Un anno dopo

Oggi, un anno fa.

Una sera tarda, seduta nel piccolo patio urbano di un ostello nel quartiere di Miraflores, Lima. Situato in una stradina tranquilla che si immette sul Larco, l’arteria che porta dal cuore di Miraflores al lungomare, il patio è immerso in una quiete quasi irreale, incorniciato dal fragore del perenne traffico in lontananza.
Ho appena completato il check-in, mi sono finalmente liberata dello zaino e ripenso alle ultime ore.
La partenza da Venezia, l’attesa al terminal intercontinentale di Madrid.
Il panico mi è salito davvero solo in quel momento, davanti allo schermo che segna l’orario di partenza per il volo diretto a Lima. Mi rendo improvvisamente conto che non e più un piano organizzato unicamente nella mia mente, che non sono più parole e pensieri, ma fatti tangibili.
Ho un mezzo pensiero di mandare tutto all’aria.
Sono ancora in Europa, basta non presentarsi al gate.
Perderò i soldi ma va bene, in fin dei conti sono solo soldi.
Porcaccia la miseria ma cosa mi è saltato in mente.
Io da sola come un pesce lesso in giro per l’America Latina. Per tre mesi e mezzo! Ma chi me l’ha fatta fare? Ah già, mi ci sono messa IO in questo casino.
Volevi cambiare aria. Volevi metterti alla prova. Volevi scoprire nuovi orizzonti. Ma per favore, non potevi prenderti un bel libro? Non potevi, che so, cambiare lavoro? No, ti sei messa in testa di prendere uno zaino in spalla e andare in un altro continente. Brava, in questa gatta da pelare ti ci sei messa tu e nessun’altro.
Per fortuna il volo per Lima viene ritardato di tre ore, tempo extra per assorbire e in qualche modo accettare la situazione.
Con che faccia tornerei indietro? “ No, a Madrid ho preso spavento e ho cancellato tutto”, No, no, non riuscirei più a guardarmi allo specchio. Ormai ho preso questa decisione del cavolo e non c’è niente da fare, ci sono dentro fino al collo. Mi maledico profusamente, mi sale il malumore.
Agli arrivi a Lima, ritirato lo zaino, l’angoscia fa spazio alla paura. Se ci penso ora mi viene da ridere ma giuro che ho passato almeno dieci minuti davanti all’uscita, pietrificata dall’ansia. È calata la sera, mi trovo nell’aeroporto di una delle metropoli più grandi del Sudamerica, situato tra l’altro in uno dei peggiori quartieri, sono sola e ho un enorme zaino sulle spalle che grida “GRINGA AQUI! “ .
Alla fine, mi sono fatta coraggio e ho varcato l’uscita come ci si tuffa in uno specchio d’acqua infestato da coccodrilli.
Il processo si rivela più semplice e immediato di quello che credevo solo pochi minuti prima e in quattro e quattr’otto mi ritrovo seduta in un taxi.
La tensione sbollenta davvero quando riusciamo a scampare dalla confusione della zona adiacente all’aeroporto e imbocchiamo una strada che sbocca sul lungomare.
È notte ma sento il profumo dell’oceano, il rumore delle onde sulla mia destra e osservo le alte scogliere nere che separano la citta dalla costa. Sono ancora agitata ma la voglia di esplorare e visitare un posto sconosciuto improvvisamente attenua la paura.
Arrivo all’ostello prenotato previamente e mi sento come avessi varcato una fortezza, la mia roccaforte protetta in cui mi sento al sicuro da tutti i pericoli che ( mi sono messa in testa ) pullulano al di fuori di queste mura.
Ed eccomi seduta nel patio mentre rifletto su ciò che ho già fatto e sul da farsi.
Per la prima volta, dopo mesi e mesi di progettazione di questo viaggio, ho finalmente trasformato qualcosa in realtà. La porzione di viaggio da casa mia fino a questo patio limeño non è più un pensiero ma una realtà già avvenuta, un ostacolo già sorpassato.
Quando si esce dalla propria zona di conforto è sempre importante accorgersi delle piccole vittorie e appuntarsele addosso come medaglie d’onore. Non c’è carburante migliore di una sana dose di autostima e sicurezza di se stessi ed è ciò che davvero mi ha tenuto a galla per tre mesi e mezzo, soprattutto per i primi tempi.
Oggi, a distanza di un anno esatto da quel momento di riflessione seduta in un patio di Lima, ho un quadro completo di tutta l’esperienza.
Quando ne parlo a chi ha ancora la pazienza di sentirmi blaterare delle mie peripezie latine dico scherzosamente che questi tre mesi e mezzo li ho sentiti davvero come una mini vita all’interno della mia vita, con tutte le sue fasi.
Il Peru è stato la mia infanzia. La prima volta, la scoperta delle basi, dell’ ABC del viaggio da sola. Le prime emozioni, le prime paure, I primi sconforti, le prime frustrazioni, le prime epifanie, le prime gioie e le prime vittorie. Ho affrontato tutto il paese col freno a mano attivato, allentandolo man mano che il tempo passava e le medaglie sul petto si accumulavano.
Il vero e proprio cambiamento forse è maturato con l’arrivo a Cusco dopo qualche giorno a La Paz , in Bolivia.
Sarà che ero ancora molto “verde” e non avevo ancora abbastanza medaglie sul petto per gestire la situazione a livello emotivo, ma a me La Paz ha fatto venire un po’ di traveggole. Una citta che almeno in superficie, beh, “è bell’ a solo a mamma soja” , perenni nuvoloni grigi e tanta povertà perfino nelle vie più centrali della capitale, mi è risultato difficile amare questa città. La cosa peggiore è che il primo giorno mi sono sentita proprio a disagio, perennemente vigilante e impaurita dal mondo circostante. La verità è che già il secondo giorno, avendo speso il giorno prima in avanscoperta e abituandomi pian piano al nuovo paese, già mi sentivo più sicura.

