare in giro per conto proprio nella giungla comincia a non sembrare l’idea migliore dell’anno. Ma ormai sono qui, e l’unica cosa da fare è fare molta attenzione e tenere gli occhi aperti davanti, dietro e tutt’attorno . 

Un ponte. 
Ecco ci voleva solo questa.
Non un ponte solido e ampio. Un ponte che sembra improvvisato, che oscilla come il pavimento durante un terremoto forza 8. Semplici pannelli di legno legati con del fil di ferro. 

Non c’è altra maniera di continuare il percorso, non stravedo per l’idea ma non posso certo tornare indietro, mi dico. 
Su su, zitta e avanti. 
Passo il più rapido possibile facendo attenzione a non mettere un piede nei tanti intervalli tra pannello e pannello , certi più larghi degli altri. Arrivo a fine ponte, dentro di me mi sento un po’ Indiana Jones e mi batto una mano sulla spalla mentalmente. 
Il percorso continua e il fango si fa sempre peggio. Adotto mille stratagemmi per evitare di finire dentro ai tratti peggiori e mi equilibrio su sassi e tronchi ricoperti di fango. 
Un’altro ponte. 

Cristo. 
Passo anche questo alla velocità della luce. Sono sola e tiro giù qualche sonora parolaccia. 
Tutto perché voglio vedere delle palme, delle mucche e dei colibrì. A proposito, ma le palme dove sono finite? 

Cristo. 
Il percorso continua senza indicazioni ne direzioni, e ogni tanto mi chiedo se sono sul sentiero giusto. Ogni volta che mi imbatto in un ponte o in una staccionata rudimentale sono felice perché significa che il passaggio di esseri umani per di qui è stato previsto. 
Un paio di volte mi trovo davanti a dei bivi, o almeno mi sembrano dei bivi. Provo a fidarmi del mio istinto e scelgo i percorsi che sembrano più probabili. 
Dopo un’ora da sola immersa nel fango e nel verde mi imbatto nella tedesca che mi ha fatto la foto male e la sua compare sedute sul ciglio del fiume intente a pranzare. Mi colgono di sorpresa ma sono felicissima di vederle, la Giorgia paranoica si mette il cuore in pace pensando che se ci siamo perse, almeno siamo in tre. 
Continuo il percorso, un continuo su e giù, sassi, fango, cacca e farfalle. Consulto l’ora sul cellulare e mi accorgo che sono rimasta senza campo. Perfetto, così se mi rompo una gamba sono in balia delle due tedesche. Sempre che passino sullo stesso sentiero. 
Oh Cristo ma chi me l’ha fatta fare. Per delle palme. Ma brava! 
La Giorgia paranoica pensa al coltivatore di caffè inglese che ieri le ha raccontato del suo amato Husky che, un anno fa, è morto a causa di un morso di vipera. 

Un Husky, una Giorgia, la vipera non dev’essere troppo schizzinosa. 

O magari finisco divorata da un Puma

La Giorgia razionale fa fatica a tenere tutto sotto controllo ma ormai è entrata in modalità di sopravvivenza, e l’unica cosa che importa è arrivare sane e salve al santuario dei colibrì e poi valutare il da farsi. 
Mi lamentavo dei ponti instabili ma li rimpiango quando mi trovo davanti a questo. 

Chiuderei gli occhi ma complicherebbe ancora di più il passaggio, quindi mi calo nuovamente nella modalità di sopravvivenza e lo attraverso. 


Sempre di più mi sento come una naufraga, una Robison Crusoe, spersa nella giungla e senza possibilità di farcela se non contando sulle mie abilità. Sono stufa, stanca e ho un pizzico di paura, ma sono fiera di me. 
La mia immaginazione corre libera, mi vedo a cercare di pescare i pesci nel fiume, costruirmi una capannina con un giaciglio. Eccomi, persa in una giungla colombiana.

Mi rendo conto che non corro nessun pericolo se non quello di farmi male sul percorso, ma dopo ore chiedendomi se sto facendo la cosa giusta e con nessuno a rassicurarmi ogni tanto perdo un po’ la nozione di cosa ha senso e cosa non ha senso. La paranoia può giocare brutti scherzi.
Sto negoziando una salita tutta sassi e fango profondo, valutando se mettere il piede qui o lì, quando una mano si protrae verso di me. 

Alzo lo sguardo e mi trovo davanti a due colombiani, uno dei quali fa il gentiluomo e mi offre la mano come appoggio. Io lo ringrazio profusamente, il mio angelo custode. Gli chiedo se sono sul percorso giusto, lui conferma. Chiedo quanto dista il santuario di sti dannati colibrì , lui dice che non manca molto ( in realtà mancano ancora un buon 45 minuti ma da bravo angelo custode mi racconta una piccola bugia bianca per infondermi fiducia) .
Sassi, fango, farfalle, belle piante , fango, sassi, scorci suggestivi , fango , sassi. 
Taglio corto e dopo una salita estenuante in cui mi sento sul Calvario arrivo a sto benedetto santuario di sti cavolo di colibrì. 

Mi siedo, apro il mio pranzo al sacco comprato la mattina e ci trovo un messaggio che non può che rimettermi di buon umore. 

“ Volevo solo dirti che sono molto fiero di te perché stai provando avventure nuove, stai imparando cose nuove e per essere una bella persona. Mi raccomando parla con gli sconosciuti e fai nuove amicizie! Spero ti piaccia questo pranzo, se ci riporti questa nota nel bar ti darò un bicchiere di succo di arancia fresco, oppure dai questo messaggio a un nuovo amico! Con amore, Papa Brunch “ ( Brunch è il nome del bar)
Finito il pranzo vado a conoscere i colibrì. 

Ce ne sono almeno una ventina tutti intenti a bere e alcuni a baruffare tra di loro. 




Volano così veloce che l’occhio li perde facilmente di vista e quando ti volano appresso sollevano un sacco di aria e sembra di avere soffi d’aria tutt’attorno. Sono molto belli, anche se non so se valgono da soli due ore di trekking. 

Ritorno sul sentiero. Una mappa nel santuario spiega che devo tornare indietro e li troverò il sentiero verso un rifugio di montagna da cui si ha una bella vista e poi si può scendere verso le colline con le palme… aspetta, con le palme? 


Cioè volete dirmi che se facevo il sentiero dalla parte opposta, al posto di cominciare con la giungla cominciavo con le palme? 
La notizia mi infastidisce non poco e ho sempre meno voglia di raggiungere il rifugio. Le persone con cui ho parlato lo descrivono come il tratto più impegnativo e io comincio già ad essere stanca e demotivata. Inoltre ho paura che piova da un momento all’altro, e se già il percorso è pieno di fango immaginate con la pioggia. 
Torno indietro cercando comunque questo accesso al sentiero che porta al rifugio, ma non lo troverò mai. 
A un certo punto mi imbatto in un colombiano a cavallo, una guida locale, gli chiedo dov’è l’accesso al rifugio e mi dice che l’ho già passato. 

Mettere un’insegna nel punto giusto no ah? Non ho più voglia di tornare indietro e ci rinuncio, pensando invece che potrei entrare direttamente nella zona delle palme a partire dall’entrata. Per attuare auesto mio piano però mi devo muovere prima che diventi tardi o che cominci a piovere, quindi mi spiccio. 
Tornando indietro ho il vantaggio di sapere dove e come passare, quali sassi utilizzare per non affondare nel fango e quanti ponti mi aspettano. Sono così stufa che non mi importa più di niente e procedo a passo sostenuto e relativamente sicuro. 
Tornando giù incontro più visitatori, e non ho mai il dubbio di essere sul sentiero giusto, mi chiedo dove se ne stavano mentre andavo in su. 
Finalmente la giungla finisce e ricominciano le colline con le palme solo che stavolta c’è il sole e la Valle è ancora più bella di stamattina. 
Sono distratta e invece di prendere il percorso destinato alle persone imbocco quello parallelo dedicato ai cavalli. I due percorsi sono separati da tre file di filo spianato che continua ininterrotto dall’inizio alla fine della valle. Mi accorgo dell’errore troppo tardi e procedo ad elencare tutte le parolacce che mi vengono in mente. 
Mentre mi inerpico nel sentiero dei cavalli, un tripudio di fango e cacche verdognole, mi guardo anche attorno e rimango affascinata dalle altissime palme che alla fine erano più vicine di quel che pensassi.

 

Errore
Questo video non esiste

Ringrazio varie divinità quando trovo una breccia nel filo spinato e riesco a passare nel percorso per persone, e finalmente mi godo una passeggiata tranquilla con le viste più belle. 

Al mio ritorno nel parcheggio la jeep è stipata di persone e già tre ragazzi penzolano fuori appesi al tettuccio. Uno di loro mi guarda ed è il ragazzo francese che all’andata era stato così gentile da salvarmi da quella sorte, e ora è lui che inesorabilmente si ritrova appeso fuori. 


Ci guardiamo e ridiamo, lui dice che il destino è destino, mi sprona a unirmi a lui ma rispondo che preferisco bermi un caffè e aspettare mezz’ora che arrivi la nuova jeep. Ci salutiamo e mi siedo ad aspettare. 
Il conducente della nuova jeep mi spiega che partirà tra mezz’ora ma se troviamo altre sette persone partiamo subito. Nel giro di poco arrivano altri camminatori sfiancati e siamo un totale di undici, in pochi minuti sfrecciamo sulla strada che ci riporta a Salento. 

Quasi mi sto assopendo in una posizione ben poco ortodossa, schiacciati come siamo manco fossimo sardine, quando arriviamo in piazza a Salento. Smontando il mio vicino americano scherza con la sua ragazza, “ Sembra il D-Day” dice e io mi metto a ridere. 
Sono così stanca che ho la mente un po’ annebbiata, ma sono felice di essere tornata. Sono solo le quattro e ho intenzione di andarmi a bere un bel caffè in una caffetteria vicino al centro. 

Faccio per dirigermi verso la caffetteria quando colpisco qualcosa con il piede. 

Guardo cos’è successo e mi accorgo di aver beccato in pieno un’abnorme cacca di cavallo tutta verdognola e fresca. L’ho calciata con forza, come fosse una palla da calcio, immergendoci per bene la scarpa che ho passato ore a proteggere da simili contatti e spargendo i resti organici tutt’attorno. 

Davanti alla piazza intera che pullula di persone e che di sicuro hanno visto la scena dall’inizio alla fine. 
Sono così stanca e così sorpresa che mi metto a ridere da sola. 
Dico ciao al caffè che mi pregustavo perché ora ho fretta di tornare in ostello. Sento però che merito comunque una ricompensa per la giornata quindi mi fermo al carretto che prepara le limonate di cocco e me ne ordino una da sorseggiare mentre vado a casa, e attendo che me la preparino mentre ho una scarpa ricoperta di cacca di cavallo. 
Arrivo a casa, lavo le scarpe, mi faccio una doccia caldissima e lunghissima e per evitare di addormentarmi esco. 
Oggi gioca la Colombia contro il Perù, qualificazioni per i mondiali, oggi si decide se la Colombia andrà a giocare in Russia o no. 

Voglio guardare la partita con dei colombiani, non tanto perché mi interessi il calcio ma perché è sempre bello assistere all’energia che si sprigiona quando si guarda la partita di una nazionale .


In piazza i ristoranti più grandi hanno piazzato degli schermi all’aperto e hanno sistemato dei tavoli e delle sedie davanti. 

Mi piacerebbe sedermi ma noto che gli spettatori sono tutti stranieri, e io volevo trovare dei colombiani. Giro un po’ il centro in cerca di un buon posto, ci sono tante bandiere colombiane e molte persone indossano la maglietta gialla della nazionale. 
Trovo un baretto che fa anche qualcosina da mangiare, sono l’unica donna e l’unica straniera ma nessuno mi fa caso. 

Il primo tempo passa senza gol e con tante parolacce che aleggiano nell’aria. 

La telecronaca è iperbolica e da cardiopalma, mi chiedo come faccia a respirare il commentatore o se respiri affatto. 

Nel secondo tempo finalmente la Colombia segna e la soddisfazione è alle stelle. Prima della fine della partita segnerà anche il Perù e si finisce 1-1, ma alla Colombia non importa perché le basta per qualificarsi per i mondiali dell’anno prossimo. Tutti sono contenti e la gente urla Colombia! Colombia! 
È ora di finire questa giornata e anche se domani avevo intenzione di ripartire aggiungerò una notte alla mia permanenza a Salento così da rilassarmi un po’ e godermi il paesino per un giorno in più. 

Il magico mondo del caffè colombiano 

Oggi dedico la giornata interamente al motivo principale per cui sono venuta qui: il caffè. 
Sto in una pensione chiamata Plantation House, proprio perché originariamente era una piantagione. Tutto attorno a noi ci sono molte piante di ogni tipo, molte di esse producono caffè. 

I proprietari di questo piccolo paradiso sono una coppia, lei colombiana e lui inglese che da 10 anni ormai gestiscono questa pensione e una vera piantagione di caffè in piena attività a quasi un chilometro di distanza. 

Per gli ospiti ( ma non solo) ogni giorno organizzano un tour della loro piantagione, e oggi chi scorrazza me e una coppia di olandesi per la tenuta é proprio il proprietario inglese, Edward. 
Edward ci spiega tutto sul caffè partendo dalle basi. 

Esistono due tipi di piante di caffè, la Robusta e l’Arabica. 

La prima non ha difficoltà di crescita e si adatta benissimo a qualsiasi tipo di suolo, di clima e di altitudine, é decisamente più ricca di caffeina ma non produce mai caffè di vera qualità. L’Arabica invece é una pianta più delicata, ci vogliono le condizioni giuste e una certa esperienza da parte del coltivatore per farla crescere, contiene meno caffeina ma produce gli esempi più qualitativi di caffè. 
Il maggior produttore di caffè del mondo é di gran lunga il Brasile, esso infatti produce tanto quanto il secondo, il terzo e il quarto dei produttori più redditizi del mondo. Secondo nella lista é il Vietnam, una relativa new entry nella lista e specializzato in Robusta di bassa qualità. Il terzo produttore più grande del mondo é l’Indonesia e la Colombia occupa il quarto posto. 

La Colombia produce esclusivamente Arabica, e l’alta qualità del suo caffè di fatto la porta ad essere la seconda produttrice per quanto riguarda il caffè di qualità. Tipicamente quasi tutto il prodotto di qualità è destinato all’esportazione e per il consumo locale rimangono solo gli scarti di pessima qualità. La mancanza di qualità nel caffè che bevono i colombiani arriva al punto che ogni caffetteria qui serve il caffè più bevuto da tutti, il Tinto, che è una specie di “ estratto” annacquato del caffè di più bassa qualità. Ironico il fatto che in realtà spesso la Colombia non produce abbastanza caffè di bassa qualità e si vede costretta ad importare caffè di bassa qualità dall’estero per supportare il bisogno di Tintos della sua popolazione! 
Dentro alla distinzione tra Arabica e Robusta , esistono nella categoria Arabica moltissime varianti, piante che nel tempo si sono adattate alle condizioni locali di dove crescono e sono mutate geneticamente producendo Arabiche lievemente diverse. 
Esistono varietà di Arabica classiche, dette Tradizionali, ma sono popolari anche gli incroci che nel tempo di sono sviluppati sia nelle piantagioni che nei laboratori. 

