Un anno dopo

Oggi, un anno fa.

Una sera tarda, seduta nel piccolo patio urbano di un ostello nel quartiere di Miraflores, Lima. Situato in una stradina tranquilla che si immette sul Larco, l’arteria che porta dal cuore di Miraflores al lungomare, il patio è immerso in una quiete quasi irreale, incorniciato dal fragore del perenne traffico in lontananza.
Ho appena completato il check-in, mi sono finalmente liberata dello zaino e ripenso alle ultime ore.
La partenza da Venezia, l’attesa al terminal intercontinentale di Madrid.
Il panico mi è salito davvero solo in quel momento, davanti allo schermo che segna l’orario di partenza per il volo diretto a Lima. Mi rendo improvvisamente conto che non e più un piano organizzato unicamente nella mia mente, che non sono più parole e pensieri, ma fatti tangibili.
Ho un mezzo pensiero di mandare tutto all’aria.
Sono ancora in Europa, basta non presentarsi al gate.
Perderò i soldi ma va bene, in fin dei conti sono solo soldi.
Porcaccia la miseria ma cosa mi è saltato in mente.
Io da sola come un pesce lesso in giro per l’America Latina. Per tre mesi e mezzo! Ma chi me l’ha fatta fare? Ah già, mi ci sono messa IO in questo casino.
Volevi cambiare aria. Volevi metterti alla prova. Volevi scoprire nuovi orizzonti. Ma per favore, non potevi prenderti un bel libro? Non potevi, che so, cambiare lavoro? No, ti sei messa in testa di prendere uno zaino in spalla e andare in un altro continente. Brava, in questa gatta da pelare ti ci sei messa tu e nessun’altro.
Per fortuna il volo per Lima viene ritardato di tre ore, tempo extra per assorbire e in qualche modo accettare la situazione.
Con che faccia tornerei indietro? “ No, a Madrid ho preso spavento e ho cancellato tutto”, No, no, non riuscirei più a guardarmi allo specchio. Ormai ho preso questa decisione del cavolo e non c’è niente da fare, ci sono dentro fino al collo. Mi maledico profusamente, mi sale il malumore.
Agli arrivi a Lima, ritirato lo zaino, l’angoscia fa spazio alla paura. Se ci penso ora mi viene da ridere ma giuro che ho passato almeno dieci minuti davanti all’uscita, pietrificata dall’ansia. È calata la sera, mi trovo nell’aeroporto di una delle metropoli più grandi del Sudamerica, situato tra l’altro in uno dei peggiori quartieri, sono sola e ho un enorme zaino sulle spalle che grida “GRINGA AQUI! “ .
Alla fine, mi sono fatta coraggio e ho varcato l’uscita come ci si tuffa in uno specchio d’acqua infestato da coccodrilli.
Il processo si rivela più semplice e immediato di quello che credevo solo pochi minuti prima e in quattro e quattr’otto mi ritrovo seduta in un taxi.
La tensione sbollenta davvero quando riusciamo a scampare dalla confusione della zona adiacente all’aeroporto e imbocchiamo una strada che sbocca sul lungomare.
È notte ma sento il profumo dell’oceano, il rumore delle onde sulla mia destra e osservo le alte scogliere nere che separano la citta dalla costa. Sono ancora agitata ma la voglia di esplorare e visitare un posto sconosciuto improvvisamente attenua la paura.
Arrivo all’ostello prenotato previamente e mi sento come avessi varcato una fortezza, la mia roccaforte protetta in cui mi sento al sicuro da tutti i pericoli che ( mi sono messa in testa ) pullulano al di fuori di queste mura.
Ed eccomi seduta nel patio mentre rifletto su ciò che ho già fatto e sul da farsi.
Per la prima volta, dopo mesi e mesi di progettazione di questo viaggio, ho finalmente trasformato qualcosa in realtà. La porzione di viaggio da casa mia fino a questo patio limeño non è più un pensiero ma una realtà già avvenuta, un ostacolo già sorpassato.
Quando si esce dalla propria zona di conforto è sempre importante accorgersi delle piccole vittorie e appuntarsele addosso come medaglie d’onore. Non c’è carburante migliore di una sana dose di autostima e sicurezza di se stessi ed è ciò che davvero mi ha tenuto a galla per tre mesi e mezzo, soprattutto per i primi tempi.
Oggi, a distanza di un anno esatto da quel momento di riflessione seduta in un patio di Lima, ho un quadro completo di tutta l’esperienza.
Quando ne parlo a chi ha ancora la pazienza di sentirmi blaterare delle mie peripezie latine dico scherzosamente che questi tre mesi e mezzo li ho sentiti davvero come una mini vita all’interno della mia vita, con tutte le sue fasi.
Il Peru è stato la mia infanzia. La prima volta, la scoperta delle basi, dell’ ABC del viaggio da sola. Le prime emozioni, le prime paure, I primi sconforti, le prime frustrazioni, le prime epifanie, le prime gioie e le prime vittorie. Ho affrontato tutto il paese col freno a mano attivato, allentandolo man mano che il tempo passava e le medaglie sul petto si accumulavano.
Il vero e proprio cambiamento forse è maturato con l’arrivo a Cusco dopo qualche giorno a La Paz , in Bolivia.
Sarà che ero ancora molto “verde” e non avevo ancora abbastanza medaglie sul petto per gestire la situazione a livello emotivo, ma a me La Paz ha fatto venire un po’ di traveggole. Una citta che almeno in superficie, beh, “è bell’ a solo a mamma soja” , perenni nuvoloni grigi e tanta povertà perfino nelle vie più centrali della capitale, mi è risultato difficile amare questa città. La cosa peggiore è che il primo giorno mi sono sentita proprio a disagio, perennemente vigilante e impaurita dal mondo circostante. La verità è che già il secondo giorno, avendo speso il giorno prima in avanscoperta e abituandomi pian piano al nuovo paese, già mi sentivo più sicura.

Il meteo pero dava brutto per tutta la settimana seguente e comunque sia non avrei avuto il tempo di esplorare niente al di fuori di La Paz (ossia, la Bolivia che a detta di moltissimi viaggiatori che ho incontrato ha un sacco di tesori da scoprire ) quindi non ho modo di sapere se eventualmente avrei cambiato completamente idea sulla città se le avessi dato il tempo di spiegarsi, di farsi capire.

Sento che la mia visita in Bolivia sia stata così breve e quasi malintesa che quando parlo del mio viaggio quasi non la nomino.
Comunque sia, dopo le insicurezze private a La Paz e un lungo ed estenuante tragitto in autobus della durata di un giorno e mezzo (notte scomoda e semi insonne inclusa) l’arrivo a Cusco è stato una vera boccata d’aria fresca per vari motivi.
Innanzitutto, il centro di Cusco è contenuto e a misura d’uomo, non servono mezzi di trasporto per esplorarlo. Cusco, poi, è una città dal fascino incredibile e dai molti stili di vita, in cui è possibile gustarsi un piatto di udon giapponesi in brodo in un localino all’ultima moda che non stonerebbe a Berlino o a Copenhagen mentre si osservano le donne agghindate in variopinti vestiti tradizionali intente a scorrazzare lama e alpaca su e giù per le pittoresche stradine dalle solide fondamenta costruite ai tempi degli Inca.
Complice un mal di schiena fulminante, una forma di mal d’ altitudine mai totalmente placato, una visita a Machu Picchu che si è rivelata uno strazio da progettare e un ostello in cui mi sono sentita per la prima volta davvero a casa, a Cusco ho passato ben due settimane, il periodo più lungo ferma in un posto durante tutto il viaggio.
Passare un periodo così lungo in una citta permette di andare oltre alla visita e acquisire un senso di come possa essere la quotidianità di un posto. Dopo settimane di cambiamenti continui, trovare un luogo in cui almeno per qualche giorno si possa “fare casa”, darsi al dolce far niente, andare ogni giorno al mercato dalla stessa venditrice di succhi freschi e farsi riconoscere i giorni successivi, questi sono i piccoli grandi lussi che solo un viaggio così lungo può offrire.

Ripensandoci mi risulta quasi incredibile pensare che la maggiorparte dei visitatori passa a Cusco sì e no solo qualche giorno: in due settimane io ho visto solo la metà di quello che mi ero prefissa e ho dovuto lasciar perdere molte cose. Non rimpiango nemmeno un giorno passato a Cusco e l’ho lasciata solo perché qualche giorno dopo avevo un volo in partenza da Lima e avevo ancora voglia di rivisitare la capitale, questa volta dopo cinque settimane on the road e pronta a riesaminarla con la nuova fiducia in me stessa.

A Cusco per la prima volta mi sono ritrovata, per la primissima volta dall’inizio del viaggio, a parlare in passato. Dopo settimane di contatto con decine di viaggiatori tutti intenti a percorrere il proprio itinerario, tutti con settimane se non mesi alle spalle di rocambolesche avventure e esperienze di vita, senza accorgermene mi sono ritrovata a parlare delle mete visitate precedentemente e delle varie avventure capitatemi. Cosi, dal nulla, mi sono accorta che non ero più una novellina totale, che qualcosa l’avevo visto e fatto anche io. Una gran medaglia da appendere al petto.

Il ritorno a Lima (un tragitto in autobus di venti ore che nemmeno il sedile VIP che ho occupato ha reso minimamente confortevole) è stato quasi catartico.
Tornare nel luogo dove tutto è iniziato fa davvero pensare. In cinque settimane niente era cambiato in città, ma molto era cambiato in me.
Mi sono riscoperta più sicura, più a mio agio e più in controllo della situazione. Dopo cinque settimane avevo capito come muovermi, cosa fosse giusto fare e cosa fosse saggio evitare, pensavo in valuta locale senza difficoltà e pure il mio spagnolo era diventato decisamente più sciolto.
La seconda visita a Lima ha confermato il mio fascino per questa città spesso sottovalutata se non saltata in tronco da molti visitatori.
Dite quello che volete, ma una passeggiata lungo la costa dei quartieri di Miraflores e Barranco, osservando il vasto e selvaggio oceano pacifico davanti e le alte scogliere nere che separano il centro urbano, con la sua miriade di persone e mezzi di trasporto, dalle spiagge ciottolose frequentate da stormi di enormi pellicani che volano a pelo d’ acqua e qualche surfista che approfitta delle perenni onde, il tutto incorniciato dalla misteriosa Garua, la nebbia che caratterizza la costa peruviana per gran parte dell’anno, per me è una di quelle esperienze immancabili se si passa da quelle parti.

Per non parlare della favolosa cucina peruviana, che ormai sogno spesso la notte.

Se il Peru ha rappresentato un po’ la mia “infanzia”, la Colombia potrebbe essere stata la mia “adolescenza”. Una nuova sicurezza in me stessa mi ha permesso di gustarmi il viaggio con molta più tranquillità e, almeno sotto certi aspetti, con meno timori. Certo, lo dico col senno di poi perché i primissimi giorni a Bogotá non ero poi cosi rilassata!
In ogni nuovo paese ci si mette sempre un paio di giorni per adattarsi, è sempre saggio non dare niente per scontato e mantenere l’allerta, per non esporsi a pericoli facilmente evitabili.

L’arrivo in Colombia si è rivelato meno traumatico dell’angoscia provata all’aeroporto di Lima cinque settimane addietro. Ormai sembro aver imparato a convivere con lo zaino in spalla che grida “GRINGA AQUI!” a destra e a manca e mi sento più in controllo della situazione.
Il tratto che dall’aeroporto va verso la Candelaria, il quartiere storico che è al contempo il posto dove bazzicano i turisti ma anche dove scorrazza una certa malavita, mostra il lato più moderno e pulito di Bogotá, che potrebbe essere il quartiere d’affari di qualsiasi città europea o nordamericana. Improvvisamente ci si immette in una laterale che si snoda sul dorso di una collina con pochi edifici e molta natura. Ogni tanto si apre uno sprazzo e si ha una visione panoramica dall’alto del centro di Bogotá, tutto grattacieli illuminati e poi una distesa urbana senza apparente fine, il tutto incorniciato dalle fronde rigogliose degli alberi che circondano la strada che si percorre. Uno spettacolo che ho avuto modo di vedere due volte e che vive vivida solo nei miei ricordi perché non sono mai riuscita a fotografarla.
Dopo questo arrivo in pompa magna il taxi entra di nuovo nella zona urbana, ma ben diversa dal quartiere tutto pulito e moderno di prima. Quella prima sera mentre rallentiamo in cerca dell’ostello mi ritrovo a pregare dentro a me stessa “ Fa che non sia questa la via del mio ostello!”.
Il taxi si ferma proprio in quell’istante.
Eccomi a casa….

Dopo una notte di sonno ristoratore nel mio confortevole ostello, la mattina dopo mi preparo per la prima avanscoperta.
Prima di uscire la ragazza alla reception mi introduce a quello che mi sembra ora il leitmotiv di una visita nella Candelaria di Bogotá:

“ Oh sì, ci sono un sacco di cose belle da vedere!
Per favore però quando esci prendi subito la sinistra e vai verso il centro.
No, meglio non andare a destra, qualche casa più in su comincia un quartiere… poco raccomandato.
Ma a sinistra va tutto bene! Pieno di belle cose! Vai a vedere questo questo e questo.
Solo, per favore, quando fai una foto, nascondi subito il cellulare.
Nono figurati, va benissimo fare le foto!
Solo, non farti vedere.
Ma senza paura, non ti preoccupare!
Ma tienitelo nascosto.
Buona visita!!!!”