Il meteo pero dava brutto per tutta la settimana seguente e comunque sia non avrei avuto il tempo di esplorare niente al di fuori di La Paz (ossia, la Bolivia che a detta di moltissimi viaggiatori che ho incontrato ha un sacco di tesori da scoprire ) quindi non ho modo di sapere se eventualmente avrei cambiato completamente idea sulla città se le avessi dato il tempo di spiegarsi, di farsi capire.

Sento che la mia visita in Bolivia sia stata così breve e quasi malintesa che quando parlo del mio viaggio quasi non la nomino.
Comunque sia, dopo le insicurezze private a La Paz e un lungo ed estenuante tragitto in autobus della durata di un giorno e mezzo (notte scomoda e semi insonne inclusa) l’arrivo a Cusco è stato una vera boccata d’aria fresca per vari motivi.
Innanzitutto, il centro di Cusco è contenuto e a misura d’uomo, non servono mezzi di trasporto per esplorarlo. Cusco, poi, è una città dal fascino incredibile e dai molti stili di vita, in cui è possibile gustarsi un piatto di udon giapponesi in brodo in un localino all’ultima moda che non stonerebbe a Berlino o a Copenhagen mentre si osservano le donne agghindate in variopinti vestiti tradizionali intente a scorrazzare lama e alpaca su e giù per le pittoresche stradine dalle solide fondamenta costruite ai tempi degli Inca.
Complice un mal di schiena fulminante, una forma di mal d’ altitudine mai totalmente placato, una visita a Machu Picchu che si è rivelata uno strazio da progettare e un ostello in cui mi sono sentita per la prima volta davvero a casa, a Cusco ho passato ben due settimane, il periodo più lungo ferma in un posto durante tutto il viaggio.
Passare un periodo così lungo in una citta permette di andare oltre alla visita e acquisire un senso di come possa essere la quotidianità di un posto. Dopo settimane di cambiamenti continui, trovare un luogo in cui almeno per qualche giorno si possa “fare casa”, darsi al dolce far niente, andare ogni giorno al mercato dalla stessa venditrice di succhi freschi e farsi riconoscere i giorni successivi, questi sono i piccoli grandi lussi che solo un viaggio così lungo può offrire.

Ripensandoci mi risulta quasi incredibile pensare che la maggiorparte dei visitatori passa a Cusco sì e no solo qualche giorno: in due settimane io ho visto solo la metà di quello che mi ero prefissa e ho dovuto lasciar perdere molte cose. Non rimpiango nemmeno un giorno passato a Cusco e l’ho lasciata solo perché qualche giorno dopo avevo un volo in partenza da Lima e avevo ancora voglia di rivisitare la capitale, questa volta dopo cinque settimane on the road e pronta a riesaminarla con la nuova fiducia in me stessa.

A Cusco per la prima volta mi sono ritrovata, per la primissima volta dall’inizio del viaggio, a parlare in passato. Dopo settimane di contatto con decine di viaggiatori tutti intenti a percorrere il proprio itinerario, tutti con settimane se non mesi alle spalle di rocambolesche avventure e esperienze di vita, senza accorgermene mi sono ritrovata a parlare delle mete visitate precedentemente e delle varie avventure capitatemi. Cosi, dal nulla, mi sono accorta che non ero più una novellina totale, che qualcosa l’avevo visto e fatto anche io. Una gran medaglia da appendere al petto.