Il problema delle piante tradizionali è il classico motivo che fa dell’Arabica una pianta molto delicata: esse sono suscettibili a malattie e al clima, se non ci sono le condizioni ideali può non crescere bene o non cresce affatto, rovinando il raccolto e causando enormi problemi economici per il produttore. 

Gli ibridi nati nel tempo hanno migliorato la resistenza della pianta senza perdere in qualità, sono più facili da coltivare delle varietà tradizionali e sono una fonte di guadagno più stabile e prevedibile. 
Questi due tipi di Arabica hanno un aspetto molto diverso: gli ibridi tendono ad essere piantine piccole, quasi cespugli, mentre le piante tradizionali tendono a crescere fino a diventare alte come alberi. Non c’è dubbio che i produttori preferiscono raccogliere le bacche da caffè dalle varietà ibride.
Tradizionalmente i produttori di caffè non non guadagnano molto e quindi ogni soluzione che porti più soldi a casa è la benvenuta. Nel mondo della produzione del caffè non esiste la cura per la diversificazione tra varietà e varietà come per esempio si ritrova nel vino principalmente perché il prezzo del caffè viene stabilito mondialmente per tutti, c’è un singolo prezzo per l’Arabica e uno per la Robusta. Le conseguenze di un approccio del genere è che coltivare un’Arabica tradizionale tutta piena di problemi risulta in tanta fatica e rischio di fallimento quando poi il prodotto ultimato costa uguale ai chicchi dell’ibrido più resistente e redditizio. 

Peggio ancora, non c’è nessun incentivo economico nel separare le varietà, quindi spesso i produttori buttano nello stesso sacco chicchi appartenenti a una miriade di varietà senza distinguerle. 
Il risultato di questo approccio è che le varietà tradizionali stanno scomparendo e spesso è impossibile comprare e consumare un caffè di una specifica varietà che viene unicamente da una determinata piantagione. 

Le cose però stanno cambiando. 

Esiste nel mondo un nuovo approccio verso il mondo del caffè denominato “ Third Wave”, o terza ondata. 

Questa corrente di pensiero vede consumatori che si interessano nella singola varietà, nel tipo di torrefazione utilizzata e nella chiara rintracciabilità del luogo e dei metodi utilizzati per produrre il caffè che si beve. 

Ovunque nelle grandi città del mondo sorgono bar specializzati in caffè che va oltre al semplice consumo di caffeina e che lo vede più come un prodotto da consumarsi come si consuma il vino, il whiskey o le birre, con interesse e coscienza delle specificità e delle differenze di quel che si sta bevendo. Nella Third Wave si provano caffè di varietà e di provenienze diverse, si tende a consumare il caffè tostato lievemente o mediamente e si predilige un assortimento di metodi di preparazione: espresso e moka ma anche caffè a filtro, French press, Chemex, Aeropress , Sifone eccetera. 

In senso orario da sinistra: French Press, Syphoon, Aeropress e Chemex

Ogni preparazione produce caffè diversi in cui è possibile assaporare profili differenti: certe preparazioni come il filtro o la Chemex risultano in caffè molto diversi dall’espresso a cui siamo abituati e che sembrano più a delicati the che al caffè corposo a cui siamo abituati.
È sicuramente poco popolare e un tantino controverso leggere quello che sto per scrivere, ma nel mondo dei conoscitori di caffè è ampiamente risaputo il seguente: 
l’Italia è maestra nell’applicazione delle preparazioni del caffè, essa infatti ha inventato e perfezionato le macchine da espresso, la moka e perfino la French Press che di francese ha poco o niente. 

L’Italia è senza dubbio la leader indiscussa delle bevande a base di caffè e latte, la nostra tecnica per fare il cappuccino perfetto ne è la prova. 
Per quanto riguarda i chicchi di caffè utilizzati in Italia però parliamo di un prodotto di bassa qualità se non pessima. 
Innanzitutto l’Italia consuma moltissima Robusta, che abbiamo visto essere ricca in caffeina e povera in qualità. Come se questo non bastasse abbiamo la nostra torrefazione specifica per espresso, che è tra le più scure che esistono, a un passo dalla bruciatura. 

Ma quanto incide la torrefazione sul caffè? 

La risposta è molto, moltissimo. 

È durante la torrefazione che il caffè si fa caffè, che esso adotta il profilo e il gusto che lo distinguerà . 

Una torrefazione lieve tipicamente ci da caffè leggeri, bassi in caffeina, più morbidi, senza amarezza e pieni di acidità. La torrefazione scura, come quella italiana ma non solo, produce caffè forti, alti in caffeina, senza acidità e con molta amarezza. 

Il problema che chi “ studia” i caffè ha con la torrefazione all’Italiana è che più si cucina il chicco di caffè e più si annullano le specifiche differenze tra varietà e varietà , facendo si che abbia tutto lo stesso profilo: amaro, bassa acidità e tanta caffeina. Che sia cresciuto in Colombia o in Rwanda, in alta montagna o a bassa quota, che sia di varietà Bourbon piuttosto che Caturro, è impossibile trovarci differenze. 
Avete presente quando al bar chiedete un cappuccino o un macchiato, o se prendete un espresso molti di voi aggiungono lo zucchero? Perché il caffè senza latte e senza zucchero al bar, diciamocelo, ammettiamolo a noi stessi per una volta… non è buono? 

Ecco, ora lo sapete. 
Ma ora sapete che esistono mille modi di produrre e preparare il caffè, e spero vivamente che un giorno vi capiti di provare un caffè a torrefazione lieve ( magari un etiope che spesso ha note floreali e sa essere acido come un limone! ) e preparato a filtro o con una Chemex e che lo affrontiate non come un caffè ma come una nuova bevanda da scoprire . Vi assicuro che proverete qualcosa di molto, molto diverso da quello che pensate di conoscere già. 

Lo dico con certezza perché in Norvegia la Third Wave è molto in voga, specialmente a Oslo dove è quasi uno scandalo se il barista non vi sa dire che varietà state bevendo e da quale specifica piantagione sperduta in quale distretto della Papua Nuova Guinea venga, ho avuto modo di provare caffè che hanno sfidato la mia nozione di cosa sia o cosa non sia il caffè ed è difficile non rimanerne affascinati. 
Ma torniamo alla nostra visita della piantagione. 

Ci dirigiamo lungo un sentiero pieno di fango che per fortuna navigo con gli stivali di plastica prestati dalla pensione. 


Edward ci spiega che stiamo percorrendo l’antica strada che collega Salento alla capitale Bogotà, che un tempo di percorreva a piedi, o se si era ricchi abbastanza seduti su una seggiola legata alla schiena di una povera persona che come lavoro faceva l’umano da carica .

“ Strada espressa “ per Bogotá. Se io ci ho messo 8 ore di autobus, non oso immaginare a piedi !

Finché passeggiamo parliamo di caffè, di varietà, di come pochissimi in zona fanno quello che fa Edward. Da qualche anno infatti l’inglese si specializza in piante di Arabica tradizionali, quelle che nessuno più vuole coltivare ma che gli esperti di caffè in giro per il mondo riveriscono per via delle loro specificità . 

Ci spiega che il suo obiettivo finale sarà quello di avere un sito in cui si potrà accedere e si potrà dare direttive e preferenze in modo che si comandi effettivamente la produzione di un piccolo lotto di terra coltivato a caffè . 

Si potrà scegliere la varietà che si vuole e come la si coltiva , “ Se volete che faccia crescere le vostre piante col suono di Mozart o Bob Marley 24 ore su 24, così farò. Pagate un po’ di più ma fate quello che volete, le piante sono vostre e io le coltivo come vi pare e piace” . 

A fine crescita Edward provvederà a raccogliere il vostro caffè e lavorarlo, e vi invierà i chicchi da tostare se siete quelli che vogliono tostarlo a casa o li tosterà per filo e per segno come piace a voi. Avrete così la vostra scorta regolare di caffè di qualità prodotto in Colombia così come lo avete sempre desiderato. 
Il sito è in fase di costruzione ma quello che manca veramente per ora è una piantagione grande abbastanza per attuare il suo piano. Qualche anno e il “ mio piano di dominazione del mondo del caffè”, così lo chiama Edward, sarà realtà. 
Arriviamo alla Finca Don Eduardo. Edward ci spiega che Don Eduardo è lui ma che Finca Edward gli sembrava stonasse troppo. 




Per tutto il tempo ci seguono due dei suoi tanti cani: l’immancabile Lulù, che Edward ci spiega essere sempre indaffarata a scortare i turisti in giro per Salento e che è amichevole e servizievole con tutti gli stranieri e scontrosa con tutti i colombiani ( come faccia un cane a capire la differenza tra un colombiano e uno straniero è un mistero, ma ci dicono che Lulù non sbaglia MAI ) , e un’enorme Terranova adolescente di nome Stanley, perennemente vivace ,in fase di ribellione , con un debole per le banane che crescono nella Finca e un’ossessione/ incipiente problema con… la birra. 


La Finca Don Eduardo ha quasi 100 anni e Edward dice che lui è solo il suo “ custode più recente” . La comprò circa 10 anni fa da un’anziana signora che aveva cominciato a farci crescere un po’ di tutto. 
Edward ci spiega che a inizio 2000 una grande crisi colpì il mondo del caffè internazionale: l’entrata del Vietnam nel mondo dei produttori. 

Nel giro di pochissimi anni infatti il paese del sud est asiatico è passato da produrre ben poco caffè ad essere, come abbiamo visto, il secondo produttore mondiale. Esso entrò nel mercato repentinamente e con prezzi così bassi da mandare in crisi tutti gli altri produttori. Per mettere le cose in prospettiva Edward ci racconta che tipicamente un chilo di caffè viene venduto da un produttore colombiano a circa 2€. Se , diciamo, il raccolto va male e ne guadagna solo 1€ , il produttore non guadagna più anzi ci perde soldi. Durante la crisi vietnamita il caffè colombiano vendeva a 20 centesimi, immaginatevi il disastro. 
Questo portò molti produttori, inclusa la signora a cui apparteneva Finca Don Eduardo, a piantare altri prodotti, ed è così che entrando nelle piantagioni vediamo di tutto, da banane, platani, avocado, arance, ananas e perfino un piccolo gruppetto di piante da thè. 

Vi siete mai chiesti come nasce un’ananas? Ecco.


Dopo una breve visita della piccola Finca e un’assaggio delle buonissime banane e ananas prodotte in loco, Edward ci spiega per filo e per segno tutti gli stage della produzione del caffè mentre Stanley si assopisce pesantissimo sul mio piede. 
Le piantine bebè del caffè crescono in una zona riparata dove si fanno forti prima di venire trapiantate nella piantagione. 




Le bacche di caffè vengono raccolte durante la stagione delle piogge ( ottobre è una di queste) e si possono cogliere solo… sotto la pioggia. 



Esistono contenitori specifici utilizzati per raccogliere le bacche che hanno dei buchini sul fondo in modo da far scorrere fuori l’acqua. 


A seconda della varietà la bacca da caffè, quando matura, è rossa o in alcuni rari casi gialla. Il frutto attorno non è buono da mangiare e viene utilizzato come fertilizzante. 

Si procede a schiacciar fuori il seme che contiene, che spesso è diviso in due chicchi o più raramente è un chicco unico, molto pregiato e costoso , o tre chicchi, uno dei caffè di bassa qualità destinato al mercato locale. 

Chicchi grossi che valgono più soldi
Chicchi normali

Esiste una macchina inventata a metà ‘800 che funziona ancora alla stessa maniera che effettua la separazione. 


Il chicco ottenuto è avvolto da una specie di muco, una sostanza zuccherosa. Si procede quindi ad immergere i chicchi nell’acqua, immediatamente i chicchi di buona qualità affondano e quelli di cattiva qualità , destinati al mercato interno, stanno a galla. 

Chicchi di qualità che affondano

Il muco piano piano si stacca e si unisce all’acqua, “ sporcandola”. Questo liquido delle volte viene fatto fermentare separatamente e si crea un “ vino di caffè” che ci viene spiegato essere molto buono e che ricorda vagamente il Bayleys. 
Vino di caffè o no l’acqua va cambiata per almeno una decina di volte finché rimane pulita e incontaminata: vuoldire che il muco zuccherino è stato lavato tutto via. È importante non lasciare residui di zucchero sul chicco perché a torrefazione avvenuta sarebbe un elemento che contribuirebbe a una brutta amarezza che ormai non si può più eliminare. 
Col chicco ben lavato si passa alla seccatura, che avviene nei forni o sotto il sole. 



Il metodo del forno viene usato poco: i forni costano e si rischia di cominciare a tostare i chicchi, cominciando una torrefazione involontaria che li rovinerebbe. 

Qui attorno tutti i produttori seccano il proprio caffè al sole, il che è una sfida mica da poco. 

Vi ricordate come si diceva che il caffè si coglie solo durante la stagione delle pioggia? Ecco, e quanto sole pensate ci sia durante la stagione delle piogge? Ben poco, così i coltivatori approfittano del poco sole che spunta fuori e cercano di seccarlo tutto il più in fretta possibile.
Per velocizzare il processo è comune stendere i chicchi sull’asfalto, che mantiene bene il calore: è molto usuale incontrare fincas produttrici sul ciglio della strada, e durante i giorni di sole della stagione delle piogge il caffè ha la precedenza sulle auto. Edward ci racconta che a Novembre in questa zona le strade asfaltate vengono completamente ricoperte di chicchi di caffè e che qualche anno fa in mancanza di spazio si è ricoperto l’atrio della scuola locale, per un po’ di tempo i bambini di Salento non hanno potuto giocare fuori durante la ricreazione!
Seccati i chicchi è ora di eliminare quelli di bassa qualità, quelli che originariamente sono affondati nell’acqua ma che ora da secchi rivelano le loro imperfezioni. 
A questo stage vengono venduti alle cooperative locali, che si incaricheranno poi di venderli alle compagnie di torrefazione mondiali. I chicchi passano rigorosi controlli di qualità e una parte di essi vengono eliminati, andando a rimpinguare il mercato locale. 
Si procede quindi a liberarli dalla prima pellicina che li protegge, dopo questo passo se si piantasse il chicco che rimane non risulterebbe in un bel niente invece se si pianta il chicco con la pellicina è molto facile che prenda e dia i natali a una pianticella. 

Liberato dalla pellicina, il chicco è verde. 