Nei nove giorni che passero a Bogotá, all’inizio e alla fine della mia permanenza in Colombia, ho capito un fatto valido soprattutto per quanto riguarda il quartiere storico: non è un quartiere pericoloso, anzi, ci si può passeggiare tranquilli.
In certe vie.
Le altre vie è meglio evitarle dopo il tramonto, alcune è meglio evitarle a qualsiasi ora del giorno.
In Colombia e soprattutto a Bogotá sfrutto tantissimo il servizio di Uber, che oltre al trasporto da una parte all’altra della città permette di entrare in contatto con quel popolo meravigliosamente caloroso che sono i colombiani: parlando con i bogotani mi rendo conto che loro la mappa delle vie sicure e quelle meno sicure ce l’hanno stampata in testa, quasi d’istinto sanno dove andare e dove non mettere piede.

In Colombia finirò per passare tre settimane e mezza. La parte del mio itinerario da cui forse mi aspettavo meno (Ma che ho tuttavia deciso di includere perché mi è sempre stata raccomandata caldamente da chiunque ci sia stato) è quello che mi ha stupito di più e quello che mi sento di “sponsorizzare” più insistentemente.
Dico questo perché ho come l’impressione che paesi come il Peru o il Messico siano riconosciuti ( a dovere) come luoghi pieni di fascino e attrattive, senza bisogno di grandi pubblicità ,mentre della Colombia si sente sempre e solo parlare di cose negative se non tragiche: la cocaina, Escobar e tutti gli altri narcotrafficanti, la corruzione, la Farc, i paramilitari, bombe e rapimenti .
Serve sempre qualcuno che ci sia stato per sentir parlare delle tantissime altre cose che risaltano più di tutto agli occhi del visitatore, e in tre mesi e mezzo non ho incontrato NESSUN viaggiatore che abbia messo piede in Colombia che non si sia preso una cotta seria o che non ci si sia innamorato a vita.

Quando penso alla Colombia penso a un paese relativamente piccolo in confronto alla varietà sbalorditiva di paesaggi e climi che contiene.

Nello stesso paese si concentrano realtà come Bogotá, una metropoli di 10 milioni di abitanti arroccata su un altopiano a 2600 metri sul mare e dove fa sempre abbastanza frescolino e piove spesso ( Il resto dei colombiani la chiamano “ la Nevera”, il frigorifero) , Medellin, baciata da perenni temperature da primavera tarda e circondata da una natura che esplode di colori e fertilità in maniera scandalosa e Cartagena, affacciata sul mar dei Caraibi e dal clima fortemente tropicale, tutto palme e umidità al 200%.

La maestosa catena delle Ande, la cui visione in Peru fa perdere la testa anche a chi delle montagne non interessa niente, in Colombia si scinde in ben tre catene con picchi che superano il Monte Bianco senza fatica, e viaggiare da una citta all’altra delle volte implica un sali e scendi estremo in cui il paesaggio cambia da montagnoso a tropicale nel giro di una mezz’ora e l’unico punto in comune sembra essere la perenne sovrabbondanza di natura di una bellezza da cavare gli occhi. E questo è SOLO quello che ho avuto modo di vedere con i miei occhi durante il limitatissimo itinerario che ho seguito da Bogotá a Cartagena via Medellin. Cosi come in Peru, anche in Colombia purtroppo ho dovuto saltare la porzione del paese che si estende in Amazzonia, un ennesimo cambio radicale di clima e paesaggio.
Oltre al fascino naturale incredibile, la Colombia ha anche centri urbani di grande attrattiva come Cartagena, citta dall’importanza storica e dall’architettura indimenticabile, e Salento, il sonnacchioso paesino dai cui limiti cittadini si estendono piantagioni di caffè a perdita d occhio.
A Salento, dove sono stata ospitata in una finca adiacente a una piantagione di caffè e in cui ogni mattina sorseggiavo un intenso caffè mattutino prodotto con i chicchi raccolti l’anno precedente a qualche metro di distanza, ho forse passato i giorni più indimenticabili del mio viaggio.
Come se le meraviglie naturali e architettoniche della Colombia non bastassero, quello che entra davvero nel cuore del viaggiatore, soprattutto se in solitaria e quindi “forzato” a interagire con chi sta attorno, è il calore e la cordialità del popolo colombiano.
Poco avvezzi al turismo di massa che solo recentemente ha fatto capolino nelle loro vite, ma già simpatici di base, in Colombia è difficile non sentirsi a casa. Non c’è stata persona a cui abbia chiesto informazioni e aiuto che non mi abbia assistito affabilmente, ma in nessun altro posto ho sentito il fattore umano cosi come l’ho sentito nella città di cui forse avevo più timore , la famigerata Medellin.
Se nell’immaginario comune Colombia vuol dire droga e guai, l’epicentro di tale mondo è Medellin. Luogo natale del più famoso narcotrafficante della storia, Pablo Escobar, e centro nevralgico delle sue operazioni malavitose, per un buon ventennio Medellin si è classificata regolarmente nella lista delle città più pericolose al mondo, e a buon motivo. Solo negli ultimi anni, dopo la fine del dominio del cartel di Medellin e di numerosi tentativi da parte del governo locale e centrale di ripulire e riqualificare il centro, Medellin può ora accogliere del turismo.
Il risultato è una citta più vivibile, pulita, moderna e con sempre più eventi culturali e d’avanguardia, una vera fenice che sta rinascendo dalle proprie ceneri. Se il turismo è un affare nuovo in quasi tutta la Colombia, per Medellin lo e ancora di più.

Ho avuto la fortuna di viaggiare molto in vita mia ma poche volte mi è capitato di essere in un posto in cui la gente locale si emoziona ancora nel vedere visitatori, ed è il primo luogo in assoluto in cui ho sentito che il mio ruolo di visitatrice ha una diretta influenza nel cambiamento positivo. Il fatto che arrivino turisti a Medellin significa che la città è abbastanza sicura da permettere visite dal di fuori, fa parte delle piccole vittorie di un posto che ha visto tanti orrori e che ora è pronto ad aprirsi al mondo esterno.

Un esempio su tutti la mia visita a un mercato di frutta e verdura locale, fino a pochi anni fa teatro di violenze e ancora prontamente evitato da molti cittadini di Medellin che ne ricordano la fama. Dopo un rastrellamento delle attività criminali e una ripulita radicale ( La nuova stazione di polizia piazzata nel cuore del padiglione aiuta…) hanno completamente trasformato questo mercato, rendendolo decisamente più sicuro e vivibile. I brutti ricordi però non scompaiono facilmente, e nonostante ora sia un posto da visitare senza timori manca ancora la gente locale che abbia il coraggio di farlo. Essere turisti e partecipare a una visita guidata in questo mercato ( in cui ho avuto modo di provare decine di frutti esotici dai sapori incredibili e di entrare in contatto con i lavoratori parlando del più e del meno) da un forte messaggio alla popolazione locale. “Se ci vanno pure i gringos a mangiare la frutta, perché mai dovrei avere paura io?» .
Nonostante certi sprazzi di bellezza, Medellin di per sé non è la città più pittoresca che abbia mai visitato, ma rimane forse uno dei luoghi più carichi di significato in cui il turismo va oltre alla bellezza superficiale, e per questo occuperà sempre un posto speciale nel mio cuore.

Potrei dilungarmi per ore ma questo è il succo di ciò che mi viene in mente quando si parla di questo paese . Colombia uguale Cocaina è limitativo e doloroso quanto dire Italia uguale Mafia.
Di ritorno a Bogotá passo di nuovo per la particolare esperienza di ritornare dove la visita del paese era cominciata, e ho nuovamente modo di tirare le somme. Ormai le medaglie sul petto sono molte, mi sento sicura e in controllo della situazione. L’ultimo giorno ho la possibilità di vedere Bogotá dall’alto in tutta la sua sconfinata estensione e mi balena il pensiero che nel giro di qualche giorno atterrerò in una città che ha il DOPPIO degli abitanti.
Mi sale una punta di ansia.
Lascio la Colombia a malincuore e con la consapevolezza di averne grattato solo la superficie.
Atterro la sera tarda a Città del Messico con l’intenzione di pernottare in un hotel nelle vicinanze per poi prendere l’autobus la mattina dopo in direzione sud, tenendomi la visita della capitale messicana come ultimo atto del mio viaggio.
Su Google sembra tutto così vicino. Il mio hotel sembrava una sistemazione decente, proprio a metà strada tra l’aeroporto e la stazione degli autobus. Non mi aspettavo niente di lussuoso. Ma di certo non potevo predire quello che avrei finito scoprire.
L’ansia di aggirarsi per Città del Messico, la più grande metropoli del mondo e dalla reputazione non del tutto pacifica, si trasforma in una fitta al cuore quando il taxi entra in un quartiere da far venire la pelle d’oca e ti molla a destinazione e nel giro di pochi minuti scopri di aver prenotato in un motel “ per innamorati”. La fitta al cuore si trasforma in pura paura quando finalmente, al riparo dal mondo esterno e sotto le coperte, si sente una coppietta di “ innamorati” che si accingono ad entrare nella tua camera.
Diciamo che la mia prima impressione di Città del Messico non è stata delle più positive.
Per fortuna la meta successiva mi ha fatto tornare la fiducia verso il Messico, la terza e ultima parte del mio viaggio, un po il raggiungimento “dell’età adulta” rispetto alla minivita che questo viaggio ha rappresentato, la fase in cui finalmente ho capito come funziono e ho piu controllo delle cose attorno a me.
Durante la pianificazione di questo viaggio uno dei perni da cui tutto è dipeso era l’opportunità di trovarmi a Oaxaca durante le celebrazioni del Dia de los Muertos, di cui questa città è famosa. Finisco per passare cinque giorni in questo bel luogo e, dopo aver quasi fallito la missione che mi ero preposta, mi ritrovo finalmente a mezzanotte in un cimitero messicano pieno zeppo di persone , teschi decorati , candele accese e bande di mariachi dalle languide melodie.
Mi spingo più a sud e entro geograficamente e culturalmente in Centro America. San Cristobal de las Casas e lo stato del Chiapas, specialmente ora col senno di poi e dopo aver visto altre zone del Messico mi rendo conto di quanto sia diverso rispetto al resto del paese.

Altri viaggiatori mi hanno parlato molto bene di San Cristobal e si, è una cittadina molto gradevole, ma forse dopo tre mesi di architettura coloniale spagnola comincio ad averne abbastanza e non riesco più a gustarmela come fosse la prima volta. Qui prendo la decisione, un po’ all’ultimo minuto, di spingermi un po’ più a sud e includere il Guatemala nel mio itinerario, prenotando un volo che da Città del Guatemala mi riporterà poi a Città del Messico.

Dopo un ultima visita nel sud del Messico alle meravigliose rovine di Palenque affronto l’ultimo grande timore del mio piano di viaggio : passare la frontiera tra Messico e Guatemala in un tratto del confine abbastanza remoto e immerso nella giungla.

Finora ho attraversato le frontiere solo via aereo (Peru-Colombia e Colombia-Messico) o all’interno di un gruppo con una guida al seguito ( Peru-Bolivia) e mi chiedo se sono una viaggiatrice abbastanza esperta da attraversare il confine cosi, per conto mio.

Fino alla sera prima ero piena di insicurezze e tensioni, che in qualche maniera vanno dissipandosi la mattina dopo nello scoprire che durante la notte avevo sviluppato una febbre da cavallo. La mia preoccupazione passa dal riuscire a fare bene le cose al sopravvivere alla giornata a qualsiasi costo, e in uno stato confuso e semi narcolettico non solo riesco a cavarmela alla frontiera ma sopravvivo anche al tratto di strada che va dal confine guatemalteco alla citta di Flores, tre ore in un autobus arrugginito e senza l’ombra di sospensioni sfrecciando a tutta birra su una strada bianca costellata di buche-crateri e sassi-macigni. Schiacciando pure un bel pisolino.
Fino ad ora la visita in Messico si è rivelata piena di luoghi meravigliosi da visitare ma è come se mancasse qualcosa.

Penso sia un misto di fattori, tra cui l’ amore scoppiato per la Colombia e quella sua mancanza di turismo di massa ( In Messico sono tornata ad essere la gringa da cui mungere fino all’ultimo dollaro e le “attenzioni maschili” sono diventate ancora più decise che nei precedenti paesi) e il fatto che ormai viaggio da tre mesi e comincia a mancare un po’ il comfort di casa. Sarei curiosa di vedere cosa avrei pensato del Messico se fosse stata la prima meta del mio itinerario, cosi come mi piacerebbe vedere come avrei affrontato il Peru con tre mesi di “ esperienza” alle spalle.
Per queste ragioni il Guatemala si rivela una boccata d’aria fresca.
Un paese dalle persone cordiali e dalle dimensioni geografiche più contenute che permettono spostamenti più facili. Scopro inoltre che c’è molto da vedere e da vivere, e riesco a visitare quasi tutte le mete principali consigliate nel paese.

