El Dorado e figure extra-large 

Mi sveglio col rumore di un forte vento che sbatte finestre e porte, ma quando effettivamente esco dall’ostello non sembra poi esserci quel vento apocalittico che pensavo ci fosse. 
Già la seconda giornata in una città è più facile: ci si orienta meglio e si prende più confidenza. 


Teatro Colon

Mi dirigo pian piano verso la piazza principale della Candelaría, Plaza Bolivar, che ieri era completamente chiusa a causa di una conferenza e sorvegliata dalla polizia armata fino ai denti ma oggi è a libero accesso. 

Il parlamento

Cattedrale sulla destra e Palazzo della Giustizia sulla sinistra

C’è una grande cattedrale, il palazzo del parlamento e quello della giustizia. Non posso fare a meno di pensare alla serie televisiva di Netflix che parla dell’ascesa e del declino di Pablo Escobar e i cartel narcotrafficanti di Medellín e di Cali, Narcos, in cui tra le tante cose si parla dell’assedio che nel 1985 distrusse proprio questo palazzo di giustizia. 35 membri del gruppo di guerrilla di stampo marxista denominato M-19 entrarono a sorpresa nel palazzo di giustizia e presero la Corte Suprema colombiana in ostaggio. Il giorno dopo l’esercito colombiano reagì violentemente entrando con carri armati e armi automatiche uccidendo chiunque si parasse loro davanti, circa 100 persone. L’operazione fu definita da molti osservatori internazionali come un vero e proprio massacro indiscriminato, e occupa un capitolo nero della storia recente della Colombia. 

Assedio del palazzo di giustizia, 1985

Esistono teorie per le quali Pablo Escobar, prima dell’assedio, fosse entrato in contatto con l’M-19 per far sì che una volta dentro agli archivi del Palazzo di Giustizia bruciassero documenti che lo compromettevano, ma nonostante la serie TV supporti questa teoria di fatto non ci sono prove del contatto tra Escobar e M-19. 
Cammino ancora per un po’ lungo una lunga via pedonale e vedo tanti tipi di persone, da uomini di affari a barboni che dormono sdraiati in mezzo alla strada. 


Magnifiche collane tradizionali delle popolazioni indigene colombiane in vendita davanti al Museo dell’Oro

Poco più avanti giungo al museo più famoso di tutta Bogotá e forse di tutta la Colombia, il Museo dell’Oro. 
Fondato nel 1939 esso contiene la più grande collezione di oggetti in oro di tutto il mondo, tutti reperti storici e manufatti delle varie culture preispaniche colombiane. 

Il Museo di per se è un bel edificio contemporaneo e contiene molte informazioni interessanti.



Viene spiegato che la metallurgia in questa parte del mondo viene scoperta circa 4000 anni fa più a sud, in Perù, e pian piano arriva anche in Colombia. 

Come già avevo sentito parlare in Perù, per le civiltà preispaniche questi metalli erano di grande importanza ma mai per motivi economici. La loro capacità di brillare alla luce del sole e di emettere suoni se percossi aveva quasi del magico per queste popolazioni, e il loro uso era quindi limitato esclusivamente a ciò che di più importante avevano, le cerimonie religiose che li mettevano in contatto con i loro dei. 


In Colombia si lavorano vari tipi di metalli preziosi: rame, platino, un po’ di argento ma soprattutto l’oro. Essi inventarono anche delle leghe a base di oro e rame, che rendeva l’oro più rosato, e oro e platino, che rendeva lavorabile il platino che altrimenti sarebbe stato impossibile per loro da lavorare viste le altissime temperature richieste per fonderlo. 


Le civiltà indigene della Colombia elaborarono nel tempo tecniche sopraffine per la lavorazione dell’oro tanto che quando gli spagnoli videro i prodotti del loro lavoro ne rimasero incredibilmente affascinati. Ci viene spiegato che una delle tecniche più comuni per lavorare l’oro e trasformarlo in oggetti e decorazioni dai dettagli così minuziosi prevedeva l’uso di stampi di cera, tanto che in certi oggetti d’oro è ancora possibile distinguere lievi impronte digitali lasciate sugli stampi e quindi trasferiti sull’oro. 



È difficile non condividere il sentimento dei primi spagnoli che videro questi oggetti: noi visitatori del museo ci aggiriamo per le sale un po’ come gazze ladre, ammaliati dai luccichii di decorazioni dorate che sembrano state create qualche giorno fa e che in certi casi hanno almeno mille anni. 





Abbiamo un po’ tutti sentito parlare della leggenda di El Dorado, quella credenza che avevano molti conquistadores che da qualche parte in questo nuovo continente ci fosse una riserva d’oro oltre ogni limite immaginabile che li avrebbe fatti diventare ricchi sfondati e che, ovviamente, non venne mai trovato. Pochi però sanno che la leggenda che ha iniziato il mito dell’El Dorado ha origine poco fuori Bogotá, in un lago chiamato Guatavita. 

Credenze locali infatti raccontavano del re del popolo dei Muisca, gli abitanti originali della zona di Bogotá, osservava un rito d’iniziazione che prevedeva che lo si ricoprisse di polvere d’oro e che poi si immergesse nel lago Guatavita. La dea del lago provvedeva ad applicare un pizzico di magia e il re fuoriusciva il lago con tanto oro da non essersi mai visto prima sulla faccia della terra. 