Chicchi verdi pronti per la torrefazione

Purtroppo ci sono ben 14 difetti del chicco che sono visibili solo una volta tolta la pellicina, quindi il sacchetto del vostro caffè prodotto con tanto amore si sta alleggerendo sempre di più. 
Per individuare i difetti in tutti gli stadi esiste solo una tecnica: quella degli occhi attenti e la manina che li scarta. È un lavoro manuale e estenuante svolto da molti locali a una paga irrisoria. 
Alla fine di tutto il processo il vostro sacco di, diciamo, 20 chili di chicchi coltivati con amore e sacrifici si sarà dimezzato se non di più. Verrete pagati a seconda del prezzo internazionale deciso per l’Arabica e non guadagnerete mai barche di soldi perché il caffè generalmente non vende per molto denaro, e si spera che il raccolto vi sia andato bene e che abbiate prodotto abbastanza chicchi di qualità. 
Pensate a tutto questo processo lungo e laborioso la prossima volta che comprate del caffè, qualsiasi prezzo abbia.


Finita l’interessante spiegazione e rimosso Stanley il Terranova dal mio piede ci immergiamo nella parte pratica del mini corso: una prova d’assaggio. 




Proviamo due varietà, un Bourbon ( popolare varietà ibrida) e una Colombia ( varietà tradizionale) rispettivamente in tre torrefazioni diverse: leggera, media e scura. Veniamo incoraggiati ad assaggiare con un cucchiaio e a fare le nostre comparazioni tra torrefazioni e varietà e appuriamo che in versione leggera le due varietà sono diversissime, delicate e più acide, in versione media sono più bilanciate e in versione scura sono quasi uguali, amare e piatte. Ci viene chiesto quale preferiamo e perché, e deciso quale interessa a tutti ci viene presentato Julio, un colombiano che lavora nella torrefazione da ormai 10 anni. 


Julio ci mostra tutto il processo della torrefazione fai-da-te con il semplice ausilio di un grande wok, un mestolo di legno e 250 gr di caffè. Ci spiega che ormai lui fa tutto ad occhio, ma che le prime volte si è letteralmente schiavi dell’orologio! 




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​Dopo dieci minuti sul fuoco vivo il caffè comincia a diventare scuro e passati circa dodici minuti fa lo stesso suono del popcorn che cucina. In questa fase l’ultima pellicina del caffè si stacca dal chicco e verrà successivamente eliminata. 

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​Raggiungere la torrefazione desiderata è una vera arte. Tolto dal fuoco, il caffè ovviamente continua a cuocere: sta a noi toglierlo dal fuoco al momento giusto e terminare la cottura mentre si raffredda. 

Bravo Julio!


Mezzo minuto in più o in meno può fare una differenza abissale. 

Torrefazione a 14 minuti e mezzo e 15 minuti. Mezzo minuto e la differenza si vede ad occhio

Cuocere il caffè per troppo tempo, diciamo per più di 25 minuti, lo brucerà e lo farà risultare eccessivamente amaro e povero in caffeina .
Riduciamo il “ nostro” caffè in polvere e finalmente ci possiamo gustare un delizioso caffè che più chilometro zero di così si muore. 

“ Le montagne della Colombia”, come ci dice Julio

Messa a lavorare


Mentre sorseggiamo e chiacchieriamo veniamo disturbati da un enorme tacchino che vuole la nostra attenzione. 

Julio ci spiega che a lui piace quando i turisti gli fanno le foto e che si offende un po’ quando non gli si dà retta , che passa grandi porzioni della giornata davanti a uno specchio e che gli piace osservarsi in tutta la sua… bellezza? Julio ci racconta che sa che il tacchino è cosciente del fatto che il bellimbusto riflesso sia proprio lui perché all’inizio “ beccava” lo specchio, come fosse un nemico, invece ora si limita a fissarsi, probabilmente compiaciuto di ciò che vede. 

Hola gringos

Finiamo la visita con una camminata per la piantagione da dove si gode una vista spettacolare. Ovviamente veniamo scortati dalla fedele Lulù che ha sempre na paura matta che ci perdiamo come fessi. 





Passiamo attraverso un bosco di bambù, la seconda volta che ne vedo una così.
 La prima volta è stato poco tempo fa in Vietnam, non avevo mai visto bambù così alto e così fitto. La caratteristica del bambù è che è un materiale da costruzione fortissimo e che cresce circa 20 centrimetri… al giorno! Come in Vietnam provo a farci delle foto ma per la seconda volta è impossibile trovare un’angolazione che gli faccia davvero giustizia: giungo alla conclusione che un bosco di bambù è impossibile da fotografare ma una vista che lascia davvero a bocca aperta. 

La bellezza nonostante la pioggia

La sera ci ritroviamo verso le sei per un’attività extra proposta da Eduardo: imparare a torrefare!
L’idea è che le cose sembrano difficili finché non ci provi. 
Prendiamo circa 100 grammi di caffè “crudo”, ancora verde, e gli unici oggetti che usiamo sono una normalissima padella, un mestolo di legno, una bilancia, un termometro per capire la temperatura della padella e un vassoio di legno per raffreddare il caffè torrefatto ma in realtà potrebbe essere un recipiente di qualsiasi materiale. 

Scaldiamo la pentola per bene pentola e ci versiamo tutti i chicchi. Niente olio, niente acqua, solo i chicchi. 


Continuiamo a mescolare col mestolo senza mai fermarci, il rischio è che i chicchi si cucinino solo da una parte e non dall’altra. Dopo circa 10 minuti i chicchi più piccoli cominciano a scoppiettare stile popcorn, e presto tutti i chicchi cominciano a scurirsi e scoppiettare. 

Quando decidiamo di togliere i chicchi, già da qualche minuto mi sembra di stare a bruciare tutto. Quando versiamo il caffè a raffreddare in realtà mi sembra scurissimo, ma qualche minuto dopo il colore diventa più chiaro. Qualche chicco è bruciacchiato ma è normale e non c’è problema. 

Edward dice che non c’è rischio di rovinare niente: lo si cuoce troppo poco e si avrà un caffè molto leggero, lo si cuoce troppo e al massimo si ottiene un caffè più forte e amaro e con un po’ di latte e zucchero si può ancora bere. L’importante è ricordare che la torrefazione continua anche tolto dalla fiamma, il calore continua a cucinare e bisogna tenerlo da conto. Gradualmente con l’esperienza di capisce quando fermarsi e quando continuare, e come torrefare secondo il proprio gusto. 
Ognuno di noi tosta il proprio caffè e Edward ce lo impacchetta sottovuoto e applica un’etichetta per ricordarci le caratteristiche del caffè. 



Cerco sempre di comprare poche cose per non doverle scorrazzare per il mondo per tre mesi, ma queste sono le cose per cui faccio felicemente un’eccezione. 
Pregusto il momento in cui a casa, in Norvegia, aprirò uno dei miei pacchetti e assaporerò il MIO caffè , tostato da me! 

Placida domenica nel villaggio Paisa 

Il bus da Bogotá ad Armenia è previsto per le 9:15.
Mi presento in stazione alle 8:45, con la paura di essere in ritardo. 
L’imbarco comincia alle 9:20, e il bus parte alle 9:45. Diciamo che la prossima volta che prendo un bus vedrò di ricordarmi che sono in America Latina e non in Svizzera e magari arrivo in stazione alle 9.
Ci mettiamo circa un’ora a lasciare Bogotá, sia a causa del traffico che per le dimensioni di questa città che fa 10 milioni di abitanti. 
Fuori dalla città comincia la regione della Cundinamarca e nel giro di poco ci arrampichiamo sulle montagne, di nuovo le Ande ma stavolta tutte verdi e con l’accento colombiano. 

Attraversiamo belle valli lussureggianti con piante di banano e valichiamo i monti fino ad arrivare ad altitudine 3200m immersi nelle nuvole. Passiamo la regione della Tolima e finalmente il pomeriggio entriamo nella regione del Quindio, la nostra meta .



Mica scemo

Il bus arriva alle 5 ad Armenia, una cittadina del Quindio in cui faccio solo scalo. Uscendo dall’autobus mi dirigo verso il terminal, io e il mio zainotto di 12 chili sulle spalle, e mi preoccupo un po’. Spero di trovare la coincidenza per Salento, fino ad ora non mi ero ancora trovata in una stazione degli autobus in una situazione del genere. 
Dentro al terminal non solo nessuno mi fa caso, ma trovo anche la coincidenza senza alcun problema. Chiedo qualche indicazione e tutte le persone a cui parlo si prodigano per darmi le indicazioni più esaustive. 
Salgo a bordo del minibus per Salento e sono fiera di me stessa. Lo so, al viaggiatore navigato parrà un niente ma io sono contenta di me stessa, qui a gestirmi tra i bus in Colombia senza problemi. 


Cala la notte mentre il minibus sfreccia alla velocità della luce. Ormai mi sento una formica culona e non vedo l’ora di arrivare. 
Il minibus ci molla in un punto non ben definito del piccolo paesino di Salento: sfodero il mio cellulare e con l’aiuto di Google maps trovo il mio ostello. 
Da mesi ormai pregusto il paesino di Salento , la valle del Cocora e le piantagioni di caffè tutt’attorno. Sono forse questi luoghi che mi hanno incuriosito a primo acchito e forse la prima cosa che mi ha fatto valutare di includere la Colombia nel mio itinerario, quindi ho alte aspettative e un pizzico di paura di venir delusa dopo tanto sognare. 
Dopo pochi minuti dal mio check-in mi rendo conto di essere arrivata in paradiso. 
Innanzitutto più che un ostello questa è più una pensione, ma la parte più bella è che questa pensione è una vera Finca, una casa di campagna tradizionale. Così come la ho sempre sognata, ha un bellissimo portico in cui ci si può sedere e riempirsi gli occhi della vegetazione verde e lussureggiante tutt’attorno. L’unico rumore è quello di una vera e propria convention di grilli e qualche uccello sconosciuto. Non solo ho raggiunto le alte aspettative che avevo: le ho superate. 
Il mio dormitorio da 4 letti è vuoto e mi viene concesso il raro lusso del viaggiatore che paga il prezzo di un dormitorio ma di fatto ha la stanza solo per se. La grande porta di legno dipinta di verde bottiglia e giallo si apre direttamente sul patio, dove sulla destra sta una poltroncina con un cagnolino intento a schiacciare un pisolino.


 Mentre sistemo le mie cose viene a farmi visita un grosso gatto bianco che comincia ad annusare il pavimento e a studiare il piano della stanza, ho il sospetto che non gli venga permesso regolarmente di entrare nelle stanze ma a me fa piacere averlo attorno e faccio finta di niente. 


Al mio ritorno dal bagno condiviso scopro che il gatto intanto si è comodamente appallottolato sul letto davanti al mio, ancora una volta faccio finta di niente e mi gusto la compagnia di un bel gatto dopo tanto tempo. 

Gli dai un dito e si prende il braccio

Prima di dormire lo sveglio e lo faccio accomodare fuori, non penso proprio gli venga permesso di dormire nei dormitori la notte. Lui mi guarda mezzo assonnato e mezzo infastidito, lo prendo in braccio, pesa come una balena ed è sofficissimo. 
Esco per comprare la colazione per domani al supermercato , la cagnolina che sonnecchia sul divanetto si sveglia e mi segue. Lulù, così ho sentito la chiamano, provvede a scortarmi sino alla piazza principale, senza mai perdermi d’occhio. Le dico Lulù stai tranquilla che ho la mappa e Google Maps, mi gestisco da sola. Lei mi guarda scettica, ormai di gringos che dicono che sanno come gestirsi e poi si perdono ne incontra ogni giorno, tutti cosi sono, mi lascia parlare ma continua a farmi da guida. 


Arrivata a destinazione mi sgancia e scompare, impegnata in qualche altra faccenda. 
La notte dormo come una bambina, cullata dal suono dei grilli, e mi sveglio verso le nove. 
Apro la porta che da sul portico e la mattina, con la luce del sole, è ancora più bello della sera prima. 





Faccio colazione con i cereali che ho comprato ieri sedendomi nel portico della casetta adiacente alla Finca e adibita a cucina e salotto comune e penso che non voglio più andarmene da qui. Magari potrei coltivare del caffè. Io e Jørgen, potremmo chiamarlo El Café Viquingo, nella nostra Finca colorata e piena di gatti bianchi….

Casa in vendita. Poi eliminiamo la strada, ci piantiamo delle palme. Finca El Viquingo?

Finisco di sognare e mi attivo per la giornata. Vorrei andare nella valle del Cocora ma da quel che capisco ci vogliono più ore di quelle che avevo previsto per visitare tutta la zona, e mi sono alzata un po’ tardi per riuscire a fare tutto, quindi presto abbandono l’idea. Decido invece di passare una domenica placida esplorando la cittadina di Salento. 
Sto per uscire dalla Finca quando incrocio lo sguardo di Lulù che si è appena svegliata e ha lo sguardo tutto stropicciato. La saluto e la ringrazio per ieri. Lei fa per alzarsi, io le dico No Lulù non ti preoccupare, stavolta mi oriento da sola, grazie. Lulù mi guarda un po’ interdetta ma non obietta. 


Ho già imboccato la stradina per il centro quando improvvisamente mi trovo a fianco proprio Lulù, che mi guarda come dire “ Scherzavo. Ti pare se mi fido di te” .


Arriviamo in centro e, come ieri, consegnata la gringa in centro Lulù si volatizza. 
Nonostante le previsioni che fanno pioggia tutto il giorno, questa mattina brilla il sole. Imbocco la via principale di Salento che oggi pullula di visitatori. 



Noto con enorme piacere che il paesino è turistico ma ci sono pochissimi stranieri in vista, la maggior parte del turismo è locale. Il risultato di ciò è che nessuno sembra farmi caso, nessuno mi tratta da gringa e non mi sento per niente al centro dell’attenzione. Ci ho messo sette settimane ma finalmente sono parte del gruppo di persone che mi circonda, e mi sento benissimo. 


Nonostante Salento sia parte di qualsiasi percorso turistico in Colombia è chiaro che il vero turismo di massa internazionale non è ancora arrivato, di conseguenza non sembrano esistere ne le trappole turistiche ne i menù turistici nei ristoranti. Pure i souvenir sono ancora per la maggior parte negli oggetti di artigianato e non robacce Made in China. 

Mochila, la borsa tradizionale in Colombia. Vedo che molte persone le usano abitualmente, non sono solo souvenir



Nella piazza si concentrano molti carretti in cui è possibile comprare ogni tipo di leccornia. Ci sono molti succhi e limonate e bella frutta fresca già tagliata e servita in bicchieri di plastica. Non resisto e prendo una limonata al cocco, che vedo preparare coi lime locali, ghiaccio ( quello sicuro), cocco, latte e zucchero e frullato tutto assieme, una delizia. Mi riprometto anche di provare prossimamente uno dei bicchieri di plastica contenenti del mango tagliato a striscioline e che vedo viene servito con una generosa spruzzata di succo di mandarino. 




Passeggio per le vie di Salento e incrocio molti “ cowboy” , i veri Paisa. 