A Flores pernotto in uno degli ostelli più suggestivi del viaggio, situato fuori mano e che per essere raggiunto richiede una breve traversata del lago in barca che rivela tutto il fascino della zona, e visito le maestose rovine di Tikal che mi gusto nonostante l’umidità elevata e le nuvole di zanzare.
Ad Antigua mi meraviglio davanti ai vulcani circostanti che fumano e all’architettura locale ( nonostante sia l’ennesimo centro coloniale spagnolo, riesce comunque a impressionarmi), osservo i variopinti costumi delle guatemalteche e visito una piantagione di caffe e infine al lago di Atitlan dove rimango a bocca aperta davanti ad altri vulcani attivi e agli scorci che danno sullo specchio d’acqua ( Cercando però di ignorare l’inquinamento e la massa di turismo cosi distaccata dalla popolazione locale) .
Di ritorno in Messico, prima di concentrarmi sulla capitale, decido di prendermela con calma e visitare altre città che la circondano. Rimango folgorata da Guanajuato e da Puebla, due bellissimi centri che potrebbero benissimo trovarsi in Spagna, e San Miguel de Allende, ugualmente graziosa ma leggermente troppo turistica a mio dire. Concludo in grande il viaggio dandomi una settimana intera a Città del Messico, avendo il sentore che sarebbe tempo ben speso, e infatti non mi sbaglio: rimane forse una delle mie mete preferite di questo viaggio e nonostante i sette giorni dedicati non sono riuscita a vedere tutto quello che mi ero prefissa. Rimando dell’opinione che Città del Messico vale un viaggio.
È arduo tirare le somme di un viaggio del genere, ci sarebbero molte cose da dire e c’èsempre qualcosa che si dimentica di aggiungere.
Il ritorno alla realtà e stato molto graduale perché sono tornata in concomitanza delle vacanze di Natale che, da disoccupata con qualche soldino ancora in tasca, ho potuto trascorrere gironzolando ancora un po’. Dopo una breve visita in Italia ho passato una settimana a Lubiana, ospite di vecchi amici, e sono tornata davvero alla realtà quotidiana a inizio gennaio, un mese dopo il mio ritorno.
I primi tempi si prova sempre piacere nel tornare nel proprio nido: non mi mancano i mille letti dai vari gradi di (s)comodità e i dormitori col tizio che russa e che nessun tappo per le orecchie può annientare, non mi mancano le docce col getto d acqua riscaldato via elettricità e le tante docce gelate, mi piace poter bere di nuovo dal rubinetto e poter buttare la carta igienica nel gabinetto senza il terrore di aver intasato le tubature per sempre e non mi mancano i gabinetti degli autobus dove “ Solo numero 1, por favor no se puede hacer el numero 2 ”. Il mio stomaco ringrazia per le scorpacciate di certi cibi che non dimenticherò mai in vita mia e che probabilmente non riuscirò mai più ad assaporare (con mio grande dolore), ma ringrazia anche per essere tornato a del cibo più semplice che non complichi la sua digestione. Non mi mancano i mille ritardi dei trasporti e un concetto di tempo, di presto e tardi, di puntualità, estremamente flessibili, ma mi manca potermi rivolgere a uno sconosciuto senza ricevere un’occhiata imbarazzata ( Nota: vivo ancora in Scandinavia). NON mi manca il bisogno di certi rappresentanti del genere maschile di farti sapere cosa pensano del tuo aspetto fisico, delle attenzioni non richieste. Non mi manca dire NO GRACIAS per cinque o sei volte di seguito dopo avermi fatto vedere i souvenir in vendita per l’ennesima volta. Non mi manca pagare certe cose con quella che chiamo la “ tassa da gringo “ , quel classico sovrapprezzo che ci viene sempre richiesto di pagare e che se fossi del luogo pagheresti quello che davvero vale.
Però mancano molte altre cose. La visione di certi paesaggi o attrazioni, imparare una nuova parola, scoprire nuove usanze, assistere a qualcosa di insolito e mai visto prima, adattarsi alle abitudini del paese, provare un piatto mai mangiato, un frutto sconosciuto o uno già provato in Europa ma mangiarlo ora maturo e delizioso cosi come ha da essere, passare ore in un museo o aspettare il momento giusto per lo scatto perfetto perché tanto sono sola e col tempo ci faccio quello che voglio senza dover rendere conto a nessuno. E manca appuntarsi quelle piccole medaglie al petto.

Ogni tanto mi pento di non aver visto di più, soprattutto ora che mi trovo a un volo intercontinentale di distanza da tutti quei luoghi e chissà quando e se ci tornerò mai più.
Il più delle volte però quasi mi pento di aver visto così tanto. Ho avuto la fortuna di scegliere tre zone (se non quattro) dell’America Latina incredibilmente ricche di storia e natura, molto diverse e ognuna di esse degne di tre mesi a testa. Avrei voluto più tempo di vedere certe cose, di completare la visita di quelle zone senza tralasciare niente, senza pero aver cambiato il ritmo e le mete che ho effettivamente visto.
In Peru avrei voluto vedere la Cordillera Bianca, le rovine di Chan Chan, e esplorare l’area Amazzonica. In Guatemala avrei volute avere altre tre o quattro settimane a disposizione per spingermi più a sud, soprattutto verso El Salvador, Nicaragua e Panama, o aver avuto qualche giorno in più per visitare una piantagione di cacao in Belize. In Messico avrei voluto andare in Yucatan solo per mangiare, e avrei voluto avere più tempo per Città del Messico e in genere per la zona centrale, piena di meraviglie da esplorare. Avrei voluto prendere un aereo e andare a Cuba. In Colombia e in Bolivia avrei voluto…vedere tutto, di più!!!
Certe cose sono cambiate, altre probabilmente no. Come al solito, le bacchette magiche non esistono. Sento di avere acquisito un po’ più di elasticità e ho una capacita maggiore di non stressarmi troppo prima del dovuto, nonostante il mio istinto primordiale sarebbe di entrare subito in panico. Una delle lezioni più importanti che ho imparato e assolutamente questa, che non posso fasciarmi la testa prima del tempo.
L’ho capito già dalla prima settimana del viaggio, durante i primi momenti di sconforto. C’erano molte cose che mi frullavano per la testa, facevo difficoltà a gestire il presente in cui mi sentivo ancora troppo principiante e come se non bastasse avevo altri tre mesi davanti. Un po’ come trovarsi fuori forma e con un elefante in groppa davanti a una montagna, con l’obiettivo di arrivare in cima.
Si entra un po’ in modalità di sopravvivenza.
A casa non ci puoi tornare( o resta comunque molto complicato, tanto come risolvere la situazione corrente) e cercare di ingoiare tutto il problemone, ossia tre mesi di viaggio, decine di destinazioni, centinaia di problemi e inconvenienti, è davvero troppo anche per la persona più ansiosa del mondo. Rimane quindi un’unica cosa da fare, ed e quella di non preoccuparsi eccessivamente prima di trovarsi davanti alla situazione e dare invece priorità a ciò che incombe, ciò che va risolto nel giro di qualche giorno o qualche ora. Passo per passo, senza fasciarsi la testa per quello che non può essere ancora risolto.

Un viaggio in solitaria, come tutte le cose nella vita, ha tanti lati positivi quanto negativi. Muoversi secondo i propri ritmi senza dover tenere conto di nessuno, senza dover compiacere nessun compagno di viaggio e senza dover scendere a compromessi da una sensazione di libertà difficile da sostituire e permette di scoprire un luogo sotto tutta un’altra luce. Una delle rivelazioni piu belle della solitaria e che anche l’orso più riservato della foresta finisce per rivelarsi il primate più basico di tutti, ossia una creatura che prospera nella compagnia di altri primati. Deve succedere qualcosa all’interno del nostro cervello ma dopo giorni passati senza entrare in contatto con altre persone, senza una chiacchiera di rilievo, senza una risata, senza uno scambio di idee, a un certo punto qualcosa si innesca e cominciamo a riversare parole come un fiume in piena. L’iniziale timidezza e riservatezza durano poco quando giorno dopo giorno si incontrano nuove persone, si cambia dormitorio, si prende l ennesimo bus, cosi frequentemente che ci si dimentica quando e iniziato e quando finirà. Quanti scambi di parole, di pensieri e di idee ho avuto con altri viaggiatori in solitaria, senza mai dir loro Ciao ne Addio . Devo ammettere che ho avuto una piccola difficoltà a tornare alla vita normale, dove prima di entrare nei dettagli ci si conosce un pochino prima. Mi sono accorta che senza controllarmi mi veniva quasi spontaneo aprirmi a chiunque e raccontare i cavoli miei ai quattro venti.

La maggiorparte dei lati negativi del viaggio in solitaria sono piccoli e quasi trascurabili se confrontati con i vantaggi. Un ragazzo inglese con cui mi sono ritrovata quasi forzata a cenare assieme a Aguas Calientes ( Machu Picchu) e che veniva da un mese in solitaria in Brasile e che si stava ancora ambientando alla modalità di viaggio mi ha raccontato che poneva spesso la stessa domanda ai viaggiatori in solitaria che incontrava: qual’è il momento in cui ti accorgi di essere solo? Da allora ho cominciato anche io a chiedere la stessa domanda a qualche viaggiatore e ho ricevuto varie risposte interessanti che riassumerei come quei piccoli lati negativi di cui parlavo.
Ci si può sentire da soli davanti a grandi attrazioni ( Finalmente davanti alla maestosa Machu Picchu!… Contornato da coppie di innamorati, di amici, di famiglie, tutti intenti a godersi l’esperienza unica di una vista cosi famosa e a creare un ricordo in comune… “ Quella volta a Machu Picchu! Ti ricordi!”), quando ci si vuole immortalare in una foto ma non si ha il coraggio di chiedere a chi ci circonda, quando si è in stazione degli autobus con il mega zaino e serve andare in bagno e non c’è nessuno a cui lasciare i propri preziosi averi…..Un viaggiatore americano a cui avevo posto la stessa domanda gli ultimi giorni della mia permanenza in Messico diceva che non gli veniva in mente niente e tre settimane dopo, mentre intanto io ero tornata in Europa e lui era finito in Honduras, mi manda una foto in cui si vedono due biglietti del cinema e il laconico commento “ …Quando vinci due biglietti ma non hai nessuno amico da invitare”.
Forse l’unico lato negativo è appunto che non c’è nessuno con cui condividere l’esatto momento, l’ esatta sensazione, nessuno con cui perpetrare il ricordo. Prima di questo viaggio questo per me era il timore più grande.
Con il senno di poi, a esperienza fatta, per niente al mondo rinuncerei a ciò che ho visto e fatto o alla libertà che ho sentito gestendomi secondo il mio ritmo e i miei interessi. Quello di non poter condividere i ricordi appieno è il piccolo prezzo da pagare.
Per fortuna io ho ovviato un po’ il problema grazie a voi, a chi mi ha letto e mi ha tenuto compagnia, che sia stata una sola volta, più volte o tutte le volte.
Tenere questo blog è stato un grande aiuto soprattutto nei primi tempi in cui avevo ancora molto da raccontare su me stessa e su ciò che vedevo e sentivo attorno a me, e devo ammettere che a volte è stato anche una sacrosanta palla al piede ( Come dimenticare le SETTE ORE passate a caricare le maledette foto di Palenque che mi hanno vista fare avanti e indietro tra l’ostello con la connessione più scarsa delle Americhe e la stazione degli autobus dove potevo usufruire di un flebile fiato di wifi che continuava a sconnettersi),ma mi ha dato una grande motivazione nel raccontare questa avventura passo per passo e il più sinceramente e apertamente possibile.
Spero di essere riuscita a comunicare a chiare lettere la mia profonda convinzione che tutti possano e debbano compiere un’esperienza del genere, e non sto parlando di andare in America Latina: parlo di uscire dalla propria zona di conforto, di passeggiare per conto proprio, di esplorare un luogo in cui non siete mai andati che sia in un altro continente o dietro casa, di non avere il timore di stare con se stessi e di ritrovarsi in una situazione sconosciuta e apparentemente fuori dalla vostra portata.
Vi stupirà scoprire quanto siete coriacei.

Una conclusione che non è una conclusione

È finita anche la Giorgia in edizione America Latina.

Il rientro è avvenuto, il jet-lag è stato smaltito e ricomincia la vita quotidiana

Si conclude così un lungo viaggio che mi ha portata in vari posti e mi ha vista compiere diverse esperienze.

Non sono mai stata brava a scrivere le conclusioni, d’altronde forse una vera conclusione non c’è, forse è tutto un susseguirsi di capitoli e questo è stato semplicemente un’altro capitolo della mia vita.

Ho imparato qualcosa di nuovo? Sono cambiata? Sento che è ancora presto per tirare le somme, ci sono ancora troppo dentro e dovrò far passare del tempo per capire cos’è rimasto.

Su certe cose però non ho dubbi.

Ho imparato a vivere un po’ più alla giornata. Meno piani, soprattutto per le cose che non posso prevedere o pianificare previamente.