Quando gli spagnoli sentirono queste voci nella lontana Mesoamerica non ebbero dubbi: era giunta l’ora di avventurarsi a sud. Nel tempo la leggenda si ingigantì fino ad assumere proporzioni abnormi: da un re dorato si passò a una città. Poi già non era più una città, era un’intero regno pieno di oro. Divenne perfino un’impero, pensate, un’impero PIENO d’oro! 



Gli spagnoli arrivarono al lago di Guatavita, in cui realmente si effettuavano cerimonie religiose Muisca che avevano a che vedere con l’oro, e si, trovarono parecchi oggetti d’oro sul fondo del lago, ma in tutta la loro avventura in Sudamerica non trovarono mai quelle quantità leggendarie di oro che la leggenda prometteva, non localizzarono mai il ” vero” El Dorado. E quante persone, spagnoli e soprattutto indigeni, morirono nella pizza ricerca di questo mito! 



Passo da sala a sala e i reperti d’oro diventano sempre più sofisticati e magnificenti. 






All’ultimo piano si passa per un’ala del Museo dedicata al lavoro archeologico, come si scava e come si determinano certe informazioni sugli oggetti ritrovati. 


Finita la guida quasi non ci credo che ho pagato meno di 2€ per l’entrata!! 
È ora di pranzo e mi dirigo verso la bettolina scoperta ieri. Con i prezzi accessibilissimi, l’ambiente pittoresco e la varietà di cibo colombiano e bogotano che offrono, ho intenzione di venirci ogni giorno per provare proprio tutto! 

Oggi entro e il locale è molto affollato. Dietro di me c’è un americano, anche lui solo, anche lui affamato. L’unico posto disponibile è a una mensola con due seggiole adibita a tavolo, ci sediamo tutti e due e cominciamo a chiacchierare. Parliamo del più e del meno, della Colombia, dei nostri paesi, e intanto a lui arriva il Tamal che ho mangiato ieri e a me arriva un Ajiaco Santafereño, uno dei piatti più tipici di Bogotá che consiste in una ricca zuppa a base di patate, cassava, pollo ridotto in sfilacetti, mais, latte, capperi e avocado. Avevo letto che i colombiani sono bravi a far zuppe e questo Ajiaco conferma le voci, la zuppa è sostanziosa e favolosa! 


Mentre io continuo a chiacchierare come è mio solito l’americano prende il mio conto e si offre di pagarmi il pranzo. Io provo a rifiutare ma non c’è verso, vuole ringraziarmi della chiacchierata. Mentre paga alla cassa i quattro camerieri presenti mi chiedono se stiamo insieme, se ci conosciamo, io dico di no, mai visto prima. All’unisono i quattro camerieri sbarrano gli occhi dalla sorpresa, ” Ai que geeeentleman! “, concordano tutti.
Il pomeriggio scorre tranquillo, continuo ad esplorare le vie della Candelaría, mi perdo nella fornitissima libreria del centro culturale dedicato a Gabriel García Márquez e ne approfitto per visitare il Museo Fernando Botero. 



Quando aprí nel 2000 questo Museo causò non poco scalpore nella città natale di Botero, Medellín. Ma come, dissero i medellinenses, apri un Museo con tutta la tua collezione personale e alcuni tra i tuoi quadri più importanti, e non la apri qui, a Medellín, la tua città natale? Sembra però che Botero fosse in contatto con una rinomata associazione culturale proprio a Bogotá, l’unica con cui fosse veramente in sintonia. 
Il Museo Botero rispetta i desideri dell’artista, il cui obiettivo era appunto di rendere disponibile a tutta la popolazione la sua collezione privata, fatta di quadri e sculture di artisti del calibro di Picasso, Dalí, Chagall, Miró, Monet e Matisse tra tanti altri, e 123 delle sue proprie opere, il tutto a costo zero. 


I quadri più interessanti ovviamente sono quelli dell’artista colombiano, un po’ perché è per questo che si entra. 



Fernando Botero nacque a Medellín nel 1932 ed è sia pittore che scultore. Il suo peculiare stile, denominato Boterismo, raffigura oggetti e persone in versione extra-large, che aiutano a passare il messaggio spesso politicizzato, cinico o umoristico tipico dell’artista. 











Oggi è andata così, mi sono buttata a capofitto nei musei che avevo voglia di vedere da molto tempo. 

La sera approfitto della cucina in ostello e mi preparo la cena, per qualche motivo in Perù avevo solo trovato ostelli senza cucina ed è bello ora riuscire a tornare a cucinare un po’ di cibo leggero. Mentre cucino in lontananza sento tante grida da fuori. La Colombia sta giocando con il Paraguay, partita di qualificazione per i mondiali, roba seria. Dalla foga delle voci intuisco che almeno un gol colombiano è assicurato. Devo dire che mi piacerebbe essere fuori, magari in un qualche bar e guardare la partita con dei colombiani, per sentire l’energia tutta attorno, ma devo ammettere che quando cala la sera non mi sento troppo a mio agio girare per le stradine della Candelaría. Purtroppo questi sono i piccoli compromessi che si fanno quando si viaggia da sole, o quando si viaggia in luoghi in cui magari se esci non succede niente, ma non è neanche sicurissimo che non possa succedere qualcosa. 
Ma va bene così, vuoldire che stasera mi godrò la copia di Cent’anni di solitudine in spagnolo che ho trovato abbandonata in ostello! 

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