Il termine Paisa in Colombia denota molte cose. Innanzitutto un territorio, la Regione Paisa che si estende tra valli e monti in questa zona centrale del paese in cui città più grande è Medellín. Paisa però è più un’entita culturale più che geografica, e denota le persone che vengono da queste aree montagnose, molti di loro di origine mista ( europei, Indios e africani) ma con una forte componente europea, gente in origine agricoltori o minatori, gente di campagna con tante montagne e piantagioni attorno. Paisa è anche un’accento specifico: chi viene da queste zone ha una parlata molto differente dal resto dei colombiani, pronuncia fortemente le S , adotta un tono diverso, è leggermente più formale nella maniera di esprimersi e per rivolgersi a qualcuno usa la forma castigliana arcaica Vos invece del classico Usted usato dal resto dell’America Latina e usa parole e espressioni locali. 

In Colombia non c’è persona che non vi dica che i Paisa sono le persone più affabili, più calorose e più cortesi di tutto il paese e che gli si scalda un po’ il cuore quando parla della Tierra Paisa. 
I “ cowboy” che vedo altro non sono che uomini che adottano ancora elementi di vestiario tipici di questa zona e che ora propongono giri in cavallo ai turisti. 















La natura circostante


Mentre passeggio mi trovo davanti perfino un indigeno vestito di tutto punto, non ho ben capito cosa ci faccia vestito in maniera tradizionale, ossia se è così che si veste normalmente o se oggi è semplicemente vestito in maniera più tradizionale, ma mi fa pensare alla varietà etnica che già da qualche giorno ho notato in questo paese. Il colombiano medio non esiste, si va dal biondo con la pelle chiara ai discendenti degli schiavi africani agli indigeni che abitano queste zone da ben prima che arrivassero gli spagnoli, e ovviamente la stragrande maggioranza dei colombiani è un misto tra due o tutti questi gruppi. Si dice che la diversità etnica colombiana è seconda solo alla nota diversità che si trova in Brasile. 


È ora di pranzo ed è anche ora di provare il piatto tipico della Regione Paisa e uno dei più famosi della Colombia, la Bandeja Paisa, un piatto che dir sostanzioso è dire poco. C’è di tutto: fagioli, carne di maiale, chorizo, riso, uova e dell’avocado tanto per dar una parvenza di salutare. Di Bandejas piccole non ne esistono, o ti arriva un vassoio di roba o non è Bandeja Paisa. La accompagno a una fresca limonata, che la mia guida turistica suggerisce per cercare di alleggerire il carico. Ovviamente non la finisco tutta, ma sono contenta di averla finalmente provata! 

Bandeja Paisa. 3000 calorie a piatto?

La Bandeja mi lascia chiaramente appesantita e mi chiedo fra quanti giorni riuscirò a digerire. Mi trascino verso un bellissimo bar che serve caffè locale che più locale non si può e bevo un buon caffè. 



Dopo un altro giretto per il centro comincia a piovere e finisco per rotolare verso casa, il mio corpo ha deciso di concentrare tutte le sue energie nella digestione della Bandeja e non ho voglia di fare altro, solo di tornare a casa e godermi il “ mio” bellissimo portico seduta mentre fuori piove mentre rileggo Cento Anni di Solitudine di Gabriel GarcÍa Márquez Márquez, una copia in spagnolo che ho trovato abbandonata nell’ostello a Bogotá. 


Lulù torna dalle sue commissioni in centro. Entra nel portico e improvvisamente mi vede. Senza che la chiami mi corre incontro, probabilmente per controllare se quell’impedita della gringa della stanza n.2 è ancora tutta d’un pezzo. 


Rivedo anche il gatto bianco, provo a coccolarlo ma appena mi annusa la mano e mi riconosce sgrana gli occhi e si allontana dalla mia mano manco fosse peste bubbonica. Chiaramente non si è scordato di ieri ed è ancora offeso a morte. 
Sono un pozzo senza fondo e verso le otto ho un certo languorino. Mi dirigo verso food trucks che ho visto ieri mentre andavo al supermercato, una collezione di furgoncino adibiti a cucine che servono i cibi più disparati. Mi fermo da un food truck che prepara arepas venezuelane. 
Vi ricordate che si diceva che gira voce, perfino in Colombia ma a un volume bassissimo , che le arepas venezuelane sono meglio di quelle colombiane? Bene, è ora di scoprirlo. 
Innanzitutto, per ricordare cosa sono le arepas. Nelle loro versioni venezuelane e colombiane di base sono dischi di un impasto a base di farina mais che viene grigliato su una piastra. Esse possono essere ripiene di formaggio nell’impasto o possono venir riempite di quel che più vi piace, e sono forse lo snack più emblematico sia della Colombia che del Venezuela. 



Non so che arepa prendere quindi prendo un mix di sei mini arepas con vari ripieni, una più buona dell’altra e servite con un guacamole che è la fine del mondo. Faccio i miei complimenti alle cuoche venezuelane e loro si emozionano tutte. Chiacchieriamo un po’ di cibo e di cucine, e mi chiedono se possono farmi una foto sul furgoncino da mettere su Instagram e che volete che ci faccia, mi presto nonostante sia struccata e l’umidità di Salento stia facendo venire l’esaurimento ai miei capelli. 
Finisce così la mia prima giornata a Salento, innamorata perdutamente del posto e sempre più perplessa del fatto che non ci siano più turisti internazionali in questo paese sempre più affascinante. 

Pasteggiando per le calles di Bogotá

È ora di darsi una mossa, non posso rimanere a Bogotá per sempre. 
La mattina mi attivo armata di guida e internet per capire la mia prossima meta. Consulto l’app per il meteo e vedo che ovunque voglio andare si prevede pioggia. Peccato, ma d’altronde è colpa mia: ottobre è un mese abbastanza uggioso in Colombia, e non ci posso fare molto. 

Sono ancora indecisa dove dirigermi esattamente e cosa fare, penso alle mie vacanze passate sempre pianificate nel dettaglio e a questa, in cui ormai decido il da farsi giorno dopo giorno. 
Stabilisco la meta. 
Salento. 
No, non me ne vado in Puglia. 
Esiste una Salento anche qui in Colombia. Subito passato Armenia. 
No, non il paese nel Caucaso. 
Esiste una Armenia pure in Colombia. 
Salento è un piccolo paese pittoresco nel cuore della cosiddetta Zona Cafetera, una delle zone più famose della Colombia per la produzione e la lavorazione del caffè. Ho intenzione di aggirarmi tra le piantagioni di caffè e bere tanto ma tanto prodotto ultimato. 

Spero solo il tempo sia clemente, ma vedremo. 
Comincio la mattinata di oggi prendendo un Uber verso il mercato centrale di Bogotá, il mercato Paloquemao, che si trova fuori dalla Candelaria. Leggo sulla guida che è un mercato interessante, ma non capisco quanto sia frequentato dai turisti. 


Al mio arrivo entro subito nella sezione della frutta. Una meravigliosa varietà di frutta colorata e ben ordinata mi accoglie, un piacere per gli occhi. Mi aggiro per le vie contorte del mercato in cui si trova tutto quello che si possa desiderare, tutto fresco e ben disposto. 

Favoloso avocado maturi in primo piano

Però solo l’unica gringa in vista. 
” Ai que linda”

” Hola hermosa”
Nel giro di cinque minuti conquisto i corazones di almeno quattro muchachos , quasi uno per minuto. 

Provvedo a legarmi i capelli in maniera sbilenca, mettermi addosso la giacca larga e ad adottare una camminata da maschiaccio, sperando di attirare un po’ meno sguardi.
E mentirei se dicessi che ho corso qualche pericolo, però non mi sono sentita troppo mimetizzata tra la folla. Rispetto al Perù, dove la mia identità di straniera era palese a chiunque, qui in Colombia non è poi scontatissimo che non possa essere una locale. Magari posso essere una colombiana affluente, ma non è assicurato che non possa essere colombiana. 
Ciononostante non mi sento troppo a mio agio, chiamatelo sesto senso o eccessiva prevenzione ma dopo un buon succo fresco decido di chiamare un altro Uber e andarmene verso la stazione degli autobus. 


Quello che mi piace di Uber, oltre alla sicurezza del servizio, è che mi permette di entrare in contatto con i colombiani. Jair non mi chiede nemmeno da dove vengo, parte ad elencarmi tutti i bei posti da visitare nel suo paese, cosa mangiare e dove. Io ascolto e prendo nota che si sa mai. 
Arrivo alla stazione degli autobus, relativamente moderna e grande. Sono venuta qua perché stranamente online il biglietto non si può comprare senza un passaporto colombiano, e in fondo non mi dispiace vedere come funziona la stazione. 
Compro il biglietto per domani e studio un po’ la pianta della stazione prima di chiamare un altro Uber per tornare in centro. 

Questa volta mi raccoglie Blanca, la mia prima autista donna, e per una buona mezz’ora parliamo di vita, viaggi, lingue e hombres. Blanca ha una figlia di 27 anni e, come tanti sudamericani durante questo viaggio, mi chiede sempre se la mia famiglia appoggia la mia scelta di viaggiare, e cosa dicono mia mamma e il mio ragazzo di questo mio lungo viaggio ( Mi dispiace papà, ma sembrano tutti interessati a capire cosa pensa soprattutto LA MAMÁ. Te per qualche ragione passi in secondo piano). 

Blanca ha una figlia che recentemente si è trasferita a Cartagena e mi dice che Ai Dios Mio l’ha vissuto quasi come un lutto, si chiede come fa mia madre a sopravvivere a questi tre mesi senza di me. 

Glisso sul fatto che la mia mamá ormai è abituata a non vedermi regolarmente da ormai sei anni. 

A fine corsa manca poco che mi abbracci e ci tiene che le dia il mio numero e che ci sentiamo su WhatsApp. Io prendo il suo numero, detto tra noi non so bene che farmene ma il suo calore mi fa piacere. 

Tornata in centro aspetto l’inizio di un tour gratuito dedicato al cibo. 
Passo davanti a una piazza che è sempre ricolma di uomini di tutte le età, solo uomini. Durante il tour gratuito di qualche giorno fa ci viene spiegato che in questa piazza è possibile comprare uno dei prodotti per cui la Colombia è più famosa: gli smeraldi.


Non lo sapevo ma di smeraldi nel mondo se ne trovano solo in determinate zone, veramente pochi paesi. La Colombia è il maggior produttore di smeraldi al mondo, e a Bogotá esistono innumerevoli negozi che vendono gioielli fatti di veri smeraldi. 

In questa piazza gli smeraldi venduti sono un po’ a rischio: non essendo venduti coi relativi certificati di autenticità, è possibile comprare smeraldi falsi ma pagarli come fossero veri. La guida ci sconsiglia di comprare smeraldi nella piazza ma se non fosse per lei che ci spiega cosa ci fanno tutti questi uomini fermi impalati in mezzo alla strada in apparente attesa, l’avrei trovato molto strano. 
Mentre aspetto noto dei venditori di snack per strada: vendono…. 

Formiche culone.

 Ecco scusate ma la traduzione è questa. Formiche tostate dotate di un posteriore… prominente. 


Il nome è tutto un programma, e un giorno mi riprometto di provarle e di raccontarvi di cosa sanno. 
Pian piano ci riuniamo tutti e comincia il tour. Alla fine mi sento sempre più a mio agio nel muovermi con la protezione di un gruppo. 
Cominciamo con una empanada. Di empanadas , anche se preparate in maniere diverse se ne trovano in tutta l’America Latina e di fatto consiste sempre in un qualche tipo di pane ( o in questo caso colombiano un impasto a base di mais) e vengono riempite con ogni sorta di ripieno, spesso carne e/o verdure o formaggio. Proviamo una mini empanada, tutto il cibo del tour sarà in versione mini per non riempirci subito. 


Segue un assaggio di Ajiaco Santafereño, la zuppa che ho mangiato ieri e una Oblea, una specie di wafer rotondo che si può riempire a scelta con dulce de Leche, marmellata di more, crema al latte o formaggio. 


Ma non ci fermiamo in uno stand qualunque. Ci fermiamo nello stand che sostiene di essere stato LO stand scelto da Mick Jagger l’anno scorso quando, finito il concerto con i Rolling Stones, se ne andò a spasso per la Candelaria per conto suo e si fermò a mangiare proprio una Oblea. 


La guida ci spiega che l’evento fece notizia persino sui giornali e che al giorno d’oggi molti stand dichiarano di essere LO stand e non c’è modo di sapere quale sia l’originale. Optiamo tutti per credere alla señora che ci troviamo davanti tanto davvero, per noi non cambia niente. 

Già che siamo in vena di crederci, approfitto per chiedere alla señora che ripieno ha preso Mick. 

” Todos!” Sostiene lei, una bella Oblea con tutto. Pazzerello Mick. 

Io mi limito al ripieno che la guida dice essere il classico combo, dulce de Leche e marmellata di more. Il dolcetto si rivela semplice ma buono, un po’ difficile da gestire logisticamente. Salutiamo la señora e le dico che non si sa mai, magari la prossima volta torniamo che siamo famosi anche noi e poi mette la nostra foto a fianco di Mick, lei si fa una risata e promette di farlo. 
Continuiamo con uno degli snack più tipici e insoliti della Colombia. La cioccolata calda. 

Fino a qua niente di strano, no? Però in Colombia si serve col formaggio. 
Si, formaggio. Simile al Bel Paese. 

Si spezzetta tutto e si immerge nella cioccolata, aspettando che si fonda a contatto col calore. 
La guida dice che tra di noi turisti c’è chi lo ama e chi lo odia, ma che è un combo molto popolare tra i colombiani. 
Mentre spezzetto il formaggio nel cioccolato mi sento un po’ sovversiva. Mi sembra di essere tornata bambina e di sentire mia madre che mi sgrida perché non devo giocare col cibo.

Ma mamma, cosi si fa a Bogotá! 
Alla fine se ci si libera dell’idea iniziale, pensateci: il formaggio è un derivato del latte, e il latte si abbina al cioccolato. 

Il risultato dello strano mix non è niente male. Il formaggio non è troppo intenso e devo dire che va molto bene col cioccolato. Bisogna provarlo per crederlo! 
Mentre camminiamo da una meta culinaria all’altra parliamo tra di noi visitatori. Faccio amicizia con un ragazzo israeliano ( Ma quanti israeliani viaggiano in Sudamerica!) e una donna australiana che vive a Lima, parliamo e scherziamo. 
Nel prossimo snack c’è un piccolo zampino italiano. 

Sembra ci fosse un italiano trasferitosi da poco nella città colombiana di Cali che decise di aprire una panetteria. Al tempo i panettieri per invitare potenziali clienti a comprare gridavano le proprie mercanzie ( un’usanza ancora decisamente in voga tra i venditori ambulanti latini) , e i panettieri in modo particolare solevano annunciare il loro ” Pan de Bueno” , un buon pane. 

L’italiano non parlava bene lo spagnolo, e gridava sempre Pan de Bono. 

Il suo prodotto finì per venir molto apprezzato dagli abitanti di Cali, che finirono per chiamarlo appunto Pandebono. 

Esso viene tipicamente servito con una bevanda dolcificata a base di avena, ed è proprio così che lo assaggiamo.