Il ritorno a Lima (un tragitto in autobus di venti ore che nemmeno il sedile VIP che ho occupato ha reso minimamente confortevole) è stato quasi catartico.
Tornare nel luogo dove tutto è iniziato fa davvero pensare. In cinque settimane niente era cambiato in città, ma molto era cambiato in me.
Mi sono riscoperta più sicura, più a mio agio e più in controllo della situazione. Dopo cinque settimane avevo capito come muovermi, cosa fosse giusto fare e cosa fosse saggio evitare, pensavo in valuta locale senza difficoltà e pure il mio spagnolo era diventato decisamente più sciolto.
La seconda visita a Lima ha confermato il mio fascino per questa città spesso sottovalutata se non saltata in tronco da molti visitatori.
Dite quello che volete, ma una passeggiata lungo la costa dei quartieri di Miraflores e Barranco, osservando il vasto e selvaggio oceano pacifico davanti e le alte scogliere nere che separano il centro urbano, con la sua miriade di persone e mezzi di trasporto, dalle spiagge ciottolose frequentate da stormi di enormi pellicani che volano a pelo d’ acqua e qualche surfista che approfitta delle perenni onde, il tutto incorniciato dalla misteriosa Garua, la nebbia che caratterizza la costa peruviana per gran parte dell’anno, per me è una di quelle esperienze immancabili se si passa da quelle parti.

Per non parlare della favolosa cucina peruviana, che ormai sogno spesso la notte.

Se il Peru ha rappresentato un po’ la mia “infanzia”, la Colombia potrebbe essere stata la mia “adolescenza”. Una nuova sicurezza in me stessa mi ha permesso di gustarmi il viaggio con molta più tranquillità e, almeno sotto certi aspetti, con meno timori. Certo, lo dico col senno di poi perché i primissimi giorni a Bogotá non ero poi cosi rilassata!
In ogni nuovo paese ci si mette sempre un paio di giorni per adattarsi, è sempre saggio non dare niente per scontato e mantenere l’allerta, per non esporsi a pericoli facilmente evitabili.

L’arrivo in Colombia si è rivelato meno traumatico dell’angoscia provata all’aeroporto di Lima cinque settimane addietro. Ormai sembro aver imparato a convivere con lo zaino in spalla che grida “GRINGA AQUI!” a destra e a manca e mi sento più in controllo della situazione.
Il tratto che dall’aeroporto va verso la Candelaria, il quartiere storico che è al contempo il posto dove bazzicano i turisti ma anche dove scorrazza una certa malavita, mostra il lato più moderno e pulito di Bogotá, che potrebbe essere il quartiere d’affari di qualsiasi città europea o nordamericana. Improvvisamente ci si immette in una laterale che si snoda sul dorso di una collina con pochi edifici e molta natura. Ogni tanto si apre uno sprazzo e si ha una visione panoramica dall’alto del centro di Bogotá, tutto grattacieli illuminati e poi una distesa urbana senza apparente fine, il tutto incorniciato dalle fronde rigogliose degli alberi che circondano la strada che si percorre. Uno spettacolo che ho avuto modo di vedere due volte e che vive vivida solo nei miei ricordi perché non sono mai riuscita a fotografarla.
Dopo questo arrivo in pompa magna il taxi entra di nuovo nella zona urbana, ma ben diversa dal quartiere tutto pulito e moderno di prima. Quella prima sera mentre rallentiamo in cerca dell’ostello mi ritrovo a pregare dentro a me stessa “ Fa che non sia questa la via del mio ostello!”.
Il taxi si ferma proprio in quell’istante.
Eccomi a casa….

Dopo una notte di sonno ristoratore nel mio confortevole ostello, la mattina dopo mi preparo per la prima avanscoperta.
Prima di uscire la ragazza alla reception mi introduce a quello che mi sembra ora il leitmotiv di una visita nella Candelaria di Bogotá:

“ Oh sì, ci sono un sacco di cose belle da vedere!
Per favore però quando esci prendi subito la sinistra e vai verso il centro.
No, meglio non andare a destra, qualche casa più in su comincia un quartiere… poco raccomandato.
Ma a sinistra va tutto bene! Pieno di belle cose! Vai a vedere questo questo e questo.
Solo, per favore, quando fai una foto, nascondi subito il cellulare.
Nono figurati, va benissimo fare le foto!
Solo, non farti vedere.
Ma senza paura, non ti preoccupare!
Ma tienitelo nascosto.
Buona visita!!!!”

Nei nove giorni che passero a Bogotá, all’inizio e alla fine della mia permanenza in Colombia, ho capito un fatto valido soprattutto per quanto riguarda il quartiere storico: non è un quartiere pericoloso, anzi, ci si può passeggiare tranquilli.
In certe vie.
Le altre vie è meglio evitarle dopo il tramonto, alcune è meglio evitarle a qualsiasi ora del giorno.
In Colombia e soprattutto a Bogotá sfrutto tantissimo il servizio di Uber, che oltre al trasporto da una parte all’altra della città permette di entrare in contatto con quel popolo meravigliosamente caloroso che sono i colombiani: parlando con i bogotani mi rendo conto che loro la mappa delle vie sicure e quelle meno sicure ce l’hanno stampata in testa, quasi d’istinto sanno dove andare e dove non mettere piede.