Ho capito di avere 30 anni. Niente tragedie, ma se fino a pochi mesi fa non capivo come fossi improvvisamente stata catapultata verso i trenta così, in quello che mi sembrava un battibaleno, durante questi tre mesi ho avuto modo di confrontarmi con persone più giovani di me e ho notato che c’è una differenza tra me e loro. Siamo in punti diversi della vita, abbiamo priorità diverse… e mi sono riscoperta a parlare di cose viste e fatte, un accenno di “bagaglio di esperienza passata” che comincia inesorabilmente a formarsi.

Mi sono scoperta più organizzata, più allerta, sicuramente più forte. Starà al tempo vedere se manterrò questi tratti anche nel futuro.

Vorrei aggiungere che questo viaggio è stato anche un’importante memento di cosa vuol dire essere donna in giro per il mondo.

Dopo 4 anni passati in un paese in cui l’uguaglianza tra i sessi è implementata in maniera decisamente migliore rispetto al resto del mondo, mi è stato utile tornare a mettere il naso fuori. Utile, ma mi ha fatto anche arrabbiare. Arrabbiare perché mi sono ricordata che la lotta continua, perché una viaggiatrice in solitaria che è donna incontra sempre più problematiche del viaggiatore uomo, si deve sempre porre più domande, delle volte deve perfino rinunciare a certe cose pur di preservare la propria sicurezza.

Il viaggiatore uomo viaggia e teme di diventare un bersaglio in quanto gringo. La donna viaggia con due mirino addosso, quello che la rende potenzialmente vittima in quanto gringa e in quanto donna.

Torno alla vita normale, sperando di aver accresciuto il mio bagaglio culturale e personale.

Ringrazio tutti voi che mi avete letto con tanta costanza, che siete entrati in contatto con me e che mi avete dato la motivazione di raccontare il mio viaggio.

Ci sentiamo in futuro, magari quando intraprenderò un’altra avvventura 🙂

CDMX parte 5: parentesi fuori città a Teotihuacán

Dopo la giornata di ieri, alla scoperta del passato messicano, non mi resta che approfittare del fatto che sia a Città del Messico per andare a visitare il sito archeologico più famoso vicino alla città.

Arrivo al sito di Teotihuacan e ho immediatamente modo di capirne L’enormità. Pensare poi che è stata riscoperta solo una piccola parte dell’antica città fa veramente effetto.

Appollaiati sulle scalinate e a spasso per le antiche piazze ci sono molti venditori di souvenir, uno più energetico dell’altro.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sono tre mesi e mezzo che fendo gli approcci insistenti di ogni tipo di venditore e davvero, la pazienza è arrivata al limite.

Il venditore di souvenir latino è uno che non demorde.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
Se dico No Gracias alle collanine di finta giada, può essere che mi interessi comprare uno dei poster con il calendario azteco così me lo propongono. Io rispondo di nuovo No Gracias ma metti che potrebbe interessarmi una magnifica testina di giaguaro che, se ci soffi dentro, produce un gradevolissimo ruggito da felino?

Eh NO Gracias, porca miseria.

E va bene, ma se poi te ne andassi senza aver dato un’occhiata a questo sublime sombrero con scritto Mexico sulla fronte??

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Visito il primo complesso su cui stanno lavorando degli archeologi.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Incredibilmente questo edificio, a differenza degli altri attorno, conserva le decorazioni di pietra che adornavano le pareti di tutti questi mura.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lascio vagare l’immaginazione figurandomi il tempio nella sua epoca di auge, quando era interamente dipinti di blu e gli occhi delle figure animalesche avevano le cavità oculari decorare con l’ossidiana.

Torno a scendere le scale della piattaforma e scappo da altri venditori.

No Gracias.

Imbocco un lungo rettilineo che continua in direzione delle due piramidi principali, quella del Sole e quella della Luna.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La strada in questione viene chiamata Via dei Morti,

-Compañera, mire lo que tengo!

-No Gracias

e all’epoca di Teotihuacán dev’essere stata una vista incomparabile sulla grandezza di questa città, la più importante del Centro America ai suoi tempi.

Viene chiamata Via de Morti dagli Aztechi, che

-Amiga buenos días! Mire aqui!

-No Gracias

veneravano questo luogo e qui venivano in pellegrinaggio. Essi credevano che a Teotihuacán si fossero sacrificati gli dei per dare i natali al Sole durante la quinta era, la loro. Rimane tutt’ora un’importante di pellegrinaggi durante l’equinozio di primavera da parte di

-Señorita …! mi…

-No Gracias

persone che credono che in quei giorni qui si concentri una potente energia.

Pensatevi che quando ci venivano gli Aztechi, queste strutture avevano già 1300 anni! Esse furono abbandonate molto tempo prima e rimanevano un grande mistero per le popolazioni venute dopo, Aztechi inclusi. Il nome Teotihuacán venne dato alla città da questi ultimi, dato che

-Amiga! M….

-No Gracias

nessuno sa come si chiamasse.

Procedo lungo la via dei morti e pian piano arrivo sempre più vicino alla Piramide del Sole.

Incredibile a pensarsi ma sono davanti alla terza piramide più alta del mondo, sorpassata solo dalla

-ñorita, aquí!

piramide di Cheope e quella di Cholula.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Comincia la scalata.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il vento si è scatenato, o forse è perché sto salendo le gradinate di una piramide. Sento che potrei volare via. Per fortuna sono tre mesi che mangio come un porcello e, grazie a questo, mi sento salda al terreno, come un macigno.

Continuo la scalata.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mi fermo per riprendere il fiato e ne approfitto per aprire l’app che ho sul cellulare che misura l’altitudine. Voglio disperatamente dare la colpa del mio fiatone all’altitudine ma sono solo 2300 metri sopra il livello del mare, troppo presto cioè per incolpare il mal di montagna.

La scalinata è ripida come nel tipico stile delle costruzioni antiche. Ogni volta rifletto sugli incredibili passi avanti fatti dall’essere umano ora che abbiamo scale a misura d’uomo e non di elefante.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Due corrimani fissati in mezzo separano chi sale da chi scende, impossibile non notare un’espressione di soddisfazione, di esploratori navigati, nel viso dei ritornati.

Col fiatone conquisto finalmente la vetta da cui si gode una gran bella vista.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Cerco di immaginare il tempio riccamente decorato che un tempo dominava la vetta di questa piramide nonchè i toni rossi fuoco con cui era colorata tutta la piramide, che doveva essere proprio uno spettacolo ai suoi tempi.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La cima della piramide che una volta serviva al culto degli dei è ora un’enorme piattaforma da selfie. Faccio slalom fra coppie che si fanno una foto e persone che si filmano mentre parlano di quanto di stanno divertendo a Teotihuacan.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Provo anche io a far parte della moda ma il vento mi rovina qualsiasi tentativo.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Comincio la discesa facendo attenzione a dove metto i piedi per evitare di rotolare giù.

Mentre uso il corrimano mi viene in mente la mia visita a Chichen Itzá quasi 11 anni fa, quando con la mia famiglia ho avuto la fortuna di visitare lo Yucatán. Pensate che siamo stati tra gli ultimi visitatori ad essere ammessi sulle scalinate e sulla sommità della piramide: qualche giorno dopo una turista americana è rotolata giù e da allora la piramide ha chiuso l’accesso alla sua vetta.

Ritorno a terra e vengo assalita da uno sciame di venditori, sia mai che desideri qualche souvenir Made in china!

Qualche No Gracias dopo cammino ancora un po’ per la lunga piazza, il vento soffia forte e alza la sabbia tutt’attorno creando tempeste da deserto, suggestive ma irritanti.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Con Teotihuacán concludo i miei “ must” a Città del Messico , tutte le cose che volevo assolutamente fare una volta arrivata. Sono soddisfatta e credo proprio che una visita a Città del Messico valga altamente la pena viste le tante cose da fare.

Teotihuacánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Prendo il resto della giornata per rilassarmi un po’ , dopo questi ultimi quattro giorni passati a rimbalzare qua e là mi serve davvero staccare un po’ la spina!

CDMX parte 4: Brevissima storia del Messico pre-ispanico al Museo Nazionale di Antropologia

Il piano di oggi è andare a Teotihuacán. O almeno così pensavo.

Mi sveglio a fatica e poltrisco a letto anche se cerco di non riaddormentarmi. Alla fine mi alzo dal letto come una mummia tornata in vita, mi vesto e vado a fare colazione. Sfoglio la guida per capire come arrivare, cosa fare e… non ho le energie.

Decido di rimandare Teotihuacán a domani e oggi mi concentro su un’altra delle mie mete obbligatorie a Città del Messico: il museo nazionale di Antropologia.

Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
Vi avverto che se siete stufi di sentir parlare di musei e di storia è meglio che vi fermiate qua. La visita al museo mi ha gasata non poco e ci ho speso ben cinque fittissime ore, senza vederlo tutto. Ho scritto meta di questo articolo a fresco, direttamente nel museo, quindi è pieno di fatti e particolari storici che appunto, se non sono la “ vostra tazza di the” , come direbbero gli inglesi, meglio chiudere la pagina!

Innanzitutto il museo. Una bella struttura moderna inaugurata negli anni ‘60 e ubicata a lato del grande parco di Chapultepec e che costeggia i quartieri “ bene” di Città del Messico, Polanco e La Condesa.

Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

L’intento del museo è di presentare in maniera esaustiva la lunga e complessa storia delle persone che abitano questa parte della terra fin dalla notte dei tempi.

Le sale si susseguono non tanto in ordine cronologico quando geografico.

Si inizia con la storia del Messico centrale, a cui ovviamente una città come Città del Messico, situata in mezzo a questa zona, sta appunto a cuore.

Le società mesoamericane cominciano a sorgere principalmente nell’altopiano centrale messicano, attorno all’odierna Città del Messico, e nelle zone limitrofe. Un’economia mista di agricoltura e caccia permette il sostentamento di vari gruppi che si stabiliscono permanentemente nel territorio.

Tra le prime popolazioni complesse della Mesoamerica nel cosiddetto periodo Preclassico o Formativo ( 2300 AC – 100 DC) di particolare importanza sono gli Olmechi, una civilizzazione sorta nel sud dello stato di Veracruz e nel nord del Tabasco.

Olmechi, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
La contribuzione più importante degli Olmechi alla cultura mesoamericana fu quella di aver creato un network di scambi commerciali tra vari popoli mesoamericani: il loro territorio non riusciva a produrre tutto ciò di cui avevano bisogno e da qui l’ “ invenzione” del commercio. Gli Olmechi diventano il centro di un fitto scambio di beni tra società mesoamericane e, oltre ai prodotti, viaggiano anche le idee, le culture e varie tecniche artistiche.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Olmechi, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Le società mesoamericane si sono stabilite e il surplus della produzione agricola crea benessere. Col benessere arriva la possibilità di concentrarsi nelle arti e nella spiritualità, e presto si necessitano luoghi di culto.

La nascita dell’architettura è strettamente legata alla religione dato che gli edifici più importanti sono sempre tempi e luoghi di culto dedicati ai tanti dei, che nel passaggio di idee da cultura a cultura sono quasi sempre gli stessi da popolo a popolo.

Più passa il tempo e più la creatività umana sviluppa un’architettura sempre più complessa e le tecniche decorative si fanno sempre più raffinate. Uno dei centri religiosi più antichi e appartenenti a questo periodo è la piramide di Cholula, di cui ho parlato qualche articolo fa.

E poi arriva Teotihuacán.

Comincia come una piccola società , come tutte le altre ma verso il primo secolo dopo Cristo un gruppo sostanzioso di persone converge nello stesso punto, rendendosi quindi necessaria la costruzione di una città.

Teotihuacán, Museo nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Grazie a una nutrita manodopera i capi di Teotihuacán cominciano la costruzione del centro abitato, completo di imponenti templi ( la Piramide del Sole, che tutt’ora domina il sito archeologico di Teotihuacán, è la più grande piramide del mondo dopo la piramide di Cheope e quella di Cholula) .

Teotihuacán, Museo nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

A Teotihuacán nasce una società sempre più complessa: la classe dominante elabora un sistema economico e urbanistico decisamente più avanzato rispetto a qualsiasi cosa che si fosse vista in Mesoamerica fino ad ora.

Teotihuacán, Museo nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Teotihuacán, Museo nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La città-stato diventa presto il centro più influente e importante di tutto il Centro America nell’epoca Classica, commercia con tutti e tutti commerciano con Teotihuacán. Sono stati rinvenute prove del suo commercio e influenza in zone molto lontane dal territorio della Valle centrale messicana, essi erano in contatto regolare perfino con l’importante città Maya di Tikal, nell’odierno Guatemala.

Teotihuacán, Museo nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il prestigio di Teotihuacán attira immigrati da tutte le regioni circostanti e viene a crearsi una società variegata e complessa dove lo scambio di idee e il plasmarci di culture è all’ordine del giorno.

Teotihuacán, Museo nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Dopo un lungo periodo di prosperità, Teotihuacán collassa nel 750 dopo Cristo. Le ragioni non sono totalmente chiare: conflitti tra culture diverse? Sovrappopolazione? Di sicuro la fine di Teotihuacan ha cause umane e non naturali.