Mi ricorda moltissimo il mio amato pão de queijo brasiliano, un’ossessione culinaria che ho sin dai tempi di Lisbona. Di fatto non viene preparato in maniera troppo diversa, contenendo nell’impasto formaggio e farina di cassava , anche se il Pandebono si fa con la farina di cassava e anche quella di mais. Mi riprometto di mangiare Pandebono ogni volta che mi si pari davanti in queste settimane colombiane. 
Finiamo il tour col classico, lo snack più tipico di tutta la Colombia: l’arepa. 

Due paesi si contendono l’esclusività di essere la patria dell’arepa: la Colombia e il Venezuela. Detto tra di noi si vocifera che la versione venezuelana sia più buona, così, a bassa voce, che non ci senta nessun bogotano per carità. 

La verità è che l’arepa nasce in origine dalle comunità indigene situate in un territorio che al giorno d’oggi si divide tra Colombia e Venezuela, quindi non è sbagliato sostenere la doppia origine. 
Proviamo un arepa ripiena di formaggio e purtroppo, nonostante le alte aspettative, rimango un pochino delusa, e un tantino curiosa di questa versione venezuelana che magari proverò a cercare. Va detto che a causa della tragica situazione odierna in Venezuela, sia in Perù che qui in Colombia si incontrano molti venezuelani che vendono Arepas per strada. Come di consuetudine, li si sente arrivare da lontano al grido ” AREPAREPAREPAREPAS VENEZOLANAS AREPAREPAREPAS!” . 
Finiamo con un caffè colombiano in un bel bar che si specializza nella preparazione di qualità, e comincio a pregustare l’avventura dal sapore di caffè che mi aspetta domani. 


Mi rimane tutta la sera per studiare ulteriormente la guida e per preparare lo zaino, una pratica che sto pian piano perfezionando. 

El Dorado e figure extra-large 

Mi sveglio col rumore di un forte vento che sbatte finestre e porte, ma quando effettivamente esco dall’ostello non sembra poi esserci quel vento apocalittico che pensavo ci fosse. 
Già la seconda giornata in una città è più facile: ci si orienta meglio e si prende più confidenza. 


Teatro Colon

Mi dirigo pian piano verso la piazza principale della Candelaría, Plaza Bolivar, che ieri era completamente chiusa a causa di una conferenza e sorvegliata dalla polizia armata fino ai denti ma oggi è a libero accesso. 

Il parlamento

Cattedrale sulla destra e Palazzo della Giustizia sulla sinistra

C’è una grande cattedrale, il palazzo del parlamento e quello della giustizia. Non posso fare a meno di pensare alla serie televisiva di Netflix che parla dell’ascesa e del declino di Pablo Escobar e i cartel narcotrafficanti di Medellín e di Cali, Narcos, in cui tra le tante cose si parla dell’assedio che nel 1985 distrusse proprio questo palazzo di giustizia. 35 membri del gruppo di guerrilla di stampo marxista denominato M-19 entrarono a sorpresa nel palazzo di giustizia e presero la Corte Suprema colombiana in ostaggio. Il giorno dopo l’esercito colombiano reagì violentemente entrando con carri armati e armi automatiche uccidendo chiunque si parasse loro davanti, circa 100 persone. L’operazione fu definita da molti osservatori internazionali come un vero e proprio massacro indiscriminato, e occupa un capitolo nero della storia recente della Colombia. 

Assedio del palazzo di giustizia, 1985

Esistono teorie per le quali Pablo Escobar, prima dell’assedio, fosse entrato in contatto con l’M-19 per far sì che una volta dentro agli archivi del Palazzo di Giustizia bruciassero documenti che lo compromettevano, ma nonostante la serie TV supporti questa teoria di fatto non ci sono prove del contatto tra Escobar e M-19. 
Cammino ancora per un po’ lungo una lunga via pedonale e vedo tanti tipi di persone, da uomini di affari a barboni che dormono sdraiati in mezzo alla strada. 


Magnifiche collane tradizionali delle popolazioni indigene colombiane in vendita davanti al Museo dell’Oro

Poco più avanti giungo al museo più famoso di tutta Bogotá e forse di tutta la Colombia, il Museo dell’Oro. 
Fondato nel 1939 esso contiene la più grande collezione di oggetti in oro di tutto il mondo, tutti reperti storici e manufatti delle varie culture preispaniche colombiane. 

Il Museo di per se è un bel edificio contemporaneo e contiene molte informazioni interessanti.



Viene spiegato che la metallurgia in questa parte del mondo viene scoperta circa 4000 anni fa più a sud, in Perù, e pian piano arriva anche in Colombia. 

Come già avevo sentito parlare in Perù, per le civiltà preispaniche questi metalli erano di grande importanza ma mai per motivi economici. La loro capacità di brillare alla luce del sole e di emettere suoni se percossi aveva quasi del magico per queste popolazioni, e il loro uso era quindi limitato esclusivamente a ciò che di più importante avevano, le cerimonie religiose che li mettevano in contatto con i loro dei. 


In Colombia si lavorano vari tipi di metalli preziosi: rame, platino, un po’ di argento ma soprattutto l’oro. Essi inventarono anche delle leghe a base di oro e rame, che rendeva l’oro più rosato, e oro e platino, che rendeva lavorabile il platino che altrimenti sarebbe stato impossibile per loro da lavorare viste le altissime temperature richieste per fonderlo. 


Le civiltà indigene della Colombia elaborarono nel tempo tecniche sopraffine per la lavorazione dell’oro tanto che quando gli spagnoli videro i prodotti del loro lavoro ne rimasero incredibilmente affascinati. Ci viene spiegato che una delle tecniche più comuni per lavorare l’oro e trasformarlo in oggetti e decorazioni dai dettagli così minuziosi prevedeva l’uso di stampi di cera, tanto che in certi oggetti d’oro è ancora possibile distinguere lievi impronte digitali lasciate sugli stampi e quindi trasferiti sull’oro. 



È difficile non condividere il sentimento dei primi spagnoli che videro questi oggetti: noi visitatori del museo ci aggiriamo per le sale un po’ come gazze ladre, ammaliati dai luccichii di decorazioni dorate che sembrano state create qualche giorno fa e che in certi casi hanno almeno mille anni. 





Abbiamo un po’ tutti sentito parlare della leggenda di El Dorado, quella credenza che avevano molti conquistadores che da qualche parte in questo nuovo continente ci fosse una riserva d’oro oltre ogni limite immaginabile che li avrebbe fatti diventare ricchi sfondati e che, ovviamente, non venne mai trovato. Pochi però sanno che la leggenda che ha iniziato il mito dell’El Dorado ha origine poco fuori Bogotá, in un lago chiamato Guatavita. 

Credenze locali infatti raccontavano del re del popolo dei Muisca, gli abitanti originali della zona di Bogotá, osservava un rito d’iniziazione che prevedeva che lo si ricoprisse di polvere d’oro e che poi si immergesse nel lago Guatavita. La dea del lago provvedeva ad applicare un pizzico di magia e il re fuoriusciva il lago con tanto oro da non essersi mai visto prima sulla faccia della terra. 

Quando gli spagnoli sentirono queste voci nella lontana Mesoamerica non ebbero dubbi: era giunta l’ora di avventurarsi a sud. Nel tempo la leggenda si ingigantì fino ad assumere proporzioni abnormi: da un re dorato si passò a una città. Poi già non era più una città, era un’intero regno pieno di oro. Divenne perfino un’impero, pensate, un’impero PIENO d’oro! 



Gli spagnoli arrivarono al lago di Guatavita, in cui realmente si effettuavano cerimonie religiose Muisca che avevano a che vedere con l’oro, e si, trovarono parecchi oggetti d’oro sul fondo del lago, ma in tutta la loro avventura in Sudamerica non trovarono mai quelle quantità leggendarie di oro che la leggenda prometteva, non localizzarono mai il ” vero” El Dorado. E quante persone, spagnoli e soprattutto indigeni, morirono nella pizza ricerca di questo mito! 



Passo da sala a sala e i reperti d’oro diventano sempre più sofisticati e magnificenti. 






All’ultimo piano si passa per un’ala del Museo dedicata al lavoro archeologico, come si scava e come si determinano certe informazioni sugli oggetti ritrovati. 


Finita la guida quasi non ci credo che ho pagato meno di 2€ per l’entrata!! 
È ora di pranzo e mi dirigo verso la bettolina scoperta ieri. Con i prezzi accessibilissimi, l’ambiente pittoresco e la varietà di cibo colombiano e bogotano che offrono, ho intenzione di venirci ogni giorno per provare proprio tutto! 

Oggi entro e il locale è molto affollato. Dietro di me c’è un americano, anche lui solo, anche lui affamato. L’unico posto disponibile è a una mensola con due seggiole adibita a tavolo, ci sediamo tutti e due e cominciamo a chiacchierare. Parliamo del più e del meno, della Colombia, dei nostri paesi, e intanto a lui arriva il Tamal che ho mangiato ieri e a me arriva un Ajiaco Santafereño, uno dei piatti più tipici di Bogotá che consiste in una ricca zuppa a base di patate, cassava, pollo ridotto in sfilacetti, mais, latte, capperi e avocado. Avevo letto che i colombiani sono bravi a far zuppe e questo Ajiaco conferma le voci, la zuppa è sostanziosa e favolosa! 


Mentre io continuo a chiacchierare come è mio solito l’americano prende il mio conto e si offre di pagarmi il pranzo. Io provo a rifiutare ma non c’è verso, vuole ringraziarmi della chiacchierata. Mentre paga alla cassa i quattro camerieri presenti mi chiedono se stiamo insieme, se ci conosciamo, io dico di no, mai visto prima. All’unisono i quattro camerieri sbarrano gli occhi dalla sorpresa, ” Ai que geeeentleman! “, concordano tutti.
Il pomeriggio scorre tranquillo, continuo ad esplorare le vie della Candelaría, mi perdo nella fornitissima libreria del centro culturale dedicato a Gabriel García Márquez e ne approfitto per visitare il Museo Fernando Botero. 



Quando aprí nel 2000 questo Museo causò non poco scalpore nella città natale di Botero, Medellín. Ma come, dissero i medellinenses, apri un Museo con tutta la tua collezione personale e alcuni tra i tuoi quadri più importanti, e non la apri qui, a Medellín, la tua città natale? Sembra però che Botero fosse in contatto con una rinomata associazione culturale proprio a Bogotá, l’unica con cui fosse veramente in sintonia. 
Il Museo Botero rispetta i desideri dell’artista, il cui obiettivo era appunto di rendere disponibile a tutta la popolazione la sua collezione privata, fatta di quadri e sculture di artisti del calibro di Picasso, Dalí, Chagall, Miró, Monet e Matisse tra tanti altri, e 123 delle sue proprie opere, il tutto a costo zero. 


I quadri più interessanti ovviamente sono quelli dell’artista colombiano, un po’ perché è per questo che si entra. 



Fernando Botero nacque a Medellín nel 1932 ed è sia pittore che scultore. Il suo peculiare stile, denominato Boterismo, raffigura oggetti e persone in versione extra-large, che aiutano a passare il messaggio spesso politicizzato, cinico o umoristico tipico dell’artista. 











Oggi è andata così, mi sono buttata a capofitto nei musei che avevo voglia di vedere da molto tempo. 

La sera approfitto della cucina in ostello e mi preparo la cena, per qualche motivo in Perù avevo solo trovato ostelli senza cucina ed è bello ora riuscire a tornare a cucinare un po’ di cibo leggero. Mentre cucino in lontananza sento tante grida da fuori. La Colombia sta giocando con il Paraguay, partita di qualificazione per i mondiali, roba seria. Dalla foga delle voci intuisco che almeno un gol colombiano è assicurato. Devo dire che mi piacerebbe essere fuori, magari in un qualche bar e guardare la partita con dei colombiani, per sentire l’energia tutta attorno, ma devo ammettere che quando cala la sera non mi sento troppo a mio agio girare per le stradine della Candelaría. Purtroppo questi sono i piccoli compromessi che si fanno quando si viaggia da sole, o quando si viaggia in luoghi in cui magari se esci non succede niente, ma non è neanche sicurissimo che non possa succedere qualcosa. 
Ma va bene così, vuoldire che stasera mi godrò la copia di Cent’anni di solitudine in spagnolo che ho trovato abbandonata in ostello! 

Bogotá tra un Tamal, una Chicha e una tazza di caffè 

L’aereo parte da Lima al tramonto, puntuale ed efficiente. 
Finiscono così queste cinque settimane in Perù. Cinque settimane… non sembra neanche vero! 
È stata un’avventura abituarsi al ritmo sudamericano ma devo dire che sono contenta di aver cominciato questo mio viaggio in Perù . Nonostante certe incertezze e certi timori dell’inizio la verità è che non mi sono mai sentita veramente in pericolo, sia in quanto straniera che donna. Pensavo avrei passato tutte le mie serate confinata in ostello per la paura di uscire, invece più di una volta mi sono trovata fuori la sera senza alcun tipo di problema. Pensavo avrei sempre tenuto la borsa appresso, cercando di tenere in mostra i miei averi il meno possibile per non attirare attenzioni indesiderate, invece molte volte sono uscita leggera col minimo indispensabile, cellulare e macchina fotografica a vista senza timori. 
Mi chiedo come sarà la mia prossima meta, la Colombia. 
Se ne sente tanto parlare di questa Colombia. È un paese dalla complicata storia recente fatta di tanta violenza e tragedia. Al giorno d’oggi però la Colombia sta passando per un periodo di transizione , le cose non andavano così bene ormai da lunghi decenni e si sta sempre più aprendo al turismo. La situazione nel paese si è normalizzata e la Colombia chiede a viva voce di dargli una possibilità, di fidarsi, di venire a vederla e di scoprire tutte le bellezze che ha in serbo, quelle bellezze che per troppi anni sono rimaste inaccessibili ai visitatori.
Se ne parla sempre di più di questa Colombia, ora che è effettivamente possibile visitarla. I visitatori tornano nei propri paesi raccontando di un paese dagli scenari magnifici, che vanno da alte montagne innevate a spiagge caraibiche da sogno, dall’architettura coloniale delle città alle giungle quasi inesplorate del sud. Parlano di persone affabili, di ottimo cibo, di serate passate a ballare salsa e cumbia come non ci fosse un domani. Tutti tornano dalla Colombia dicendo di averla amata e ti incoraggiano ad andare a scoprirla, prima che se ne accorgano tutti. 
E allora io volo a Bogotá e rimango in Colombia per circa quattro settimane. 
Voglio capire quegli occhi che brillano ogni volta che chi è stato in Colombia ne parla, voglio capire com’è la situazione oggi, e voglio capire cosa è successo fino a recentemente, perché di storia moderna la Colombia ne ha tantissima, e vorrei capire quale potrebbe essere il futuro che si profila per questo paese che dopo tanta tragedia finalmente vede uno spiraglio di luce. 
Atterro a Bogotá la sera tardi, e ripenso al mio arrivo all’aeroporto di Lima cinque settimane fa. Vi ricordate che sono rimasta circa dieci minuti impalata con lo zaino in spalla agli arrivi? Piena di paura, insicura sul da farsi? E che me la sono fatta mezza addosso finché non sono finalmente arrivata in ostello? 
All’arrivo in Colombia sono tranquilla. Ho più confidenza in me stessa, e so anche che le cose sono più sicure di quel che possa pensare. 