In Colombia finirò per passare tre settimane e mezza. La parte del mio itinerario da cui forse mi aspettavo meno (Ma che ho tuttavia deciso di includere perché mi è sempre stata raccomandata caldamente da chiunque ci sia stato) è quello che mi ha stupito di più e quello che mi sento di “sponsorizzare” più insistentemente.
Dico questo perché ho come l’impressione che paesi come il Peru o il Messico siano riconosciuti ( a dovere) come luoghi pieni di fascino e attrattive, senza bisogno di grandi pubblicità ,mentre della Colombia si sente sempre e solo parlare di cose negative se non tragiche: la cocaina, Escobar e tutti gli altri narcotrafficanti, la corruzione, la Farc, i paramilitari, bombe e rapimenti .
Serve sempre qualcuno che ci sia stato per sentir parlare delle tantissime altre cose che risaltano più di tutto agli occhi del visitatore, e in tre mesi e mezzo non ho incontrato NESSUN viaggiatore che abbia messo piede in Colombia che non si sia preso una cotta seria o che non ci si sia innamorato a vita.

Quando penso alla Colombia penso a un paese relativamente piccolo in confronto alla varietà sbalorditiva di paesaggi e climi che contiene.

Nello stesso paese si concentrano realtà come Bogotá, una metropoli di 10 milioni di abitanti arroccata su un altopiano a 2600 metri sul mare e dove fa sempre abbastanza frescolino e piove spesso ( Il resto dei colombiani la chiamano “ la Nevera”, il frigorifero) , Medellin, baciata da perenni temperature da primavera tarda e circondata da una natura che esplode di colori e fertilità in maniera scandalosa e Cartagena, affacciata sul mar dei Caraibi e dal clima fortemente tropicale, tutto palme e umidità al 200%.

La maestosa catena delle Ande, la cui visione in Peru fa perdere la testa anche a chi delle montagne non interessa niente, in Colombia si scinde in ben tre catene con picchi che superano il Monte Bianco senza fatica, e viaggiare da una citta all’altra delle volte implica un sali e scendi estremo in cui il paesaggio cambia da montagnoso a tropicale nel giro di una mezz’ora e l’unico punto in comune sembra essere la perenne sovrabbondanza di natura di una bellezza da cavare gli occhi. E questo è SOLO quello che ho avuto modo di vedere con i miei occhi durante il limitatissimo itinerario che ho seguito da Bogotá a Cartagena via Medellin. Cosi come in Peru, anche in Colombia purtroppo ho dovuto saltare la porzione del paese che si estende in Amazzonia, un ennesimo cambio radicale di clima e paesaggio.
Oltre al fascino naturale incredibile, la Colombia ha anche centri urbani di grande attrattiva come Cartagena, citta dall’importanza storica e dall’architettura indimenticabile, e Salento, il sonnacchioso paesino dai cui limiti cittadini si estendono piantagioni di caffè a perdita d occhio.
A Salento, dove sono stata ospitata in una finca adiacente a una piantagione di caffè e in cui ogni mattina sorseggiavo un intenso caffè mattutino prodotto con i chicchi raccolti l’anno precedente a qualche metro di distanza, ho forse passato i giorni più indimenticabili del mio viaggio.
Come se le meraviglie naturali e architettoniche della Colombia non bastassero, quello che entra davvero nel cuore del viaggiatore, soprattutto se in solitaria e quindi “forzato” a interagire con chi sta attorno, è il calore e la cordialità del popolo colombiano.
Poco avvezzi al turismo di massa che solo recentemente ha fatto capolino nelle loro vite, ma già simpatici di base, in Colombia è difficile non sentirsi a casa. Non c’è stata persona a cui abbia chiesto informazioni e aiuto che non mi abbia assistito affabilmente, ma in nessun altro posto ho sentito il fattore umano cosi come l’ho sentito nella città di cui forse avevo più timore , la famigerata Medellin.
Se nell’immaginario comune Colombia vuol dire droga e guai, l’epicentro di tale mondo è Medellin. Luogo natale del più famoso narcotrafficante della storia, Pablo Escobar, e centro nevralgico delle sue operazioni malavitose, per un buon ventennio Medellin si è classificata regolarmente nella lista delle città più pericolose al mondo, e a buon motivo. Solo negli ultimi anni, dopo la fine del dominio del cartel di Medellin e di numerosi tentativi da parte del governo locale e centrale di ripulire e riqualificare il centro, Medellin può ora accogliere del turismo.
Il risultato è una citta più vivibile, pulita, moderna e con sempre più eventi culturali e d’avanguardia, una vera fenice che sta rinascendo dalle proprie ceneri. Se il turismo è un affare nuovo in quasi tutta la Colombia, per Medellin lo e ancora di più.

Ho avuto la fortuna di viaggiare molto in vita mia ma poche volte mi è capitato di essere in un posto in cui la gente locale si emoziona ancora nel vedere visitatori, ed è il primo luogo in assoluto in cui ho sentito che il mio ruolo di visitatrice ha una diretta influenza nel cambiamento positivo. Il fatto che arrivino turisti a Medellin significa che la città è abbastanza sicura da permettere visite dal di fuori, fa parte delle piccole vittorie di un posto che ha visto tanti orrori e che ora è pronto ad aprirsi al mondo esterno.