Teotihuacán soccombe a se stessa, ma la sua influenza come prima e vera civiltà unificatrice sarà sentita da tutte le popolazioni che li seguiranno, inclusi gli Aztechi che ne veneravano le rovine e organizzavano regolari pellegrinaggi.

Caduta Teotihuacán i suoi abitanti si disperdono nelle zone limitrofe: comincia il periodo Epiclassico ( 600dc-900dc), e il Postclassico ( 900dc-1521dc) .

L’Epiclassico nella zona del Messico centrale vede nascere nuove città, tutte intente a essere più potente dell’altra e a dominare le famose vie di commercio stabilite da Teotihuacán.

Di particolare importanza in questa zona fu la città di Cacaxtla-Xochicalco.

Cacaxtla-Xochicalco, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La conseguenza di questi scontri è un periodo di grande tensione, di lotte per il potere, di instabilità politica. Sempre più importante diventa il lato militaristico di queste società, e le città-stato sembrano sempre più a insepugnabili fortezze.

All’inizio del Post-classico sorge la società più potente, che riesce ad imporsi sugli altri grazie alla sua egemonia militare: i Toltechi.

Toltechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Toltechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Secoli dopo gli Aztechi utilizzeranno la storia di questo popolo come legittimazione del loro Impero basato sul l’idea di essere i loro “ diretti discendenti”, anche se non esistono prove del collegamento diretto tra Toltechi e Aztechi.

La capitale dei Toltechi, Tula, si trasformò in un centro importantissimo e anche loro continuano l’antica tradizione di scambio e commercio tra i popoli.

Toltechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Toltechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Come tutte le civiltà di questo mondo, però, anche i Toltechi entrarono in una fase di declino per poi scomparire nel nulla.

La popolazione si disperde di nuovo lungo l’altipiano centrale del Messico. A questo punto ormai sono tutti legati da idee comuni tra deità, miti e culti religiosi. I regni sorti in questo periodo post-Toltechi e Tardo Post-Classico formarono le loro identità attraverso stili artistici che utilizzavano lo stesso linguaggio visuale. Importanti furono le società di Culhuacan e Tenayuca, a cui fanno seguito una serie di gruppi di lingua Nahuatl ( Xochimilca, Tlaxcaltechi e altri) che cominciano un pellegrinaggio per l’altopiano a causa di una profezia che li mandava alla ricerca della loro terra promessa.

Una delle caratteristiche più importanti di queste società è l’importanza del militarismo in tutti gli aspetti della vita: gli dei principali erano promotori di conquiste militari, le cerimonie più importanti erano legate alla cattura di prigionieri e il sacrificio umano era di vitale importanza.

La loro struttura sociale si concentrava su gerarchie militari, più onore militare si dimostrava e più si saliva in alto.

Questo è lo sfondo su cui nascono i Mexica, chiamati anche Aztechi o Tenochca. La profezia per la terra promessa, che diceva che si sarebbe ubicata dove sarebbe stata avvistata un’aquila intenta a divorare in serpente appollaiata su un cactus, sembra essere stata incontrata dai Mexica che avvistano appunto tale visione su un isolotto nel lago di Texcoco.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La città di Tenochtitlán viene fondata nel 1325 DC e, guerrafondai com’erano gli Aztechi, si ritrovarono presto in conflitto con i vicini.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tra alleanze, scontri e vittorie militari gli Aztechi si impongono nello spazio di soli 200 anni come la forza egemone , militarmente e culturalmente, su tutta la Mesoamerica.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La sala dedicata agli Aztechi occupa la zona centrale del Museo di Antropologia di Città del Messico, sia per l’importanza di questo popolo per il paese e soprattutto per l’odierna capitale che fu costruita dalle ceneri dell’antica Tenochtitlán.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ed è una sala da cavare gli occhi.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Come dicevamo, la guerra e il valore militare erano la grande passione degli Aztechi.

Questa per esempio è una pietra sacrificale utilizzata nel sacrificio dei gladiatori.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il malcapitato veniva scelto e provvisto di armi fantoccio e legato a questa pesante pietra. In chiara posizione di svantaggio, egli doveva lottare contro guerrieri armati fino ai denti. Ferita la vittima ma ancora in vita i guerrieri procedevano a strapparne il cuore, il quale veniva posto assieme al sangue dentro a recipienti da offrire al dio del Sole e della Terra.

Questa poi era la Techcatl, la pietra situata sulla sommità delle piramidi di fronte alle statue degli dei e utilizzata come base per il sacrificio umano.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La vittima veniva posta a pancia in su in maniera che il petto risaltasse e si facilitasse l’estrazione del cuore ancora pulsante dalla vittima.

La scultura più emblematica degli Aztechi fu scoperta nel 1790 a Città del Messico. Essa aveva la funzione di altare sacrificale che non fu mai concluso a causa di una profonda crepa dietro al lato decorato.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Gli Aztechi e Tenochtitlán cadranno a causa dell’intervento spagnolo e nonostante fossero nel loro periodo di maggior potere e sviluppo.

Aztechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Questa , a grandissimi linee e tralasciando molti particolari e una miriade di popolazioni importanti che abitarono qui, fu la storia preispanica dell’altopiano centrale messicano.

Civiltà complesse però non fiorirono solo in questa zona.

Un’altra zona di grande importanza per la storia messicana è quella di Oaxaca e zone limitrofe.

In essa abitavano le cosiddette “ genti delle nuvole” e si attesta la presenza umana in questa zona già dal 10.000 AC.

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Le culture oaxaqueñe di maggior spicco furono i Zapotechi e i Mixtechi.

I Zapotechi furono i responsabili per la costruzione del sito di Monte Alban, una delle più belle città preispaniche, e occuparono la zona dell’Istmo messicano dal 1500 AC fino al 1521 DC.

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Zapotechi, Museo Nazionale di Antropologia, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I Mixtechi controllarono la zona di Oaxaca a partire dall’800 DC dalla loro capitale, Tilantongo. Erano guerrieri ma anche artisti, essendo i leader indiscussi della lavorazione dell’oro in tutta la Mesoamerica.

Mixtechi, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mixtechi, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mixtechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mixtechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mixtechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mixtechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mixtechi, Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

L’esperienza di visitare questa sala è incredibile dopo aver avuto la fortuna di aver visitato Monte Alban quasi un mese fa.

Anche la costa del Golfo del Messico, gli odierni stati di Veracruz e Tabasco ma archeologicamente estesa agli stati non costieri di Puebla, San Luis Potosí, Hidalgo e Querétaro, diedero i natali a civiltà importanti.

Civiltà del Golfo , Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Civiltà del Golfo , Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Questa è una zona fertile e, nel caso della costa, calda e umida. La presenza del mare, fiumi, lagune e molta pioggia simboleggiavano per molte civiltà preispaniche il potere della nascita e rinnovo della vita.

Civiltà del Golfo , Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Civiltà del Golfo , Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La zona del Golfo venne abitata da molti popoli che parlavano lingue diverse. Nonostante la difficoltà di comprensione il commercio fiorì senza problemi, anche grazie al fatto che condividevano la stessa base culturale fatta di una struttura della società e una religione comuni. È qui che nacquero gli Olmechi ( 1800AC-100AC) , la prima civilizzazione complessa della Mesoamerica.

La costa era di particolare importanza vista la fertilità del terreno: diversi gruppi umani si incontravano e scambiavano beni come cotone, cacao , la gomma e ovviamente molte nuove idee culturali.

Civiltà del Golfo , Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Civiltà del Golfo , Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Civiltà del Golfo , Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Gli spagnoli non se lo fecero ripetere due volte e, sentite storie sulla fertilità e la ricchezza del luogo, salparono dalla neocolonizzata Cuba con l’intento di arricchirsi a più non posso.

Artisticamente, le culture di questa zona si fecero conoscere per la loro raffinata tecnica scultorea in pietra e lavorazione dell’argilla, come risulta evidente dalle opere rinvenute prodotte dalla civiltà Huasteca e di El Tajín.

Civiltà del Golfo , Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Quando parliamo di storia preispanica messicana ci riferiamo spesso ai gruppi più famosi, come gli Aztechi e i Maya. Eventualmente se ne sappiamo un po’ di più parliamo anche dei Zapotechi e di Teotihuacán, ma è incredibile constatare QUANTE altre culture interessanti e complesse di succedettero in questa zona del mondo. La quantità di cose da vedere in questo museo è prova della profonda ricchezza storica del Messico e del crimine storico compiuto quando l’occupazione europea arrivò e pretese di cancellarne le tracce.

Non pensiate che mi sia dimenticata dei Maya, che il museo riserva per la fine, un po’ a mo’ di ciliegina sulla torta.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La cultura dei gruppi di lingua Maya, che abitano la zona a sud dell’odierna Messico e parte del Centro America, comincia a svilupparsi circa 4000 anni fa. I loro discendenti abitano tutt’ora le stesse zone, parlando la stessa lingua ( in Chiapas ho avuto modo di sentire le persone parlare spesso in lingua locale e nel lago di Atitlan lo spagnolo era decisamente una seconda lingua).

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I Maya crearono una delle culture mesoamericane più spettacolari ed erano maestri nei campi della scienza e dell’arte. Costruirono grandi centri civici e religiosi e numerose città, con piramidi e templi che circondavano le loro piazze.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Crearono il loro alfabeto, una sorta di sistema geroglifico, e un sistema per contare che si basava su unità da venti.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I loro calcoli matematici erano così complessi che si rese necessaria l’invenzione dello zero, un concetto che avrebbe fatto la sua comparsa in Europa solo molto più tardi, grazie al contatto con gli arabi.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
Le loro capacità matematiche li portarono ad essere provetti astronomi, che a sua volta si tradusse nell’invenzione di un calendario quasi perfetto completo di punto di origine e determinate ere.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Avevano piena coscienza della durata di un anno solare, i mesi lunari, il periodo di rivoluzione di Venere ed erano in grado di predire le eclissi.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
L’epoca d’oro dell’impero Maya, che più che un’unica civiltà era piuttosto un gruppo di città stato accomunate dalla stessa lingua e retaggio culturale, fu dal 300DC al 900DC, un periodo in cui tutti i campi per cui divennero noti eccellevano.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

A causa di fattori economici sociali, così come l’invasione di nuovi gruppi provenienti dall’altopiano centrale come i Toltechi e gli Itzá , questo periodo di splendore fu scemando dopo il 900DC e cominciò il periodo Post-Classico. Ciò porto cambi a livello culturale e sociale , innovazioni ideologiche e trasformazioni materiali, in altre parole una nuova vita.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Questo processo di trasformazione venne stroncato dall’arrivo dei soliti guastafeste, gli spagnoli.

L’area classica di occupazione Maya fu la penisola dello Yucatán e la zona che corrisponde agli odierni stati americani di Tabasco, Veracruz e Chiapas e i moderni stati indipendenti del Guatemala, Belize e parte dell’Honduras. Essi abitavano zone dagli ambienti molto diversi tra alte montagne, foreste pluviali e estese zone costiere. Il territorio variegato si tradusse in una civiltà altrettanto varia, ancora osservabile nei loro discendenti che abitano tutt’ora le stesse zone.

Cammino per la sala Maya ignorando il mio stomaco che comincia a borbottare ma che non riesce a farsi ascoltare dal mio cervello e i miei occhi in estasi.

Scopro che i Maya furono una delle prime culture a utilizzare i libri, trascrivendo codici su carta, piegati in pagine e coperti da una copertina di stucco. Ne sono stati rinvenuti solo tre e ciò che viene esposto ovviamente sono delle copie ma servono a dare l’idea.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Nell’epoca classica Maya , circa nell’800DC, nascono e crescono in splendore le città più importanti: Tikal , Calakmul, Yaxchilán, Palenque e Copan. Ho la fortuna di poter dire di aver visitato Tikal e Palenque, sono passata a fianco di Yaxchilán e me la sono fatta scappare e sono stata vicina al prendere la decisione di andare a Copan, rinunciandoci però perché si trova in Honduras e non avevo più tempo.

Nella stessa epoca in Yucatán si sviluppano le città più importanti della zona: l’area del Puuc, Chenes e Rio Bec.

Mi aggiro tra steli e sculture che hanno almeno 1200 anni e sembrano scolpite ieri. Ogni tanto devo forzarmi e chiudere la bocca che, ormai da ore, se ne sta spesso spalancata.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
Anche i Maya avevano vie commerciali ben stabilite che permettevano lo scambio di beni. Il loro territorio produceva cacao, miele, cera, cotone, incenso, sale e penne di anatra e quetzal, importanti per le cerimonie di tutta la Mesoamerica.

Fuori dal complesso è possibile visitare un giardino con delle ricostruzioni di importanti palazzi Maya sparsi per il Centro America.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Alla fine del periodo Classico i Maya smettono di costruire edifici imponenti. Gli esperti ritengono che in questo periodo scoppiano conflitti tra le varie città e i contadini si vedono costretti a distruggere aree della foresta pluviale in cerca di territorio da coltivare, causando un serio problema ambientale.

Maya, Museo Nazionale di Antropologia , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Le ultime testimonianze scritte dai Maya narrano di governatori periti a causa di questi scontri, ed è possibile che altri abbiano abbandonato volontariamente o no i propri regni. Ciononostante la maggior parte della popolazione rimase lì dov’era sempre stata, costruendo abitazioni perfino nelle piazze un tempo considerate sacre, e sopravvivevano di stenti. Il periodo di gloria era senza dubbio terminato.