L’aeroporto di Bogotá è decisamente più grande e moderno di quello di Lima. 

Al controllo immigrazione porgo il mio passaporto alla guardia di turno. Rispondo alle sue domande in inglese, lui alza gli occhi, mi guarda con fare semi sarcastico e mi fa ” Italiana, no?” . Come a dire, avanti, che mi tocca ascoltare sta roba chiamata inglese con tutti i gringos che passano per di qua. Te, Italiana, vuoi dirmi che non puoi sprecarti a parlare un po’ di spagnolo? Rinuncio all’inglese, gli rispondo in spagnolo e lui già si rilassa. 

Ammessa pure in Colombia 🙂

All’uscita trovo subito la maniera sicura di procurarmi un taxi ufficiale e nel giro di qualche minuto sfreccio su una lunga strada dritta a più corsie, direzione centro. Tutto è pulito e moderno, potrei essere a Milano. 

Il giovane tassista mi chiede mille cose, da dove vengo in Italia, se si mangia solo la pasta, che musica ascoltiamo, se la salsa arriva anche in Italia. Si fa una risata quando gli spiego che in Italia la gente paga per andare ai corsi di salsa per imparare a ballare. In Colombia la gente sa ballare fin da quando sono bambini, non servono corsi, dice. 
Arrivo nel mio ostello nella zona della città chiamata Candelaría, che è il quartiere storico in cui Bogotá nacque e da cui si sviluppò ed è anche dove la maggior parte dei visitatori risiede. 
Dopo una notte di sonno ristoratore in un lettuccio comodo dalle lenzuola morbide mi sveglio, faccio colazione e mi preparo per la missione del giorno: introduzione a Bogotá. 
Ormai come in ogni città cerco il tour a piedi gratuito, che è sempre un’ottima opportunità di conoscere sia le attrazioni di un posto che di avere la protezione di un gruppo e di una guida locale che mi aiuta a capire le regole del posto: posso tenere la macchina fotografica e il cellulare in vista? Posso andare in giro con aria da turista o è meglio dare meno nell’occhio? Quali sono le zone dove posso andare e quali quelle da evitare? 
Siccome però comincia alle due del pomeriggio, approfitto della mattinata per una breve avanscoperta in cerca di un bancomat e di un adattatore per la corrente ( In Perù avevano prese in cui spine europee entravano, ma in Colombia usano prese come si usano per esempio negli Stati Uniti) . 
Mi aggiro per le stradine della Candelaría e intuisco subito cosa attira i visitatori. Ci sono molte casette antiche, dai colori sgargianti e le porte decorate. Qualche chiesetta qua e là, baretti e ristoranti. In lontananza si vede il resto di Bogotá estendersi senza fine, in fin dei conti questa è una città da 10 milioni di abitanti. 




Trovo il bancomat e riesco a ritirare un massimo di 600.000 pesos. Mi sento ricchissima, anche se alla fine ho in tasca ” solo” 172 euro. 
Mi ero finalmente abituata ai Soles peruviani, riuscivo a capire i prezzi e a tradurli correttamente in Euro, quindi questi pesos colombiani mi confondono non poco. 

Non solo hanno in sacco di zeri ( 1 peso colombiano vale 0,00029 euro, 1 euro vale 3464 pesos) , ma da l’impressione che ai colombiani piaccia cambiare il design delle proprie banconote un anno si e un anno no. Ogni volta che ricevo delle banconote di resto scopro nuovi volti, nuovi design, ogni tanto controllo che siano vere perché sembra non esserci una versione definitiva. 

Gabriel García Márquez nella nuova banconota da 50.000 pesos 🙂

Continuo il mio piccolo giro della Candelaría, cerco di non dare troppo nell’occhio ma non mi sento in pericolo. 
Mi muovo con cautela ma con sicurezza. Passo davanti a una bella libreria, e a una bella libreria io non so mai resistere. Si trova dentro a un edificio, faccio per entrare quando mi bloccano due guardie. Mi chiedono cortesemente se posso aprire la mia borsa, io obbedisco e loro la passano al metal detector. Appurato che non sono armata, mi fanno passare e mi godo la libreria. All’uscita delle altre guardie mi chiedono di aprire la borsa, solito trantran , metal detector, Prego può passare, grazie. All’uscita, sulla mia sinistra c’è un militare con un mitra sottobraccio. 
Mi infilo in una catena di caffetterie chiamata Juan Valdez, una specie di Starbucks dedicata solo ai caffè colombiani. Mi prendo un caffè e un alfajor, un dolcetto tipico di molti paesi in Sudamerica farcito con del dulce de Leche, e studio la cartina del centro.


Dopo un’altra piccola ricognizione mi fermo per pranzo in un posto consigliatomi da TripAdvisor, e appena entro è amore a prima vista. 

Una piccola bettola dall’aspetto di altri tempi, con un piccolo balconcino sopra la cucina e un lungo tavolo in cui ci si siede, si mangia e si va via. Leggo su internet che questo posto, chiamato La Puerta Falsa è una delle istituzioni culinarie di Bogotá, e qui si servono specialità tipiche colombiane. 

Molte delle recensioni nominano il Tamal, uno snack popolare in molti paesi dell’America Latina e che consiste in farina di mais con altri ingredienti ( carne, pesce, verdure, quel che si vuole) il tutto rinchiuso in una foglia di banano o di mais e cotto al vapore. 

Ovviamente non ho dubbi e oggi si mangia Tamal. 

Mi arriva il Tamal più grande della storia. Lo apro e il profumino giunge alle mie narici, so già che mangerò bene! 


La farina di mais cotta in questo tipo non può che ricordare un po’ alla polenta, anche se con certe differenze. Mezzo nascosta trovo una coscia di pollo che si rivela gustosissima e che si scioglie in bocca. 
Distrutto il Tamal e trangugiato un succo di arancia appena spremuto, pago i tre euro che mi è costato il lauto pranzo e me ne torno per un po’ in ostello, aspettando che arrivi l’ora giusta per il tour. 
Verso le due mi trovo con la guida e altri visitatori. È il primo giorno in Colombia per quasi tutti noi, e siamo contenti di cominciare a conoscere il paese. 
Più che visitare molti monumenti, in questo tour ci viene data una buona base per capir la storia passata e recente di Bogotá e della Colombia. 

Osserviamo i tanti graffiti che decorano le pareti della Candelaría, e ci viene spiegato che essi sono sorti soprattutto durante il mandato del passato sindaco di Bogotá, un fautore degli artisti di strada. Tutti i graffiti hanno significati politici o sociali e comunicano idee e opinioni, e se si impara a leggerli si può capire molto della storia e della situazione colombiana. 

Graffiti dedicato alle popolazioni indigene colombiane, oppresse e violate dai tempi dei conquistadores fini ai giorni nostri

Sembra che purtroppo l’attuale sindaco di Bogotá sia contro questi graffiti, e che molti siano stati recentemente cancellati. Questo è un gran peccato per una città che fondamentalmente non è piena di monumenti o bella architettura e che ultimamente contava un po’ su questo graffiti per abbellire le pareti cittadine. 
Entriamo in una locanda tradizionale dove ci offrono una bevanda che è stata molto importante in Colombia, la Chicha.
Bevande chiamate Chicha le si trovano in molte parti delle Ande, ed è sempre una bibita a base di mais. In Sudamerica esistono molti tipi di mais che fanno origine a diversi tipi di chicha, ma di base si tratta sempre di un liquido ricavato dal mais che viene fermentato e acquisisce un grado alcolico più o meno elevato a seconda del tempo di fermentazione. 
Chi viene dal Perù come me può ingannarsi facilmente. Ovunque in Perù si può bere la Chicha Morada, considerata la bevanda non alcolica nazionale e fatta di mais viola, succo di limone, ananas e melacotogna. 
La Chicha tradizionale, però, è una bevanda fermentata e alcolica che fa parte della cultura di molte società andine. 
Tenetevi forte, ma questa è la preparazione tradizionale, ad oggi in uso solo nelle comunità indigene: il mais viene masticato da delle persone, viene sputato in un contenitore e si lascia fermentare sottoterra per qualche settimana o un mese. 

Gli enzimi presenti nella saliva umana accelerano il processo di fermentazione. 


Ma non preoccupatevi. La Chicha che si trova nelle città non viene di certi prodotta così. Sembra esista un altro metodo, che ha a che fare con dei contenitori di argilla che vengono rivestiti internamente di miele e che, ripieni di mais previamente cotto, vengono lasciati fermentare per un massimo di un mese. 
Proviamo la Chicha e devo dire che, nonostante il forte profumo fermentato , è molto buona. Mi ricorda vagamente un sidro di mele più denso e ha una percentuale di circa 2% , quindi poco alcolico. 
Ci viene spiegato che la Chicha ad oggi non è la bibita più popolare in Colombia, e che spesso negli ultimi 600 anni ha rischiato di scomparire. 

La prima volta fu per colpa degli spagnoli, che volevano eradicare dalle popolazioni locali tutte le vestigia delle loro antiche tradizioni, ai loro occhi usanze anti cristiane e quindi errate. Nemmeno l’evento dell’inquisizione però fece desistere gli indigeni dal produrre e consumare l’anatra Chicha. 
La seconda volta che la Chicha rischiò di scomparire nell’oblio fu durante il periodo di Simon Bolivar, un personaggio leggendario di fondamentale importanza nella storia della lotta contro il dominio spagnolo in Sudamerica che meriterà un approfondimento migliore magari tra qualche articolo. Per ora ci basti sapere che una sera Simon Bolivar e il suo esercito, nel bel mezzo di una campagna di battaglie contro gli spagnoli, per festeggiare una vittoria decisero di innaffiare le celebrazioni con una bibita tipicamente locale. La Chicha. Una Chicha di qualità, chiaro, fermentata a lungo. Molto a lungo. 

Bolivar e compari bevettero per tutta la notte e la sbornia diede spazio a una grande dormita che si protrasse per tutto il mattino seguente. 

E per tutto il pomeriggio. 
E mentre i sudamericani dormivano profondamente, arrivarono gli spagnoli, e si trovarono i nemici davanti. Addormentati. E ne approfittarono e ne uccisero a bizzeffe. 
Bolivar si salvò ma da allora proibì la Chicha, troppo deliziosa per fidarsi. Però si sa come vanno queste cose: uno può anche proibire la Chicha, ma la gente mica smette di produrre e consumare Chicha. 
La terza volta che la Chicha rischiò l’estinzione se la vide davvero brutta. 

Siamo ormai a inizio ‘900 e in Colombia arriva un tedesco di nome Leo Kopp. 


Kopp avvia un birrificio ma ha problemi a vendere il suo prodotto. I colombiani non vedono il motivo di dover comprare una bibita alcolica quando potevano farsi in casa la Chicha a costo zero. 

Il tedesco allora avvia una mirabolante campagna pubblicitaria che cerca di recare danni all’immagine della bevanda nazionale e fa leva sugli inevitabili cambiamenti sociali di inizio secolo. Si dirige principalmente alla nuova classe di colombiani che vuole apparire più facoltosa, più moderna, più europea, e fa in modo che sempre più la gente associ la Chicha con la povertà e retrogradezza e la birra con la ricchezza e la modernità. 

” La Chicha imbruttisce!” ” La Chicha porta criminalità e riempie le carceri!”

Dopo questo colpo la Chicha quasi scompare. Ad oggi i colombiani preferiscono di gran lunga la birra e il birrificio di Kopp, Bavaria, negli anni diventò una multinazionale e fino alla sua acquisizione da parte di una compagnia brasiliana nel 2005 era la seconda produttrice di birra più grande del Sudamerica ( Sembra che la tomba di Kopp a Bogotá è meta usuale di pellegrinaggi da parte di persone che vanno a visitarla nella speranza che lo spirito di Kopp porti loro fortuna nella ricerca di un nuovo lavoro più remunerativo) .
La Chicha rimane comunque una parte importante della vita delle popolazioni indigene e a Bogotá si trova in vendita esclusivamente nella Candelaría. 
Continuiamo il nostro giro e finiamo in un piccolo bar che si specializza nella foglia di coca. Qui parliamo del tema che è impossibile evitare di trattare quando si parla di Colombia: il narcotraffico. 


La storia di come la produzione e il traffico di stupefacenti, la marihuana negli anni 60 ma soprattutto la cocaina dagli anni 70 agli anni 90, ha influito sull’economia, la società e la politica colombiana meritano ben più di un articolo, e prometto che ne parleremo a fondo in futuro, nel limite di quel che ci ho capito. 

Mentre parliamo di cocaina e Escobar però parliamo anche della coca come fogliolina inoffensiva e parte integrante della vita delle culture andine. Così come si intuisce largamente in Perù la foglia di coca ,prima della sua mutazione perversa in sostanza chimica, è una pianta che ha avuto e ha un’importanza basilare per le persone che abitano le Ande. Essa contiene molte proprietà: sopprime la fame, la sete, il dolore e la fatica, contiene molti minerali, vitamine, fibre e proteine, dilata i vasi sanguigni ed è per questo che viene consigliata per il mal di montagna, appunto perché permette di ricevere più ossigeno nel sangue. Per l’ennesima volta veniamo pregati di capire quanto la foglia di coca e la cocaina abbiano così poco da condividere. 
Ci viene servito un piccolo assaggio di the di coca e mi vengono in mente tutti i the di coca che mi hanno aiutato sulle Ande peruviane. Sembra una vita fa! Ci viene anche offerto un pezzo di torta fatta con le foglie di coca, una delizia appena uscita dal forno!

Torta fatta con le foglie di coca. Sullo sfondo la bandiera dei popoli andini

Dopo un’altra passeggiatina per il centro finiamo il giro in un bel bar dedicato al caffè colombiano di qualità. Assaggiamo un’ottimo caffè dalla regione di Huila e pregusto la cultura di caffè che ho intenzione di farmi in queste settimane. 




Finiamo il tour e sono piena di spunti su cosa fare a Bogotá nei prossimi giorni e i temi che voglio approfondire per capire di più questo paese.




 La serata finisce tranquilla studiando qualche sito e qualche guida presente in ostello. 

Devo capire come muovermi, dove andare.
Nuovo paese, nuova avventura. 
Benvenuti in Colombia! 

Chi, io? 

Ultima giornata a Lima e in Perù, una permanenza conclusa “col botto”.
Oggi voglio fare molte cose. 

Mi piacerebbe rivisitare il centro di Lima. 

E mi piacerebbe tornare nel quartiere di Barranco. 