Un esempio su tutti la mia visita a un mercato di frutta e verdura locale, fino a pochi anni fa teatro di violenze e ancora prontamente evitato da molti cittadini di Medellin che ne ricordano la fama. Dopo un rastrellamento delle attività criminali e una ripulita radicale ( La nuova stazione di polizia piazzata nel cuore del padiglione aiuta…) hanno completamente trasformato questo mercato, rendendolo decisamente più sicuro e vivibile. I brutti ricordi però non scompaiono facilmente, e nonostante ora sia un posto da visitare senza timori manca ancora la gente locale che abbia il coraggio di farlo. Essere turisti e partecipare a una visita guidata in questo mercato ( in cui ho avuto modo di provare decine di frutti esotici dai sapori incredibili e di entrare in contatto con i lavoratori parlando del più e del meno) da un forte messaggio alla popolazione locale. “Se ci vanno pure i gringos a mangiare la frutta, perché mai dovrei avere paura io?» .
Nonostante certi sprazzi di bellezza, Medellin di per sé non è la città più pittoresca che abbia mai visitato, ma rimane forse uno dei luoghi più carichi di significato in cui il turismo va oltre alla bellezza superficiale, e per questo occuperà sempre un posto speciale nel mio cuore.

Potrei dilungarmi per ore ma questo è il succo di ciò che mi viene in mente quando si parla di questo paese . Colombia uguale Cocaina è limitativo e doloroso quanto dire Italia uguale Mafia.
Di ritorno a Bogotá passo di nuovo per la particolare esperienza di ritornare dove la visita del paese era cominciata, e ho nuovamente modo di tirare le somme. Ormai le medaglie sul petto sono molte, mi sento sicura e in controllo della situazione. L’ultimo giorno ho la possibilità di vedere Bogotá dall’alto in tutta la sua sconfinata estensione e mi balena il pensiero che nel giro di qualche giorno atterrerò in una città che ha il DOPPIO degli abitanti.
Mi sale una punta di ansia.
Lascio la Colombia a malincuore e con la consapevolezza di averne grattato solo la superficie.
Atterro la sera tarda a Città del Messico con l’intenzione di pernottare in un hotel nelle vicinanze per poi prendere l’autobus la mattina dopo in direzione sud, tenendomi la visita della capitale messicana come ultimo atto del mio viaggio.
Su Google sembra tutto così vicino. Il mio hotel sembrava una sistemazione decente, proprio a metà strada tra l’aeroporto e la stazione degli autobus. Non mi aspettavo niente di lussuoso. Ma di certo non potevo predire quello che avrei finito scoprire.
L’ansia di aggirarsi per Città del Messico, la più grande metropoli del mondo e dalla reputazione non del tutto pacifica, si trasforma in una fitta al cuore quando il taxi entra in un quartiere da far venire la pelle d’oca e ti molla a destinazione e nel giro di pochi minuti scopri di aver prenotato in un motel “ per innamorati”. La fitta al cuore si trasforma in pura paura quando finalmente, al riparo dal mondo esterno e sotto le coperte, si sente una coppietta di “ innamorati” che si accingono ad entrare nella tua camera.
Diciamo che la mia prima impressione di Città del Messico non è stata delle più positive.
Per fortuna la meta successiva mi ha fatto tornare la fiducia verso il Messico, la terza e ultima parte del mio viaggio, un po il raggiungimento “dell’età adulta” rispetto alla minivita che questo viaggio ha rappresentato, la fase in cui finalmente ho capito come funziono e ho piu controllo delle cose attorno a me.
Durante la pianificazione di questo viaggio uno dei perni da cui tutto è dipeso era l’opportunità di trovarmi a Oaxaca durante le celebrazioni del Dia de los Muertos, di cui questa città è famosa. Finisco per passare cinque giorni in questo bel luogo e, dopo aver quasi fallito la missione che mi ero preposta, mi ritrovo finalmente a mezzanotte in un cimitero messicano pieno zeppo di persone , teschi decorati , candele accese e bande di mariachi dalle languide melodie.
Mi spingo più a sud e entro geograficamente e culturalmente in Centro America. San Cristobal de las Casas e lo stato del Chiapas, specialmente ora col senno di poi e dopo aver visto altre zone del Messico mi rendo conto di quanto sia diverso rispetto al resto del paese.

Altri viaggiatori mi hanno parlato molto bene di San Cristobal e si, è una cittadina molto gradevole, ma forse dopo tre mesi di architettura coloniale spagnola comincio ad averne abbastanza e non riesco più a gustarmela come fosse la prima volta. Qui prendo la decisione, un po’ all’ultimo minuto, di spingermi un po’ più a sud e includere il Guatemala nel mio itinerario, prenotando un volo che da Città del Guatemala mi riporterà poi a Città del Messico.