Allo stesso tempo la penisola dello Yucatán ebbe un boom sociopolitico e economico. Tra l’800DC e il 1000DC gli abitanti di Chichen Itzá e la zona del Puuc costruirono magnifici edifici utilizzando le tecniche architettoniche più sofisticate. Le zone centrali avevano strutture simili alle antiche città Maya ma le zone limitrofe presentavano innovazioni uniche a questa area, forse influenzate da cose viste nel Messico centrale e nelle zone costiere del Golfo. Il continuo conflitto tra città vide l’ascesa della più forte, Chichen Itza, attorno all’anno 1000.

Chichen Itzá è la prima città preispanica a unire economia e politica. Divenne il centro nevralgico di una rinata civiltà Maya e qui essa mutò e divento ancora più sofisticata.

Chichen Itzá cominciò ad andare in declino verso il 1200 DC, cause sconosciute ma sempre imputate a motivi umani più che di natura.

All’arrivo degli spagnoli lo Yucatán era immerso in conflitti tra città. I conquistadores ne approfittarono e misero zizzania tra i Maya, alleandosi con qualche governante e opponendosi a altri.

A differenza del Messico centrale, che nonostante il potere militare degli Aztechi cadde nel giro di qualche anno, l’assimilazione dei Maya si rivelò un processo lungo e tortuoso, principalmente per la resistenza Maya e la scarsa quantità di soldati spagnoli. Molte popolazioni scapparono nelle regioni selvatiche e fu ancora più difficile sottomettere questi gruppi, soprattutto la regione guatemalteca del Petén e la foresta Lacandona che caddero nelle mani spagnole solo duecento anni dopo l’arrivo degli spagnoli.

I Maya sotto gli spagnoli cercarono e riuscirono a mantenere in qualche maniera la loro cultura adottando ingegnosi stratagemmi: impararono a scrivere la lingua Maya con i caratteri latini e alcuni dei locali vennero mascherati sotto sembianze cattoliche.

Giunto alla fine di cinque ore di visita stanca ma felice.

Se mi avete letta fino a qua vuol dire che vi interessa la storia, e allora lasciatevelo dire: questo è uno di quei musei che non solo vale il viaggio, ma pure il volo intercontinentale. La concentrazione di reperti in stato perfetto, la quantità di oggetti e statue, le spiegazioni chiare e semplici. Io ho dovuto soffermarmi sia nella spiegazione che nella visita alle civiltà più importanti del Messico, dovendo tralasciare un po’ altre stanze che presentano e spiegano anche la storia, meno eclatante ma pur sempre complessa e interessante, delle popolazioni che abitavano il nord del paese.

Esco in cerca di cibo e mi avvento su un paninazzo stile messicano ( che qui chiamano torta) proprio all’uscita. Sono solo le quattro quindi decido di prendere la strada più lunga per prendere la metro e attraverso il bel parco di Chapultepec, un vero polmone verde in mezzo alla metropoli.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Torno nella zona del mio ostello, mi fermo al supermercato come ormai faccio da quattro giorni per comprare qualcosa da sgranocchiare la sera. Esco dal supermercato, il sole sta calando e presenzio a un gioco di luci davvero magico. Ho come una piccola finestra sulla vita quotidiana del quartiere, quasi come ci abitassi anche io.
Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

CDMX parte 3: il cuore dell’impero Azteca e il Muralismo messicano

Mi sveglio stanca dalla giornata di ieri ma che ci posso fare, il tempo scarseggia e le cose da fare a Città del Messico sono ancora tante.

Decido di tagliare la testa al toro e andare a scoprire il mitico Tempio Mayor nel centro storico, la mecca per chiunque sia interessato nella storia degli Aztechi.

Gli Aztechi chiamavano se stessi e il territorio che abitavano “ Meshika” o “ Mehika”, da cui ovviamente deriva il nome odierno del Messico, ma per facilità di comprensione continuerò a chiamarli Aztechi.

La loro cultura e i loro usi presentavano similitudini e uguaglianze con molte altre popolazioni della Mesoamerica ( tra i vari aspetti tutti credevano nello stesso Panteon di dei, tutti osservavano cerimonie religiose e praticavano sacrifici, tutti erano popoli dediti all’agricoltura e al commercio e tutti avevano una passione sfrenata per il gioco della pelota), quindi è legittimo chiedersi, cosa distingue gli Aztechi dalle altre civiltà?

Beh, avevano una propria lingua, il Nahuatl, e abitavano attorno a questa zona, la Valle del Messico. Se stiamo ad ascoltare il loro mito di creazione scopriamo che essi nelle origini erano un popolo girovago, tutta colpa del loro dio Huitzilopochtli che sembra avesse comandato loro di abbandonare la loro terra di origine e cercare una nuova patria. Il segnale di arrivo sarebbe stato dato loro dalla visione di un’aquila appollaiata su un cactus intenta a divorare un serpente. Come c’è da aspettarsi un fenomeno del genere non capita proprio tutto i giorni, così gli Aztechi dovettero compiere un lungo pellegrinaggio alla ricerca di casa.

Ma un giorno, il 20 giugno 1325 , la videro. Era un’aquila. Che mangiava un serpente. Su un cactus!

C’era solo un problema.

Il cactus si trovava su un isolotto in mezzo a un lago, mannaggia.

Gli Aztechi non poterono farsi scampare l’occasione e ovviarono le problematiche di logistica costruendo una città sui vari isolotti che affioravano in quella zona del lago di Texcoco, bonificando zone coperte dall’acqua e utilizzando una tecnica chiamata Chinampa che consisteva nel creare sorte di giardino e orti galleggianti

Questa città, che diventerà la capitale dapprima della popolazione azteca e poi dell’impero che man mano andranno a costruire, si chiama Tenochtitlan e nel periodo di massimo splendore era la città più popolosa di tutte le Americhe.

La Chinampa permetteva agli Aztechi di ottenere raccolti abbondanti e questo permise alla città di espandersi e arricchirsi. Attraverso il commercio e le conquiste militari l’egemonia Aztecs andò ad accrescersi sempre di più, arrivando a controllare un ampio territorio che si estendeva fino al Guatemala. Essi mantenevano l’impero coeso più grazie al sistema di commercio stabilito, che rendeva i territori vassalli sostanzialmente dipendenti da Tenochtitlan, che a una costante presenza militare. Era importante mantenere un sistema di tributi se si voleva avere accesso ai beni di Tenochtitlan, e grazie a queste donazioni gli Aztechi non soffrivano mai la mancanza di prodotti importanti che non riuscivano a coltivare nel proprio territorio, come il cacao, o la penuria di esseri umani da sacrificare ai propri dei che, sembra, non ne fossero mai sazi.

Di certo questi nuovi arrivati sulla scena americana ( in fin dei conti prima del 1325 praticamente non esistevano) che oltretutto facevano da bulletti a destra e a manca e che adoravano rapire i loro sudditi per poi sacrificarli cruentemente sulle loro piramidi non dovevano andare terribilmente a genio alle popolazioni sottomesse. La frustrazione cresce, ma gli Aztechi sono sempre più potenti e imbattibili.

Ma spostiamoci brevemente a Cuba e incontriamo uno spagnolo chiamato Hernán Cortés. È arrivato nelle Americhe con uno spirito di avventura e una smisurata voglia di arricchirsi in questo nuovo paese delle cuccagne.

Nel 1519 Cortés salpa da Cuba facendo parte di un gruppo di spagnoli interessati all’esplorazione e al commercio con le sconosciute terre americane.

Approda nella penisola dello Yucatán dove incontra Jerónimo de Aguilar y Gonzalo Guerrero, uno spagnolo che qualche anno prima era approdato in Messico e gli piacque così tanto che decise di stabilircisi, costruendosi pure una famiglia con una donna locale. Egli non è interessato a eguagliare le gesta di Cortés ma viene assunto come interprete della spedizione, dato che masticava la lingua Maya.

Addentrandosi nel territorio yucateco Cortés arriva a Campeche, dove la popolazione locale gli fa un dono speciale: una principessa azteca precedentemente rapita e schiavizzata dai campechani.

Nomino Aguilar e La Malinche, il soprannome dato alla principessa azteca in questione, perché senza di loro la conquista delle Americhe da parte di Cortés non sarebbe andata da nessuna parte, incapace com’era lui di parlare le lingue locali e gli americani lo spagnolo.

Nello Yucatán Cortés sente parlare di questa ricchissima città che regna indisturbata su tutta la zona è non ha dubbi: bisogna conquistarla.

A Tenochtitlan intanto l’imperatore azteco Montezuma II ha ricevuto messaggio dell’arrivo di strano individuo sulle coste yucateche. Ovviamente ciò lo impensierisce ma decide di giocarsi le sue carte in maniera diplomatica: seguendo il vecchio adagio del “ gli amici appresso, i nemici ancora di più” mandò a Cortés un invito ufficiale per ospitare lui e i suoi compari a Tenochtitlan. Montezuma contava con l’effetto che avrebbe fatto la sua meravigliosa città, così imponente e potente, era sicuro che avrebbe messo un certo timore negli spagnoli.

Quando arrivarono, gli europei ebbero modo di avere una prima visione della città da lontano. Osservandola rimasero tutti increduli tanto era impressionante e bella. Alcuni di loro arrivarono ad affermare di non essere sicuri di non star sognando!

Gli spagnoli vengono accolti in pompa magna: Montezuma è convinto che un benvenuto così ecclatante avrebbe fatto capire a Cortés chi comandava mentre Cortés , vedendosi accolto calorosamente invece che respinto militarmente, probabilmente era sicuro di avere già le chiavi di Tenochtitlan in mano!

Comincia il duello tra Montezuma e Cortés, una vera e propria partita di scacchi tra strategie e stratagemmi sostanzialmente per sbarazzarsi dell’altro.

La comunicazione tra i due non potrebbe mai essere avvenuta se non fosse per la Malinche, che traduceva dal Nahuatl al Maya, e Aguilar che di seguito traduceva dal Maya allo spagnolo. Ovviamente questo gioco del telefono muto portò a non pochi malintesi, frutti di traduzioni inesatte o approssimative, che di certo non aiutarono lo scambio culturale tra queste sue civiltà così diverse.

Forse vi ricordate dell’incidente di Cholula che ho menzionato qualche articolo fa, quando Montezuma convinse gli spagnoli a fare una “placida gita” a Cholula, vicino a Puebla, e intanto aveva reso loro una imboscata che sarebbe stata compiuta dai Tlaxcala, un popolo vassallo.

Solo che i Tlaxcala non ne potevano più degli Aztechi e ne approfittarono per svelare il piano agli spagnoli, che chiaramente si arrabbiarono non poco.

Comincia una seconda fase, meno scacchi e più scontro diretto. La storia del conflitto è lunga e complessa ma sappiamo come va a finire, gli spagnoli risultano i vincitori e gli Aztechi vengono spodestati.

Ad ogni vittoria nelle Americhe gli spagnoli solevano distruggere tutto ciò che non era in linea con la loro cultura e religione e, non contenti delle macerie, ci piazzavano sopra una chiesa o un edificio costruito a gusto loro in modo da cancellare la memoria di tutto ciò che venne prima di loro. Non fu fatta eccezione nemmeno per Tenochtitlan, quella città che tanto li aveva impressionati quando la videro per la prima volta.

Passano i secoli, dei tempi preispanici non se ne parla più ( anche se vive nella memoria delle popolazioni indigene, che continuano ad oggi a parlare lingue come il Nahuatl, il Maya, lo Zapoteco, tutte lingue di antiche civiltà importanti) la colonia messicana prospera, si emancipa dalla Spagna nella prima metà dell’800 e sopravvive una guerra civile a inizio ‘900.

Uno dei risultati più importanti della rivoluzione messicana è la volontà di sottolineare la messicanità, ciò che rende il Messico Messico. Il salto verso l’interesse nella riscoperta delle proprie origini preispaniche è corto.

Nel 20esimo secolo cresce la voglia di saperne di più dei propri avi.

Nel 1978 degli elettricisti intenti a lavorare sottoterra si imbatterono in elaborate statue azteche.

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Venne presa la decisione dolorosa ma necessaria di abbattere gli edifici coloniali costruiti secoli prima sopra alle rovine individuate e fu così che il Templo Mayor, chiamato Teocalli dagli Aztechi , venne alla luce dopo quasi cinquecento anni sottoterra dimenticato dal mondo.

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il Tempio Mayor era il più importante di Tenochtitlan, e quindi di tutto l’impero azteco. Ogni volta che vedete un film o un documentario in cui si parla degli Aztechi, delle loro cerimonie religiose, pure dei loro sacrifici sanguinosi e tutte quelle teste che rotolavano dalle scalinate se volete, eccolo qua, avveniva tutto qui.

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Esso venne costruito sul punto esatto in cui sembra che venne avvistata la famosa aquila col serpente sul cactus, che poi non so se avete notato ma è tutt’ora il simbolo del Messico. Questo era, secondo gli Aztechi, il vero centro del mondo.