E vorrei pranzare al “mio” Mercado del Surquillo, su questo non transigo… a meno che… ma non corriamo troppo. 
Mi attivo, corroborata da una giornata che comincia presto col sole. Cerco di ricordarmi come ho fatto a raggiungere il centro un mese fa, accompagnata da quella guida del tour gratuito. Vi ricordate? Prendere l’autobus allora per me è stata una grande avventura. Avevo paura: mi sarei persa? Sarebbe stato sicuro? Mi sentivo così protetta all’andata, in compagnia di tutti gli altri turisti e la nostra guida, e mi sono sentita così vulnerabile ma poi cosi coraggiosa quando mi sono dovuta arrangiare per tornare indietro! 
Oggi invece, a un mese di distanza, sento che sono cambiate molte cose. Innanzitutto il mio spagnolo è più sciolto, faccio sempre i miei errori e i miei cocktail speciali di spagnolo-italiano-portoghese ma riesco sempre a spiegarmi. Più importante però è che ho acquistato più dimestichezza e soprattutto più confidenza in me stessa. Ho capito che nell’ambiente in cui mi muovo, almeno in queste zone di Lima che frequento, non ho motivi di avere paura né di dover tenere la guardia eccessivamente alta. 

Allo stesso tempo sto imparando a ” emettere” più sicurezza di me stessa, più controllo sulla situazione. Una cosa che sto capendo sempre meglio è che la postura importa molto: se emetti confidenza è piu facile non passare per la ” preda” , meglio ancora se la confidenza è naturale e genuina. E parlo di essere preda di attenzioni da machos indesiderati, eventuali individui truffaldini ma anche dall’ennesimo venditore che prova a venderti l’ennesimo souvenir e che cristo santo lasciatemi in pace. 
Oggi prendo il bus come niente fosse. 

So già come si passa il controllo senza avere la carta apposita, basta abbordare un passeggero e chiedergli di passare con la sua carta dandogli il prezzo del biglietto. So già che non è una cosa inusuale e che lo fanno tutti, niente più ” scusi, mi farebbe il favore, se potessi solo…” . 

Passo e so già che autobus prendere, e quanto durerà il tragitto, e che staremo tutti strizzati come sardine ma ormai ho sviluppato un rapporto di convivenza con la mia borsa e siamo una sola cosa. So già quando scendere e dove dirigermi. 




Mi piace la Plaza de Armas di Lima, ha un che di imponente, la piazza principale che si addice a un paese importante. Mi piacciono soprattutto i bei edifici gialli e quelle possenti finestrone di ebano. 

Approfitto per passeggiare per qualche via del centro, individuo una specie di corso chiuso al traffico dove passeggia la gente .

 



Sto quasi per tornare indietro ma mi ricordo che qua vicino dovrebbe esserci una Chinatown, proprio a lato della piazza principale. 
La comunità cinese è presente in Perù da almeno due secoli: la maggior parte dei cinesi arrivò nel 19esimo secolo come impiegati per le piantagioni di zucchero dopo l’abolizione della schiavitù e il conseguente calo di manodopera, si stima che il 95% fossero uomini di origine cantonese. La Chinatown di Lima è una delle più antiche dell’emisfero occidentale. 

La via principale della Chinatown di Lima sembra a tutte le Chinatown del mondo: improvvisamente compaiono ideogrammi e le vie sono tradotte in lingua locale e cinese. Dove c’è una Chinatown c’è sempre una grande quantità di delizioso cibo cinese, e la Chinatown di Lima non è da meno. Questo è l’epicentro di tutti i ristoranti della cucina che in Perù chiamano Chifa, ossia la cucina cinese/cantonese infusa di ingredienti e tradizioni peruviani. Uno dei piatti più famosi della cucina peruviana, il Lomo Saltado, altro non è che un piatto Chifa: straccetti di manzo vengono combinati nel wok a fuoco estremamente alto e per breve tempo, una tecnica tipicamente cinese chiamata Stir Fry, con cipolla, pomodori, peperoncino, patatine fritte e soprattutto aceto e sillao, il nome locale per la salsa di soya.
È mezzogiorno e già lo sapete, sono un pozzo senza fondo. Mi prendo un delizioso Bao, un soffice panino tipicamente cinese che viene riempito con la carne che si preferisce e poi viene cotto al vapore. 


Un classico cinese che non fallisce mai. 
Il centro di Lima è più caotico e intenso della calma Miraflores e presto decido di battere in ritirata verso il sud della città. Mi strizzo di nuovo con le sardine peruviane del bus e pregusto il pranzo che ho intenzione di godermi al mercato. 
Anche se. 

Potrei provare. 

Potrei tentare. 

Ma no, sarà impossibile. 

Rischio di farmi una camminata lunga solo per farmi dire di no.
Ok. 
Da un paio di giorni flirto con l’idea di intrufolarmi a Central, il ristorante dello chef peruviano Virgilio Martinez premiato come il quinto migliore al mondo nel 2017. 

Per la sala ci vuole la prenotazione, meglio pensarci almeno un mese prima se non di più, e so che in questi giorni è tutto esaurito. Leggo su internet però che il ristorante ha anche una zona bar, più alla mano e accessibile, dove se c’è posto si può rimanere a mangiare qualcosa. 
Figuriamoci se c’è posto. 

Veramente rischio di attraversare tutto il quartiere solo per farmi sbattere la porta in faccia. 
Però so che il Mercado de Surquillo serve cibo almeno fino alle quattro, quindi al massimo posso sempre tornare a pranzare li senza troppi rimorsi. 

Alla fine, è il mio ultimo giorno a Lima, la mia ultima possibilità. 
Tentar non nuoce. 

Mi ritrovo davanti alla porta di Central. 
Niente insegne, niente segnalazioni, solo un menù quasi invisibile appeso al muro.


 Ci sono due guardie di sicurezza che mi mettono un po’ di soggezione. Quasi li sento pensare ” Ma che ci fa questa qui, gringa fino all’osso e vestita come se andasse da Mc Donald’s” ( Scusate, ma gli abiti per andare in ristoranti stellati non me li sono potuti portar dietro). 
Invece quando mi avvicino mi sorridono e mi aprono le porte. 
Entro. 

Sono dentro a Central. 
CENTRAL. 
Vedo la sala, i camerieri, in fondo vedo la cucina aperta. 

A me basta dire di essere stata dentro. 
Sono realizzata. 
” Ha una prenotazione?” Mi accoglie una ragazza garbata e sorridente che sembra non fare caso ai miei cenci turistoidi. 
“No, ma mi chiedevo se era possibile pranzare nel vostro bar….?” Balbetto io. 
” Oh, mi lasci vedere” 
Señorita , ma io sono contenta anche così. 
Sono entrata a Central, ho visto com’è , a me basta così, si, capisco, dovevo prenotare, capisco, un vestitino potevo anche mettermelo si, capisco, l’olezzo che emano purtroppo viene dal piacevole smog che sostituisce l’ossigeno su a Lima centro e da camminate a ritmo sostenuto sotto il sole. Non importa, va bene così, capisco sa , ma graz…
” Se aspetta tre minuti certo, è possibile” 
Chi, io? 

Sul serio? 

Ma per magna’ , no? 

Cioè, ci siamo capite bene? 
Non mi sembra vero. 

Finché non mi accomodo nel bar, non ci credo, non canto vittoria. 

Tanto a me basta esserci stata dentro. 

Aver aspettato seduta sul divanetto della reception. 

Il divanetto di Central eh, il quinto divanetto migliore del mondo. 

Dai che va bene così. 
Mentre aspetto guardo la sala, osservo i mille cuochi che si muovono come ballerine da nuoto sincronizzato. 
A me giuro, basta anche solo questo. 
” Prego si accomodi!”
No. 

Chi, io? 

Aspetti, è sicura? 
IO.
Oddioddioddioddioddio.

Sono seduta al bancone del bar di Central . 
Ecco, è fatta. 

Oddio. 

Ma come. 

Si saranno sbagliati. 

Vedrai che ora han capito male e mi fan bere un caffè e poi pussa via. 

Vedrai che non hai capito niente. 
” Buenas tardes” . É caloroso il barman, e mi porge il menù. 

In cartoncino, minimalista, elegante. 


Con bevande. 

E cibo. 

CIBO.

Mangio. 

Mangio a Central. 

Io, 

mangio a Central! 
Central ha una serie di menù di degustazione fissi, tutti tributi alla varietà gastronomica peruviana. Uno dei concetti più famosi e interessanti è il loro ” Menù per altitudini” , in cui in 17 portate si sale di altitudine, dal livello del mare fino alle vette delle Ande più alte, con gli ingredienti che crescono unicamente in quegli ambienti. Questi menù di solito vengono proposti a chi sta in sala e ha la prenotazione, ma nel bar è possibile ordinare dei piatti singoli. 
Il che mi basta e avanza. 
Per cominciare ordino un Pisco Sour: non vedo vini in vista e , nel dubbio, un Pisco Sour a Lima è sempre una buona idea. 
Mentre aspetto mi guardò attorno e ancora non ci credo. 

Sono dentro, sono seduta, ho ordinato (Scelta difficile, prenderei tutto ma comincio con due piatti) , ora aspetto. 
La miseria, sono a Central. 
Una coppia inglese affianco prova ad attaccare un po’ bottone, io rispondo il più garbata possibile ma sono ancora mezza sotto shock per essere riuscita ad entrare. 
E scrivo furiosamente messaggi ai miei genitori, i generosi sponsor volontari di questa avventura culinaria, e Jørgen che poverino a casa si sta scaldando una pizza surgelata. 

Arriva il mio polipetto grigliato, morbido dentro e ricoperto di una crosticina croccante fatta di kañiwa, una parente della quinoa, il tutto accompagnato da una glassa divina e fatta di chissà cosa e delle cipolline, patate andine e una specie di chips di alghe. 
L’estasi. 
Mi sforzo di non ripulire il piatto col dito, ma mi premuro di raccogliere fino all’ultimo chicco di kañiwa e l’ultima goccia di quella glassa che potrei trangugiare al litro ogni giorno. 
Mantengo la calma fuori ma dentro ancora non ci credo. 

Central! 

Io! 

Raddoppio i messaggi ai miei cari. 
Nel giro di poco arriva il mio secondo piatto. 


Io che mi aspettavo dell’anatra affumicata in foglie di coca mi trovo davanti al più bel giardino fiorito e a una roccia su cui si ergono due chips. 

Mi viene spiegato che la roccia è roccia quindi non si mangia, e per fortuna mi avvertono che con la voracità che ho mandavo giù anche quella.
Il giardino fiorito è formato da vari tipi di quinoa, un frutto chiamato Pijuayo e Airampo, che Wikipedia mi informa dovrebbe essere una specie di cactus. L’anatra non è cotta ma affumicata, ha effettivamente un aroma gradevole di coca con cui si sposa bene ed è servita come una specie di tartare. 

Sono gusti difficili da spiegare, tanti sapori inediti per il palato, ma tutto così ben bilanciato, così gustoso, così intenso. 
Cammino sulle nuvole. 

Non solo ho mangiato da Central, ma è stato pure davvero buono. 

Al di là di tutto, della bella presentazione, della professionalità, dei mille premi, c’è la sostanza vera e propria: il cibo è favoloso. 
Quando mai mi ricapita di tornare da Central, ovvio che prendo il dolce. 
Si sì, portatemi quel gelato fatto di cioccolato al 70% con scaglie di cioccolato bianco , chips di Lucuma e l’ argilla andina commestibile che si chiama Chaco. 

Spero nessuno mi guardi mentre mi sbafo il dessert stellato, che ho la sensazione di avere cioccolato spalmato fin sulla punta del naso. 
Cerco di rimaner composta ma come si fa, ho attivato tutta l’endorfina che ho in corpo. 

Sorrido, mi guardo attorno. 

Central! 
Il conto. 

Uno pensa che con un’esperienza del genere il conto sia salatissimo. E si, mica costa come il Mercado del Surquillo. Ma per tre favolose portate e un cocktail nel quinto ristorante migliore al mondo mi stupisco mentre pago quello che pagherei in una normale cena in un ristorante in Norvegia. 
Faccio per andarmene, do un’occhiata alla sala prima di andare. 

Faccio per scattare una foto, poca classe si ma quando mai ci ricapito! 
Sgamata dal cameriere della sala. 

Oh no.

Che figura da contadina in villeggiatura. 

Oddio eccolo che mi viene incontro. 
No scusi no giuro che non lo faccio più si ha ragione ora la cancello subit….
” Prego, si accomodi, venga a visitare il ristorante”.
Chi , io??? 
” Da questa parte prego. Oh, Italia, che bel paese, si, prego, venga venga andiamo in cucina” 
CHI, IO? NELLA CUCINA DI CENTRAL???
” Preeego le presento il nostro collega italiano! Si sì lei è italiana e viene in visita!” 
Capita tutto così veloce. 

Senza accorgermi sono finita nella cucina di Central, in mezzo ai cuochi. 


Un paio mi salutano con un gran sorriso, io rispondo con un miagolio rantoloso.
Il cuoco italiano non capisce se sono italiana o se semplicemente parlo italiano, dico che sono italiana, vicentina, lui è di Treviso. ” Ooooh Treviso. Beh insomma. E allora. Vita a Lima e lavoro a Central, eh?” 
Sapete quando il cervello vi va in pappa e volete dire qualcosa ma esce tutto fuori rigurgitato. 
Mica perché mi sia emozionata a parlare con un trevigiano che vive a Lima. 

Ma sono nella cucina di Central. 
Non so se avete capito. 
Scatto qualche foto, presa dall’agitazione e dalla sorpresa non ne faccio una giusta. Il cameriere si propone di farmi una foto, boh io gli affido il mio cellulare senza capire molto, adotto una smorfia da scorfano et voilà, immortalata a vita con la faccia da fessa a nella cucina di Central. 

Ringrazio per il tour e il cameriere rilassato mi tratta come se non avesse niente altro di meglio da fare che scortarmi in giro come se fossi la cliente vip del ristorante. 
Si affretta ad aprirmi la porta per uscire, si inchina e mi saluta calorosamente, io balbetto qualche saluto e mi ritrovo fuori, alla luce del sole. 
Fuori Central, ma con Central dentro al cuore. 

E allo stomaco. 
Mi ci vuole una camminata per smaltire il cibo e le emozioni. Mi dirigo verso il Malecon, mi si apre la solita vista mozzafiato sulla costa limeña. 




Ma quanto sventola sei Lima? 

Lungomare, palme, sole, brezza leggera, gente tranquilla, parchi lussureggianti, strade pulite. Si lo so, pure te hai le tue aree meno belle, ma qui, così, in questo momento, sei bellissima. 

Passeggio a lungo e mi ritrovo a Barranco, il quartiere visitato un mese fa che tanto mi era piaciuto. Ci ritorno ed è sempre bello. Nella piazzetta trovo un piccolo festival del libro, musica salsa che esce da degli altoparlanti, il sole ovunque e i colori cangianti dei begli edifici che caratterizzano Barranco. 





















Comune trovare questi cartelli che servono dolci tipici di Lima

Provo ad assorbirla tutta questa Lima. 
Per tornare a casa riprendo quel minibus che sempre un mese fa mi aveva messo tanto timore prima di prenderlo e che poi, come col primo autobus, ho scoperto che non c’era niente da temere.
Salgo sul minibus e rifletto ancora sui passi da giganti che ho fatto. 