Dopo un ultima visita nel sud del Messico alle meravigliose rovine di Palenque affronto l’ultimo grande timore del mio piano di viaggio : passare la frontiera tra Messico e Guatemala in un tratto del confine abbastanza remoto e immerso nella giungla.

Finora ho attraversato le frontiere solo via aereo (Peru-Colombia e Colombia-Messico) o all’interno di un gruppo con una guida al seguito ( Peru-Bolivia) e mi chiedo se sono una viaggiatrice abbastanza esperta da attraversare il confine cosi, per conto mio.

Fino alla sera prima ero piena di insicurezze e tensioni, che in qualche maniera vanno dissipandosi la mattina dopo nello scoprire che durante la notte avevo sviluppato una febbre da cavallo. La mia preoccupazione passa dal riuscire a fare bene le cose al sopravvivere alla giornata a qualsiasi costo, e in uno stato confuso e semi narcolettico non solo riesco a cavarmela alla frontiera ma sopravvivo anche al tratto di strada che va dal confine guatemalteco alla citta di Flores, tre ore in un autobus arrugginito e senza l’ombra di sospensioni sfrecciando a tutta birra su una strada bianca costellata di buche-crateri e sassi-macigni. Schiacciando pure un bel pisolino.
Fino ad ora la visita in Messico si è rivelata piena di luoghi meravigliosi da visitare ma è come se mancasse qualcosa.

Penso sia un misto di fattori, tra cui l’ amore scoppiato per la Colombia e quella sua mancanza di turismo di massa ( In Messico sono tornata ad essere la gringa da cui mungere fino all’ultimo dollaro e le “attenzioni maschili” sono diventate ancora più decise che nei precedenti paesi) e il fatto che ormai viaggio da tre mesi e comincia a mancare un po’ il comfort di casa. Sarei curiosa di vedere cosa avrei pensato del Messico se fosse stata la prima meta del mio itinerario, cosi come mi piacerebbe vedere come avrei affrontato il Peru con tre mesi di “ esperienza” alle spalle.
Per queste ragioni il Guatemala si rivela una boccata d’aria fresca.
Un paese dalle persone cordiali e dalle dimensioni geografiche più contenute che permettono spostamenti più facili. Scopro inoltre che c’è molto da vedere e da vivere, e riesco a visitare quasi tutte le mete principali consigliate nel paese.

A Flores pernotto in uno degli ostelli più suggestivi del viaggio, situato fuori mano e che per essere raggiunto richiede una breve traversata del lago in barca che rivela tutto il fascino della zona, e visito le maestose rovine di Tikal che mi gusto nonostante l’umidità elevata e le nuvole di zanzare.
Ad Antigua mi meraviglio davanti ai vulcani circostanti che fumano e all’architettura locale ( nonostante sia l’ennesimo centro coloniale spagnolo, riesce comunque a impressionarmi), osservo i variopinti costumi delle guatemalteche e visito una piantagione di caffe e infine al lago di Atitlan dove rimango a bocca aperta davanti ad altri vulcani attivi e agli scorci che danno sullo specchio d’acqua ( Cercando però di ignorare l’inquinamento e la massa di turismo cosi distaccata dalla popolazione locale) .
Di ritorno in Messico, prima di concentrarmi sulla capitale, decido di prendermela con calma e visitare altre città che la circondano. Rimango folgorata da Guanajuato e da Puebla, due bellissimi centri che potrebbero benissimo trovarsi in Spagna, e San Miguel de Allende, ugualmente graziosa ma leggermente troppo turistica a mio dire. Concludo in grande il viaggio dandomi una settimana intera a Città del Messico, avendo il sentore che sarebbe tempo ben speso, e infatti non mi sbaglio: rimane forse una delle mie mete preferite di questo viaggio e nonostante i sette giorni dedicati non sono riuscita a vedere tutto quello che mi ero prefissa. Rimando dell’opinione che Città del Messico vale un viaggio.
È arduo tirare le somme di un viaggio del genere, ci sarebbero molte cose da dire e c’èsempre qualcosa che si dimentica di aggiungere.
Il ritorno alla realtà e stato molto graduale perché sono tornata in concomitanza delle vacanze di Natale che, da disoccupata con qualche soldino ancora in tasca, ho potuto trascorrere gironzolando ancora un po’. Dopo una breve visita in Italia ho passato una settimana a Lubiana, ospite di vecchi amici, e sono tornata davvero alla realtà quotidiana a inizio gennaio, un mese dopo il mio ritorno.
I primi tempi si prova sempre piacere nel tornare nel proprio nido: non mi mancano i mille letti dai vari gradi di (s)comodità e i dormitori col tizio che russa e che nessun tappo per le orecchie può annientare, non mi mancano le docce col getto d acqua riscaldato via elettricità e le tante docce gelate, mi piace poter bere di nuovo dal rubinetto e poter buttare la carta igienica nel gabinetto senza il terrore di aver intasato le tubature per sempre e non mi mancano i gabinetti degli autobus dove “ Solo numero 1, por favor no se puede hacer el numero 2 ”. Il mio stomaco ringrazia per le scorpacciate di certi cibi che non dimenticherò mai in vita mia e che probabilmente non riuscirò mai più ad assaporare (con mio grande dolore), ma ringrazia anche per essere tornato a del cibo più semplice che non complichi la sua digestione. Non mi mancano i mille ritardi dei trasporti e un concetto di tempo, di presto e tardi, di puntualità, estremamente flessibili, ma mi manca potermi rivolgere a uno sconosciuto senza ricevere un’occhiata imbarazzata ( Nota: vivo ancora in Scandinavia). NON mi manca il bisogno di certi rappresentanti del genere maschile di farti sapere cosa pensano del tuo aspetto fisico, delle attenzioni non richieste. Non mi manca dire NO GRACIAS per cinque o sei volte di seguito dopo avermi fatto vedere i souvenir in vendita per l’ennesima volta. Non mi manca pagare certe cose con quella che chiamo la “ tassa da gringo “ , quel classico sovrapprezzo che ci viene sempre richiesto di pagare e che se fossi del luogo pagheresti quello che davvero vale.
Però mancano molte altre cose. La visione di certi paesaggi o attrazioni, imparare una nuova parola, scoprire nuove usanze, assistere a qualcosa di insolito e mai visto prima, adattarsi alle abitudini del paese, provare un piatto mai mangiato, un frutto sconosciuto o uno già provato in Europa ma mangiarlo ora maturo e delizioso cosi come ha da essere, passare ore in un museo o aspettare il momento giusto per lo scatto perfetto perché tanto sono sola e col tempo ci faccio quello che voglio senza dover rendere conto a nessuno. E manca appuntarsi quelle piccole medaglie al petto.