Il Tempio venne ingrandito e rielaborato ben sette volte in duecento anni di vita. Così come molte altre civiltà mesoamericane agli Aztechi non piaceva distruggere un edificio. Siccome però ogni imperatore era spronato a “ personalizzare” gli edifici per marcare il potere del suo regno, questo significava che l’unica maniera per mantenere il Tempio nella stessa posizione bisognava ricoprire il Tempio vecchio con uno nuovo, come un guscio.

Dopo sette gusci costruiti la piramide del Templo Mayor arrivava a un’altezza di ben 40 metri. Fa impressione pensarci mentre osservo il sito archeologico e sullo sfondo ho la cattedrale del Zócalo, alta nel suo punto maggiore quasi 60 metri.

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Anche la piramide di Cholula era costruita a strati ma siccome la maggior parte di essa giace ancora sotto una collina è un po’ difficile distinguerne bene gli strati. Ciò non può essere detto del Templo Mayor.

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Gli strati sono evidentissimi, e il cuore , ossia il primo tempio, affiora dalla terra solo nella sua sommità perché il resto della piramide nel tempo è sprofondata sempre più ( anche ai tempi degli Aztechi).

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ci sono ancora decorazioni in pietra , intagli sopraffini e perfino qualche vestigia dei toni caldi che coloravano l’edificio.

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

( Non dimentichiamoci mai che, le piramidi mesoamericane ma anche gli edifici Inca e perfino quelli Greci e Romani non erano grigi come siamo abituati a vederli oggi, ma che spesso erano riccamente dipinti) .

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
(anche se quest’ultima è una ricostruzione per far capire meglio )

Il biglietto d’entrata permette anche l’accesso al museo del sito archeologico, una vera e propria mecca per chiunque sia interessato alla storia degli Aztechi contenente le poche vestigie della grande Tenochtitlan che ci rimangono.

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I reperti non sono terribilmente antichi, alla fine sono stati fatti tutti tra il 1300 e il 1500 dopo Cristo, ma pensando a come vennero maltrattati e dimenticati dopo la caduta degli Aztechi non può che sorprendere lo stato di certi pezzi, ancora riccamente decorati e/o colorati.

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Non può non salire in gola un accenno di rabbia nei confronti dei conquistadores. Purtroppo l’umanità è stata privata del piacere e dell’importanza culturale di avere le rovine di Tenochtitlan con noi. Un conto è quando una meraviglia del mondo antico scompare a causa di un evento naturale o per la normale usura del tempo, ma sapendo che era tutto in piedi e senza problemi e che non è arrivato al giorno d’oggi a causa della distruzione cosciente e volontaria di un manipolo di ignorantoni fa rabbia!

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo del Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

D’altronde erano tempi diversi e la cura per i reperti storici è un fenomeno recente. Basti pensare che a fine ‘800 le autorità di Città del Messico costruirono un viadotto che passava proprio a ridosso del Templo Mayor e, non consapevoli che fosse quel monumento ma di certo coscienti di essersi imbattuti in rovine azteche, ultimarono il viadotto che ad oggi taglia il Templo come una ferita di guerra.

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Termino la mia visita al tempio e fantastico su come avesse potuto essere Tenochtitlan. Recentemente è stato scoperto che sotto alla vicina cattedrale si nascondono altre importanti rovine azteche tra cui il campo per il gioco della Pelota e una serie di tempi. Chiaramente però la decisione di abbattere la cattedrale per portarli alla luce non è in discussione.

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Templo Mayor, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Siccome sono in centro decido di ultimare la giornata con un paio di murales nelle vicinanze.

Arrivo davanti al Palazzo delle Belle Arti, un bellissimo edificio commissionato dal despota Porfirio Díaz e costruito nel 1905 dall’italiano Adamo Boari in stile neoclassico e art nouveau.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

All’interno è decorato pomposamente e ecletticamente come solo l’art deco è in grado di fare. Tra lastre infinite di marmi massicci, decorazioni dorate e lampadari da capogiro mi aggiro per il palazzo e mi sembra di essere finita tra le pagine del Grande Gatsby.

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Le molte sale sono adibite a mostre di opere d’arte ma sono qui per i corridoi dei piani superiori, che ospitano murales dei grandi tre del Muralismo messicano: Rivera, Orozco e Siqueiros.

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

In particolare l’opera più famosa è forse quello di Rivera, El hombre en el cruce de caminos. L’opera è la “seconda copia” di Rivera dato che la prima l’aveva dipinta nella hall del Rockefeller Center a New York, commissionato dal magnate in persona .

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Rivera entra in contatto con John Rockefeller jr attraverso la moglie di quest’ultimo, una mecenate d’arte. Rockefeller vuole assolutamente un enorme murales che decori la hall del suo nuovo edificio. Rivera, che era stato recentemente espulso dal partito comunista americano per aver accettato di lavorare per una serie di noti capitalisti, non aveva niente da perdere e accettò , anche se lavorare per Rockefeller non fece che accrescere la distanza tra Rivera e i comunisti americani.

Rockefeller propone il tema del murales all’artista: “ l’uomo in un incrocio, osservando con speranza e visione superiore la scelta di un futuro nuovo e migliore” .

Il progetto per la hall inoltre sarebbe stato esteso con opere commissionate a Picasso e Matisse, però di questo non se ne fece niente: Matisse era impegnato altrove, e Picasso non rispose mai alla richiesta inviatagli per telegramma con destinatario “ PIERRE Picasso”

Rivera si mette a lavoro e in breve tempo presenta una bozza ai Rockefeller, che la approvano . Convinsero Rivera a firmare un contratto secondo cui il risultato finale non avrebbe potuto differire dalla bozza approvata e così partirono i lavori.

Mentre l’opera era in fase di creazione uscì un articolo su un giornale newyorkese che attaccava l’idea che i murales servissero alla propaganda anti capitalista. In risposta all’articolo Rivera non esitò ad aggiungere il cameo di Lenin nell’opera a cui stava lavorando.

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

L’aggiunta dal gusto bolscevico sarebbe pure passata inosservata fino a opera compiuta non fosse stato per una svista, un problema tecnico con delle gocce di pittura indesiderate, che i Rockefeller scoprirono per caso il faccione di Lenin campeggiare nella loro futura hall.

Scoppia lo scandalo, i Rockefeller rimandano l’inaugurazione della hall e cercano di convincere Rivera a cancellare il leader sovietico dal murales. L’artista messicano si rifiuta di rimuovere Lenin ma si dichiara favorevole all’aggiunta di Abraham Lincoln all’opera. Aggiunse anche che gli sembrava una buona idea aggiungere i ritratti di una serie di noti abolizionisti e non si smosse mai dall’idea di Lenin. Meglio distrutto che mutilato”, dichiaro. E i Rockefeller lo prendono alla lettera e distruggono il murales che per contratto apparteneva unicamente a loro.

Rivera successivamente ricreò l’opera proprio qui, al Palazzo delle Belle Arti di Città del Messico, con l’aiuto delle bozze e delle poche foto scattate all’originale ormai distrutto. Al tema iniziale incluse due estensioni a destra e a sinistra che riflettono in maniera più aperta le idee comuniste e anticapitaliste di Rivera, che a Lenin aggiunge pure un Trotskij, un Marx e folle di lavoratori scioperanti.

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palacio de Bellas Artes, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Finisco la giornata con una breve visita al museo mural Diego Rivera, costruito per ospitare uno dei lavori più famosi dell’artista “ Sogno di un pomeriggio domenicale a Alameda Centrale” , 15metri di opera che immagina tutti i personaggi più importanti della storia messicana riuniti in una piazza e che fu spostato in questo edificio dopo i danni riportati dalla location originale nel terremoto del 1985 , e infine un’altro edificio che contiene ancora più murales, l’antico collegio di San Ildefonso. Anche qui i murales sono fantastici e l’ambientazione molto affascinante, essendo questo un edificio più antico del Palazzo delle Belle Arti.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

CDMX parte 2: Coyoacan con Kahlo, Rivera e Trotskij

Coyoacan, secondo tentativo.

Arrivo nel quartiere verso le dieci, a ridosso del l’orario di apertura del Museo di Frida Kahlo. Oggi ho il vantaggio che essendo già passata per Coyoacan ieri anche se inutilmente, mi oriento meglio e so esattamente come arrivare al museo.

Dopo una mezz’oretta di camminata finalmente scorgo le mura blu elettrico della casa di Frida Kahlo.

Ieri, arrivando, mi è sembrata troppo tranquilla per essere una delle attrazioni principali di tutto il Messico, e infatti era perché era chiuso. Oggi, invece, mi coglie un po’ impreparata la lunga fila che si estende dall’entrata della casa.

Mi metto in coda e, per sicurezza, domando se è la fila per Frida Kahlo. Un messicano tarchiato mi conferma che si, è la fila per Frida.

“ … se hai già il biglietto”.

Macché, io il biglietto non ce l’ho.

Esattamente di fronte alla fila per l’entrata scorgo solo allora un’altra fila, ugualmente lunga, per comprare il biglietto.

Sbuffo e mi preparo a una lunga attesa sotto il sole.

La fila alla fine procede relativamente veloce e compro il biglietto. Gioisco quando mi dicono che posso entrare senza dover fare l’altra fila, non capisco il funzionamento di queste file ma non mi interessa, io passo.

Entro nella corte blu della casa di Frida, la casa che la vide nascere e crescere.

Il padre di Frida, Guillermo Kahlo, emigrò in Messico a vent’anni. La figlia sostenne sempre che fosse un ebreo ungherese ma ricerche recenti hanno dimostrato come probabilmente fosse un tedesco di fede luterana.

Guillermo Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guillermo sposò Matilde Calderón, una messicana originaria di Oaxaca e figlia di un indigeno e una donna di discendenza spagnola, e costruisce la casa che sto visitando soprannominata Casa Azul ( Casa Blu) , tre anni prima della nascita di Frida che avviene nel 1907.

La futura pittrice cresce nella Casa Azul di Coyoacan con tre sorelle e i genitori, la cui unione non fu mai felice e che influenzò negativamente la sua infanzia.

All’età di sei anni Frida contrae la poliomielite che la costrinse a rimanere isolata dagli altri bambini per mesi. Sebbene questa esperienza sviluppò un carattere introverso in Frida, questa fece anche si che diventasse la figlia favorita di suo padre. Se con la madre, una donna vecchio stampo rigida e fanaticamente religiosa Frida aveva delle difficoltà emotive, il padre Guillermo fu a detta sua un raggio di sole durante una crescita non troppo facile.

Guillermo era un fotografo e un uomo colto, introdusse Frida alla fotografia, alla letteratura e la filosofia. La incoraggiò a praticare dello sport per riprendersi, in tempi in cui le ragazze non praticavano attività fisiche. Pian piano Frida cominciò a collaborare con il padre nel suo atelier fotografico apprendendone i segreti.

A causa della polio Frida cominciò la scuola molto tardi. Non aiutò il fatto che avesse pure un certo caratterino, venne espulsa dalla scuola tedesca a cui l’aveva iscritta il padre e venne mandata in un istituto a carattere religioso dove venne abusata sessualmente da un’insegnante.

A 15 anni venne ammessa in una scuola prestigiosa e si mise a studiare materie di ambito scientifico, comincia a sviluppare il desiderio di diventare dottore.

La giovane Frida è una lettrice vorace e presto assorbe le influenze culturali innovatrici che la circondano. Siamo nel periodo immediatamente successivo al decennio della rivoluzione messicana e le idee di risveglio culturale e una maggiore importanza a tutto ciò che è messicano sono sulla bocca di tutti gli intellettuali.

Fin dall’infanzia Frida disegna e si cimenta nel mondo delle arti, senza mai prendersi troppo sul serio.

Il 17 settembre del 1925 Frida e il suo fidanzato di allora sono su un tram di legno che sfreccia in direzione di Coyoacan quando il mezzo entra in collisione con un altro tram più grande.

Molti passeggeri muoiono sul colpo e Frida riporta ferite che le sono quasi fatali: un tubo di ferro la impalò attraverso il bacino, e assieme alle ossa del bacino si fratturarono anche diverse costole, le gambe e le clavicole.

Passò un mese in ospedale e due di degenza a casa, ingessata dalla testa ai piedi e limitata in maniera completa nei movimenti. Dopo due mesi, lamentando ancora forti dolori, una radiografia rivelò l’ulteriore rottura di tre vertebre.

L’incidente mise fine all’ambizione di Frida di diventare dottore e le provocò complicazioni e forti dolori per tutta la vita.

Mentre cercava di guarire ma anche di capire cosa fare nella vita le venne l’idea che avrebbe potuto lavorare come disegnatrice per le illustrazioni delle riviste mediche. Si fece personalizzare il letto a baldacchino in modo da poter stare completamente sdraiata e riuscire comunque a dipingere e disegnare, e installò uno specchio sul baldacchino in modo da potersi vedere.

Famiglia Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Comincia così la fase di esplorazione artistica ma anche personale di Frida, che si trova con un sacco di tempo libero, tanto dolore e tanti sogni distrutti. Dipingere diviene un modo per conoscersi più a fondo, per esprimersi, per sfogarsi, per esorcizzare il dolore fisico e psicologico, o almeno provarci.