La solitudine mi pesa meno, il dispiacere di non avere nessuno accanto con cui condividere le cose che vedo e sento è diminuito, è passato in secondo piano rispetto alla gioia di vedere e sentire le cose che mi si parano davanti. Spero che questi progressi siano dovuti a una crescita personale e non al fatto che mi sia semplicemente abituata al Perù, e che quando cambierò paese domani non debba ripartire di nuovo da zero.
La sera, dopo un po’ di riposo in ostello mi concentro sulla cena, l’ultima cena in questa capitale gastronomica. 
Decido di farla grassa e finire in bellezza con qualcosa che non ho ancora provato e che non posso lasciare il paese senza provare: la cucina Nikkei. 
Se Chifa è la cucina che si crea nell’incontro tra la comunità cinese-cantonese e il Perù, Nikkei è il connubio culinario creato dalla comunità giapponese e, in generale, il Sudamerica. 
La comunità giapponese è un’altra importante parte della storia di certi paesi sudamericani, Brasile e Perù in primis. 

Similmente alla comunità cinese, molti giapponesi si avventurarono in Sudamerica nel 19esimo secolo in cerca di fortuna. Il Perù fu il primo paese sudamericano a permettere l’immigrazione giapponese e a stabilire contatti diplomatici col Giappone. 
Trovo un ristorante Nikkei in zona e sono curiosa di capire come si crea il connubio tra due cucine così diverse: la giapponese, così delicata e sofisticata, e la peruviana, così diretta e intensa. 
Ordino un tiradito di tonno fresco e crudo, un sashimi se non fosse per la salsa con cui viene servita, che chiamano Acevichada. 

Certi degli ingredienti di questa salsa non entrerebbero mai in un ristorante giapponese che si rispetti: maionese, aglio, lime, peperoncino e zenzero.Eppure in un ristorante Nikkei la fusione è d’ordine e si permette quello che a Tokyo sarebbe eresia. 

Ordino anche dei maki, un classico formato di sushi giapponese. 

Ripieno di avocado. 

Con tempura di alghe. 

Coronato da chicharrón ( un termine che alla fine denota tutto ciò che è stato fritto) di calamaro e polpo. 

Innaffiato di Leche de Tigre. 

E con scaglie di patata dolce! 
Sbagliato! Sbagliato! Dice la parte del cervello che vuole una cena tradizionale giapponese. 
Intrigante. Intrigante. Dice quell’altro parte del cervello che si chiede come funzionerà il tutto. 



L’ordine arriva. 

Perfino l’aspetto è quasi giapponese, ma non proprio. 
Assaggio entrambi i piatti, e mi rendo subito conto. 

Se si va al ristorante Nikkei aspettando di cibo giapponese, si rimane delusi. Se ci si voleva trovare cibo peruviano, pure si resta delusi. Ma chi è venuto per provare qualcosa di diverso, di nuovo, una fusione che ha acquisito un’identità propria e che ricorda i propri genitori in certi tratti ma che finisce per avere una personalità distinta e inedita, allora ha azzeccato. 
Questa esperienza mi incuriosisce, ho voglia di approfondire e capirne di più. 
Purtroppo il mio tempo a Lima è finito sennò una visita da Maido, l’ottavo migliore ristorante del mondo, la mecca del Nikkei e ubicato a circa due edifici di distanza dal mio attuale ostello, sarebbe il mio nuovo obiettivo. 
Meglio, lascio qualche conto in sospeso con Lima, così dovrò tornarci. 
Ormai sono le undici di sera e devo andare a letto. Domani mi aspetta l’ultima mattinata peruviana e un volo di qualche ora. 

Mi sveglierò in Perù e andrò a dormire in un altro paese. 
Rimango in Sudamerica, continuerò a blaterare spagnolo, dove andrò e dove andremo assieme lo scoprirete domani 🙂 

Un domingo limeño

La mia domenica a Lima comincia sul tardi, non so ancora bene cosa fare. Ho solo una meta per oggi: pranzo al Mercado de Surquillo. Ho deciso di farci tappa per pranzo fino a che non me ne andrò da Lima.

Passo per piazza Kennedy, quella coi gatti randagi, e noto che le strade sono bloccate al traffico e tutta la piazza è pedonale e dedicata a una giornata di sport. Magicamente il sole splende, e la temperatura è perfetta. Ma l’attività fisica la lascio agli altri, che io c’ho le mie abbuffate da fare. 

Giovani e aitanti. Io vo’ a magna’.
Arrivo al Surquillo e noto che c’è più movimento rispetto agli altri giorni. 

Essendo domenica, lo spazio circostante normalmente vuoto si è riempito di stand di prodotti organici e peruviani. Comprerei tutto da portare a casa, ma purtroppo non posso. Per fortuna nel giro di poco noto cosa posso permettermi di comprare, qualcosa di più limitato nel tempo: cibo! 

Festival gastronomico? Si Gracias!
C’è tutta un’area piena di nuovi stand con señoras che sbraitano e cercano di attirare nuovi clienti nei loro stand. C’è chi fa ceviche, chi ha stufato di agnello o maiale alla moda del nord, c’è chi fa cibo della regione amazzonica e chi cuoce maialino nel cilindro, tipo barbecue. 

Spero mi adottino

Sezione pesce. Sulla destra riconosco l’arroz de marisco, una specie di risotto di pesce, e in centro il Chupe de Camarones, una zuppa tipica di Arequipa fatta a base di gamberi, latte evaporato e vari tipi di peperoncini non troppo piccanti.

Cibo dell’Amazzonia peruviana

Arroz de Marisco

Vari tipi di stufati di carne dal nord del Perù

Picarones, anelli di pastella fritta che verrà servita con del miele

Stufati del nord del Perù
Maiale arrosto e Tamales, pacchettini in foglia di banano o mais contenenti una pasta di mais che ricorda la polenta e carne o verdure
Il profumo fa perdere la testa, ma cerco di mantenere il controllo. Per quando mangerei tutto, oggi ho voglia di pesce e nessuno mi schioda da questa idea.
 Entro dentro al mercato,nella solita sezione di cevicherias attaccate ai pescivendoli e mi siedo senza molti dubbi in quella che quasi un mese fa mi ha deliziata con un ceviche che ho sognato per un mese intero.


Ma che cos’è sto ceviche? 

Il ceviche non è un piatto unico alla cucina peruviana, ma la maniera locale di prepararlo è di certo una delle sue deformazioni classiche e oserei dire la più famosa. Quando si pensa alla cucina peruviana, è difficile che il ceviche non sia il primo o il secondo piatto che si nomina.

Il primo Ceviche , quasi un mese fa
Il ceviche si prepara con cubetti di pesce crudo, può essere un pesce a carne bianca soda come il pesce locale chiamato lenguado o un misto di pesci o molluschi misti, tutto delle stesse dimensioni. Questo pesce viene mescolato in una ciotola con pochi ma importanti ingredienti: un agrume, principalmente il lime locale o una forma di arancia più aspra chiamata naranja agria, del peperoncino più o meno aggressivo a seconda del gusto, della cipolla tagliata fine fine, sale e pepe. Esso viene tipicamente servito con del mais bollito, un mais dai chicchi più pallidi, grandi, e dal gusto più pastoso e meno dolce del nostro, e della patata dolce cotta, una patata simile alla cosiddetta patata americana che troviamo in Italia ma più concentrata in sapore e densità. È possibile che venga servito anche con della Cancha, il favoloso mais tostato onnipresente in tutti i bar quando si ordina per esempio una birra, o un tipo di alga verde chiamata Yuyo. 

Anticamente il ceviche si lasciava marinare per ore, ma grazie all’influenza della comunità giapponese che popola il Perù da molti decenni è ora comune prepararlo un po’ più alla nipponica, ossia limitando la marinatura a poco prima di esser servito. 

Il ceviche non è pesce crudo, o meglio, l’agrume nella marinatura “cucina” il pesce cambiandone la struttura. Per prepararlo si usa esclusivamente pesce freschissimo tanto che non troverete cevicherias aperte per cena, solo mattino e pomeriggio. 

Sulle Ande ho visto ceviches preparati con pesci di fiume e di lago come le trote, e in un buffet squatto l’ho trovato pure fatto di sgombro sotto scatola, ma il vero ceviche lo si trova sulla costa, fatto con qualsiasi tipo di pesce locale.

Una variante del ceviche si chiama Leche de Tigre, che di solito costa meno e altro non è che un contenitore tipo bicchiere in cui viene servito il liquido di marinatura del ceviche ( e magari qualche pezzettino di pesce) , che è così buono che delle volte la gente salta il pesce e va diretto alla marinatura. 

Il Leche de Tigre mangiato ieri
Al Mercado del Surquillo ci sono due cevicherias che si contendono i clienti. Entrambe sono posizionate a lato di pescivendoli con prodotti così freschi che i granchi ancora passeggiano per il bancone. Uno di essi ha anche un’affascinante cucina aperta in cui è possibile osservare i quattro o cinque cuochi avvicendarsi come giocolieri culinari in uno spazio veramente ristretto. 

Salse e cumbie risuonano dagli altoparlanti e i camerieri armati di menù cercano di convincerti a sederti nel loro ristorante, ma nonostante la concorrenza non sembrano prendersela troppo se ti siedi nell’altro ristorante. 
Entrambe le cevicherias servono un antipasto della casa, un brodo fatto con le teste di pesce chiamato Chilcano. Ad esso va aggiunta della Cancha, il mais tostato, del succo di lime e eventualmente per chi lo volesse della salsina di peperoncino. Con la sua semplicità il Chilcano fa sempre il suo lavoro e apre lo stomaco per grandi abbuffate. 

Chilcano
Oggi ciò che mi attira oggi è il Tiradito de pescado con ají amarillo, un cugino del ceviche che deve la sua origine nell’incontro tra la cultura peruviana e quella giapponese. Esso è fatto di pesce, lo sesso tipo usato per il ceviche, qualcosa di carne bianca e che tenga la sfaldatura che il contatto con l’agrume potrebbe causare, tagliato a fettine sottili, stile sashimi. Viene servito con una salsa dal colore giallo acceso ma dal gusto delicato e bilanciato composto da pasta di ají amarillo, questo peperoncino così importante per la cucina peruviana e che è poco piccante, e molto succo di lime. Si può guarnire con del mais e della patata dolce, et voila .

Tiradito de pescando con ají amarillo

Divorato il Tiradito quasi mi commuovo dalla felicità. 

C’è solo una maniera di finire questo fantastico pranzo, ed è indugiare nel dolce che ho visto ieri ma che ero troppo piena per mangiare. 
Subito a lato delle due cevicherias c’è un piccolo stand che serve ” comida de la selva” , ossia cibo della regione amazzonica peruviana. Ieri da loro mi sono pappata un Juane, ma oggi ritorno per il loro omaggio amazzonico alla banana split di Elvis Presley, che prevede un platano ( una specie di banana meno dolce e più densa che spesso viene usata nelle preparazioni salate più che dolci) fritto e servito con del burro di arachidi fatto in casa e uno sciroppo di burro di cacao. 

Che dire, un peccato di gola, ma ci sta, ci sta. 

Banana split stile Amazzonia
Ormai sono un porcellino e non resisto alle tentazioni: il mio stomaco apposito per i dessert si riapre quando avvisto la gelateria a fianco del mercato in cui qualche giorno fa ho assaggiato un gelato all’avocado che mi si è impresso in testa. Non ce la faccio e prendo una pallina di gelato al basilico, gusto forse inusuale ma di sicuro successo. Da provare!!

Al basilico!
Finita questa maratona culinaria non vedo l’ora che sia pranzo domani.

Carrellata di meraviglie dal Mercado de Surquillo. In primo piano in centro , semi di cacao

C’è da perdere la testa

Avocadi belli e maturi. In Sudamerica si chiamano Palta

Uno dei frutti locali più popolari :Lucuma

Frutto della giungla: cocona

Lime peruviani, leggermente più acidi e aromatici dei “nostri “
Un frutto peruviano che trovo spesso in Norvegia , a costi ben diversi, è il physalis. Così si chiama in inglese e norvegese, Wikipedia mi avverte che il nome italiano sembra essere Alchechengio peruviano o Uciuva. Ha un gusto dolce e particolare, consigliato se lo trovate nei supermercati italiani.

Manghi che prendono la tintarella
Granadilla, un tipo di frutto della passione

Decido che la cosa migliore da fare è una passeggiata per smaltire i peccati di gola, e mi dirigo verso la costa. Passo per le strade di Miraflores, questa zona agiata e tranquilla di Lima, osservo le belle case e appartamenti e penso che tutto sommato non mi dispiacerebbe viverci. 
Ora che arrivo verso la costa sono quasi le quattro. Senza molti piani comincio a passeggiare per il Malecon, questo lungo parco stretto e lungo che costeggia le collinette su cui si arrocca la città e finisce prima che esse sprofondino dirette verso le spiagge e l’oceano. Essendo domenica il Malecon è zeppo di locali accorsi per godersi la bella vista e il sole gradevole. Ci sono famiglie di tutte le età, giovani innamorati, amici affiatati, anziani sonnecchianti, cani di tutte le taglie che corrono come razzi, bambini che li sfidano coi tricicli, ragazze che costringono il ragazzo a far loro una foto con la vista, giovani che suonano o fanno dell’equilibrismo e qualche straniero che si guarda intorno e si gode questa Lima amichevole e placida. 

Ristorante ” La Rosa Nautica” e surfisti coraggiosi



Mi ritrovo presto nel Parque del Amor, un piccolo giardino sul Malecón dedicato agli innamorati, che presenta panchine fatte con delle piastrelle colorate un po’ stile Gaudí. 





C’è anche la possibilità di fare del parapendio con un istruttore, la costa presto si riempie di parapendii mentre il sole pian piano cala. 






Passo almeno un’ora ad osservare la gente attorno a me, la vista meravigliosa che si gode sulla costa limeña e mi bagno di sole e compagnia umana. 

Equilibrista in erba
Equilibrista esperto
Ci sono anche campi da tennis lungo il Malecon




Penso un po’ a questo mese peruviano, penso a come avevo paura di questa città appena arrivata e come non sapevo come muovermi e come godermi un momento senza la compagnia di persone conosciute al mio fianco. 

Sembra ieri, però sento anche di averne passate. Mi accorgo che pian piano sto imparando a stare per conto mio, a gustarmi il momento, ho già più coraggio e confidenza e sento che ho dimostrato a me stessa una certa perseveranza e tenacia. Ho avuto attimi di sconforto e qualche pizzico di paura ogni tanto e si è tutto rivelato passeggero o perfino infondato. 
Sono curiosa di vedere se riuscirò a portare le lezioni imparate qua nella mia prossima meta o se al mio arrivo ritornerò il piccolo anatroccolo sperduto in cerca di mamma papera. 

E no, non vi dico ancora dove andrò, così vi rimane la sorpresa 🙂