Ogni tanto mi pento di non aver visto di più, soprattutto ora che mi trovo a un volo intercontinentale di distanza da tutti quei luoghi e chissà quando e se ci tornerò mai più.
Il più delle volte però quasi mi pento di aver visto così tanto. Ho avuto la fortuna di scegliere tre zone (se non quattro) dell’America Latina incredibilmente ricche di storia e natura, molto diverse e ognuna di esse degne di tre mesi a testa. Avrei voluto più tempo di vedere certe cose, di completare la visita di quelle zone senza tralasciare niente, senza pero aver cambiato il ritmo e le mete che ho effettivamente visto.
In Peru avrei voluto vedere la Cordillera Bianca, le rovine di Chan Chan, e esplorare l’area Amazzonica. In Guatemala avrei volute avere altre tre o quattro settimane a disposizione per spingermi più a sud, soprattutto verso El Salvador, Nicaragua e Panama, o aver avuto qualche giorno in più per visitare una piantagione di cacao in Belize. In Messico avrei voluto andare in Yucatan solo per mangiare, e avrei voluto avere più tempo per Città del Messico e in genere per la zona centrale, piena di meraviglie da esplorare. Avrei voluto prendere un aereo e andare a Cuba. In Colombia e in Bolivia avrei voluto…vedere tutto, di più!!!
Certe cose sono cambiate, altre probabilmente no. Come al solito, le bacchette magiche non esistono. Sento di avere acquisito un po’ più di elasticità e ho una capacita maggiore di non stressarmi troppo prima del dovuto, nonostante il mio istinto primordiale sarebbe di entrare subito in panico. Una delle lezioni più importanti che ho imparato e assolutamente questa, che non posso fasciarmi la testa prima del tempo.
L’ho capito già dalla prima settimana del viaggio, durante i primi momenti di sconforto. C’erano molte cose che mi frullavano per la testa, facevo difficoltà a gestire il presente in cui mi sentivo ancora troppo principiante e come se non bastasse avevo altri tre mesi davanti. Un po’ come trovarsi fuori forma e con un elefante in groppa davanti a una montagna, con l’obiettivo di arrivare in cima.
Si entra un po’ in modalità di sopravvivenza.
A casa non ci puoi tornare( o resta comunque molto complicato, tanto come risolvere la situazione corrente) e cercare di ingoiare tutto il problemone, ossia tre mesi di viaggio, decine di destinazioni, centinaia di problemi e inconvenienti, è davvero troppo anche per la persona più ansiosa del mondo. Rimane quindi un’unica cosa da fare, ed e quella di non preoccuparsi eccessivamente prima di trovarsi davanti alla situazione e dare invece priorità a ciò che incombe, ciò che va risolto nel giro di qualche giorno o qualche ora. Passo per passo, senza fasciarsi la testa per quello che non può essere ancora risolto.

Un viaggio in solitaria, come tutte le cose nella vita, ha tanti lati positivi quanto negativi. Muoversi secondo i propri ritmi senza dover tenere conto di nessuno, senza dover compiacere nessun compagno di viaggio e senza dover scendere a compromessi da una sensazione di libertà difficile da sostituire e permette di scoprire un luogo sotto tutta un’altra luce. Una delle rivelazioni piu belle della solitaria e che anche l’orso più riservato della foresta finisce per rivelarsi il primate più basico di tutti, ossia una creatura che prospera nella compagnia di altri primati. Deve succedere qualcosa all’interno del nostro cervello ma dopo giorni passati senza entrare in contatto con altre persone, senza una chiacchiera di rilievo, senza una risata, senza uno scambio di idee, a un certo punto qualcosa si innesca e cominciamo a riversare parole come un fiume in piena. L’iniziale timidezza e riservatezza durano poco quando giorno dopo giorno si incontrano nuove persone, si cambia dormitorio, si prende l ennesimo bus, cosi frequentemente che ci si dimentica quando e iniziato e quando finirà. Quanti scambi di parole, di pensieri e di idee ho avuto con altri viaggiatori in solitaria, senza mai dir loro Ciao ne Addio . Devo ammettere che ho avuto una piccola difficoltà a tornare alla vita normale, dove prima di entrare nei dettagli ci si conosce un pochino prima. Mi sono accorta che senza controllarmi mi veniva quasi spontaneo aprirmi a chiunque e raccontare i cavoli miei ai quattro venti.

La maggiorparte dei lati negativi del viaggio in solitaria sono piccoli e quasi trascurabili se confrontati con i vantaggi. Un ragazzo inglese con cui mi sono ritrovata quasi forzata a cenare assieme a Aguas Calientes ( Machu Picchu) e che veniva da un mese in solitaria in Brasile e che si stava ancora ambientando alla modalità di viaggio mi ha raccontato che poneva spesso la stessa domanda ai viaggiatori in solitaria che incontrava: qual’è il momento in cui ti accorgi di essere solo? Da allora ho cominciato anche io a chiedere la stessa domanda a qualche viaggiatore e ho ricevuto varie risposte interessanti che riassumerei come quei piccoli lati negativi di cui parlavo.
Ci si può sentire da soli davanti a grandi attrazioni ( Finalmente davanti alla maestosa Machu Picchu!… Contornato da coppie di innamorati, di amici, di famiglie, tutti intenti a godersi l’esperienza unica di una vista cosi famosa e a creare un ricordo in comune… “ Quella volta a Machu Picchu! Ti ricordi!”), quando ci si vuole immortalare in una foto ma non si ha il coraggio di chiedere a chi ci circonda, quando si è in stazione degli autobus con il mega zaino e serve andare in bagno e non c’è nessuno a cui lasciare i propri preziosi averi…..Un viaggiatore americano a cui avevo posto la stessa domanda gli ultimi giorni della mia permanenza in Messico diceva che non gli veniva in mente niente e tre settimane dopo, mentre intanto io ero tornata in Europa e lui era finito in Honduras, mi manda una foto in cui si vedono due biglietti del cinema e il laconico commento “ …Quando vinci due biglietti ma non hai nessuno amico da invitare”.
Forse l’unico lato negativo è appunto che non c’è nessuno con cui condividere l’esatto momento, l’ esatta sensazione, nessuno con cui perpetrare il ricordo. Prima di questo viaggio questo per me era il timore più grande.
Con il senno di poi, a esperienza fatta, per niente al mondo rinuncerei a ciò che ho visto e fatto o alla libertà che ho sentito gestendomi secondo il mio ritmo e i miei interessi. Quello di non poter condividere i ricordi appieno è il piccolo prezzo da pagare.
Per fortuna io ho ovviato un po’ il problema grazie a voi, a chi mi ha letto e mi ha tenuto compagnia, che sia stata una sola volta, più volte o tutte le volte.
Tenere questo blog è stato un grande aiuto soprattutto nei primi tempi in cui avevo ancora molto da raccontare su me stessa e su ciò che vedevo e sentivo attorno a me, e devo ammettere che a volte è stato anche una sacrosanta palla al piede ( Come dimenticare le SETTE ORE passate a caricare le maledette foto di Palenque che mi hanno vista fare avanti e indietro tra l’ostello con la connessione più scarsa delle Americhe e la stazione degli autobus dove potevo usufruire di un flebile fiato di wifi che continuava a sconnettersi),ma mi ha dato una grande motivazione nel raccontare questa avventura passo per passo e il più sinceramente e apertamente possibile.
Spero di essere riuscita a comunicare a chiare lettere la mia profonda convinzione che tutti possano e debbano compiere un’esperienza del genere, e non sto parlando di andare in America Latina: parlo di uscire dalla propria zona di conforto, di passeggiare per conto proprio, di esplorare un luogo in cui non siete mai andati che sia in un altro continente o dietro casa, di non avere il timore di stare con se stessi e di ritrovarsi in una situazione sconosciuta e apparentemente fuori dalla vostra portata.
Vi stupirà scoprire quanto siete coriacei.

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