Opere di Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Molti sono gli autoritratti che la raffigurano con una nudità quasi sconcertante, partecipe come viene fatto l’osservatore nelle emozioni più intime di questa donna con una vita così tragica.

Due anni dopo, nel 1927, Frida si riprende e può camminare di nuovo. Riconnette con i vecchi amici della facoltà che nel frattempo si sono politicizzati. Si iscrive al partito comunista messicano e entra nel circolo intellettuale di sinistra di Città del Messico.

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

A un incontro di intellettuali comunisti messicani nel 1928 conosce Diego Rivera, all’epoca uno degli artisti più famosi di tutto il paese: lui rimane impressionato dal talento artistico di lei e presto scocca la scintilla.

Si inaugura così l’odissea che fu la tumultuosa relazione tra Frida Kahlo e Diego Rivera.

Lei 21enne, celibe, sconosciuta, minuta, fragile, introversa . Lui 42enne, pluridivorziato, famosissimo, alto e sovrappeso, spavaldo e notoriamente donnaiolo. Quando l’anno dopo si sposarono la madre di Frida, fermamente contraria all’unione, disse del matrimonio che le pareva “ lo sposalizio tra un elefante e una colomba” .

Frida comincia a sviluppare uno stile proprio sia nella pittura che nelle sue influenze personali. Si interessa sempre di più alla “messicanitá” e adotta il vestiario delle donne di Oaxaca, le tehuanas, tradizionalmente provenienti da una società antica e matriarcale e quindi un forte simbolo di messicanità e femminismo tutt’assieme. Oltre ad essere un forte simbolo intellettuale i vestiti da tehuana adottati da Frida Kahlo e mai smessi fino alla sua morte erano anche strategici a coprire una serie di difetti provocati dalle tante tragedie che colpirono il suo corpo. Non ultimo, c’è anche il fatto che fossero i prediletti di Diego.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Oggetti appartenuti a Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Diego , oh Diego, che amò Frida in maniera profonda e passionale. Ma che era Diego Rivera e che quindi non riusciva ad essere monogamo neanche sforzandosi, facendo soffrire Frida.

Non che lei poi stesse solo a struggersi. Nonostante i forti attacchi di gelosia anche lei non riusciva ad essere monogama, ed ebbe molti famosi amanti tra cui il pittore Breton e forse perfino la ballerina Josephine Baker.

Nel 1930 i Rivera si trasferirono negli Stati Uniti, dapprima a San Francisco dove i due ricevettero molte soddisfazioni e consolidarono il loro successo in campo artistico, e successivamente si stabilirono a New York per curare la retrospettiva su Diego al MOMA per poi finire a Detroit.

L’anno speso in Michigan fu per Frida un anno difficile: se da una parte il suo carattere si fa sempre più eccentrico e spavaldo ( che non ci si faccia ingannare: sarà anche piccola e fisicamente fragile ma Frida aveva un caratterino mica da poco!), arrivando a dichiararsi un’artista più importante di Diego, la convivenza tra Frida e la cultura americana non funziona a genio.

Ci sono aspetti dell’America che Frida non capisce e che non riesce a mandare giù , e trova che gli americani siano dei gran noiosi. Risente il dover socializzare con noto capitalisti come Henry Ford e l’enorme disparità tra ricchi e poveri che ha modo di osservare la ripugnano. Oltre a questi problemi si aggiunge il trauma di un aborto andato male che le causano una forte emorragia e l’ospedalizzazione.

E tre mesi dopo le muore pure la madre.

Nel ‘33 i coniugi Rivera tornano a New York: a Diego è stato commissionato un murales nel nuovo Rockefeller Center.

Chissà a chi è venuta la brillante idea di ingaggiare un noto comunista per decorare la hall di uno dei più noti capitalisti americani?

Diego approfitta dell’occasione datagli per includere un ritratto di Lenin nell’opera, creando un grande scandalo che si conclude con il licenziamento di Diego e la distruzione del murales.

Questa delusione e il fatto che a Frida manca il Messico fanno si che i coniugi ritornino nel loro paese natale nel 1934.

Si trasferiscono nel facoltoso quartiere di San Ángel dove vanno ad abitare in un complesso costruito da Juan O’Gorman, un allievo di Le Corbusier. Diego occupa un’edificio bianco e rosa e Frida uno blu acceso, i due edifici sono separati, uniti unicamente da un ponte.

Questo è un’altro anno difficile per Frida: un’appendicectomia , due aborti e l’amputazione di alcune dita del piede.

E il matrimonio sta affondando.

Diego voleva rimanere negli Stati Uniti e incolpa Frida per il ritorno in Messico.

Il colpo di grazia però arriva quando Diego, da sempre infedele, si sceglie l’amante errata: l’amata sorella di Frida, Cristina.

Frida è distrutta, rinnega la sorella e vuole il divorzio. L’amore per Diego e Cristina però è troppo forte e un anno dopo vengono perdonati, ristabilendo i contatti con la sorella e tornando a vivere con Diego. Nonostante il ritorno di fiamma, le infedeltà continuano sia da parte di Diego che di Frida.

Nel ‘36 la coppia diventa sempre più attiva nella scena politica e avviano una campagna per concedere asilo politico a Leon Trotskij, offrendosi di ospitare l’ex leader sovietico e la moglie nella Casa Azul, che nel frattempo è passata di proprietà ai coniugi Rivera che l’hanno decorata a gusto loro e che la occupano ogni tanto.

Nel ‘39 su insistenza della moglie di Trotskij, la coppia russa fa le valigie e si trasferisce a 600m in un’altra casa: sembra che l’amicizia tra Frida e Leon sia andata un po’ troppo oltre e questo la moglie di Trotskij non l’ha potuto mandare giù.

In questi anni Frida è nel picco della sua creatività e del suo successo come artista. Riesce a esibire qualche quadro in diverse mostre e si fa notare sempre più dal circolo di artisti internazionali. Breton dichiarò che la considerava una vera surrealista e che la sua arte era come “ un fiocco legato attorno a una bomba “.

Dopo una breve tournée in Europa e negli Stati Uniti, dove espone e vende quadri e gode di un grande successo, Frida torna in Messico e la accolgono i documenti per il divorzio richiesto a sorpresa da Diego.

Le ragioni di Diego per il divorzio rimarranno sempre un mistero, forse troppe furono le infedeltà da entrambe le parti, ma i due rimasero amici e in contatto.

Nel 1940 Frida si trasferisce nella Casa Azul da sola e continua a produrre arte, corroborata dalle esperienze fatte all’estero e determinata nel rendersi indipendente.

Nello stesso anno Trotskij viene assassinato nel suo ufficio: una spia sovietica riuscì ad eludere la sicurezza, si introdusse nell’ufficio di Trotskij e gli ficcò un’ascia nel cranio.

Sempre nel ‘40 galeotto fu un incontro con Diego a San Francisco, la fiamma si riaccende e i due si risposano, tornando a Città del Messico e stabilendosi nella Casa Azul.

Durante gli anni 40 quindi Frida è all’apice della sua creatività ma vede anche la sua salute deteriorare ulteriormente, non aiutata dal forte consumo di alcol a cui lo sottopone regolarmente.

Nonostante i vari tipi di corsetti correttori che indossa regolarmente la schiena le fa sempre più male, e nel ‘45 si sottopone all’ennesimo operazione alla schiena che si rivela un fallimento e limita ancora di più la mobilità.

Nel ‘53 arriva uno dei momenti più felici della vita di Frida: la prima e unica esposizione dei suoi quadri, totalmente dedicata a lei, in Messico. Frida era così malconcia che i medici le proibirono di alzarsi dal letto, così lei non si fece problemi e si fede trasportare a letto dalla sua stanza alla galleria. La sorpresa degli invitati quando videro Frida fare il suo ingresso tutta in ghingheri sdraiata su un letto trasportato da qualche giovanotto!

Nei mesi successivi la cancrena responsabile per l’amputazione delle dita del piede si è estesa in tutta la gamba, costringendo i medici a amputargliela.

L’amputazione della gamba è un vero e proprio trauma per Frida, che dapprima rifiuterà la protesi e poi ci metterà mesi a imparare a usarla. È famosa la laconica frase che Frida scrisse sul suo diario sotto al disegno della sua gamba amputata : “ Piedi, a che mi servono se posso volare” .

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Frida Kahlo muore 47enne il 12 luglio del 1954 a causa di varie complicazioni, una salute veramente al limite e una forte depressione causata dalla perdita della gamba, tutti gli aborti sofferti e tutti i dolori , fisici e psicologici, passati.

Busti e protesi di Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

L’ultimo schizzo di Frida sul suo diario ritrae un angelo nero e la scritta:

“ Espero alegre la salida — y espero no volver jamás” , Spero l’uscita sia allegra, e spero di non tornare mai più.

Diego, che della morte di Frida disse che fu “ il giorno più tragico di tutta la sua vita” , mori tre anni dopo.

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Entro nella Casa Azul con tutta la biografia di Frida in testa. Delle volte visito posti legati a certe personalità senza saperne la storia molto a fondo, ma di Frida mi sembra di saperne un po’ di più.

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

È vero, l’artista Frida Kahlo nel 2017 è parecchio inflazionata: figura su almeno metà dei souvenir in Messico e le sue opere e parole sono perennemente sulla bocca di tutti. Non c’è dubbio alcuno che Frida sia nettamente più famosa ora che quando era in vita, avendo superato in notorietà perfino il marito che è un colosso nel mondo dell’arte.

Nonostante a interessarci dell’arte di Frida Kahlo non siamo di certo gli unici e che sia ormai diventata una vera icona pop, la sua produzione artistica non può lasciare indifferenti. Capire poi la vita vissuta dall’artista è assolutamente necessario per capirne i quadri.

Parte della Casa Azul è ora adibita a museo, dove vengono esposti una serie di dipinti sia di Frida che di Diego.

Opere di Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lo spazio poi si apre su una sala da pranzo tutta decorata con vari oggetti d’arte preispanici, artefatti che ora andrebbero anche di moda ma che quando li collezionavano i coniugi Rivera venivano spesso bistrattati. Si entra poi nella bellissima cucina, scarna di tecnologie e più simile a una cucina di campagna ( purtroppo non si può fotografare…. quindi sono riuscita a farci una foto proprio fugace 😉 ).

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Si continua la visita attraverso lo studio, che raccoglie materiali pittorici dei due artisti e una vasta libreria.

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tra gli oggetti esposti ci sono due orologi dipinti da Frida: il primo ha l’ora ferma sull’orario in cui Frida decide di divorziare da Diego dopo averlo sorpreso ad amoreggiare con la sorella Cristina, nelle parole di Frida “ il momento in cui si ruppe il tempo” , e il secondo segna l’ora del secondo matrimonio celebrato tra i coniugi Rivera, quando il tempo ricomincia.

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

L’ultima stanza è la camera da letto di Frida in cui viene conservato il famosissimo letto a baldacchino con lo specchio, purtroppo per qualche motivo le foto al letto sono proibite. Io però non voglio lasciarvi a bocca asciutta e ci provo lo stesso 😉

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lo studio si apre su un bel giardino verdeggiante che contrasta sublimemente con il blu acceso delle pareti della casa, il contorno delle finestre e le porte in rosso mattone e gli infissi verdi bottiglia.

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il luogo è molto affollato, di certo non sono l’unica a conoscere il fascino magnetico di Frida Kahlo artista e personaggio. Se n’è accorto pure il Messico, un paese che ha aspettato l’anno prima della sua morte per concederle il tanto agognato riconoscimento e che ora richiede ben 9 euro per l’entrata e quasi un euro per il permesso di fare fotografie ( lo so, è pochissimo, ma ricordatevi che un sito sbalorditivo come Palenque vi costa, museo e zona archeologica, 3 euro) .

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Finita la visita alla Casa Azul cammino per circa 600 metri e vado a trovare Trotskij. I visitatori sono molto meno e l’entrata costa solo un euro e mezzo. All’entrata si può acquistare il biglietto, qualche libro di dottrina marxista-leninista e perfino diversi souvenir ( tazze, penne, diari) con il ritratto dell’ex leader sovietico stampatoci sopra. Chissà cosa ne penserebbe l’interessato se fosse in vita.

Leon Trotskij è uno dei personaggi importanti prodotti dalla rivoluzione d’ottobre in Russia nel 1917, che fa cadere il regime zarista e da il via all’Unione Sovietica. Ricopre numerose posizioni di prestigio e potere durante gli albori dell’Unione ma dopo la morte di Lenin e la presa di potere di Stalin viene progressivamente marginalizzato. Trotskij e Stalin hanno due visioni diverse del sogno socialista, una delle quali è che il primo crede fermamente nell’esportazione degli ideali della rivoluzione nel resto del mondo per creare una società più giusta e egualitaria, mentre al secondo dell’esportazione non gliene frega niente e intende invece consolidare il mostruoso apparato burocratico che gli permetterà con tempo di regnare sull’intera unione come uno dei despoti peggiori della storia. Si può dire che Trotskij incarni più lo spirito della rivoluzione, il lato ideologico che voleva davvero strappare ai ricchi per dare ai poveri e eliminare le differenze sociali, mentre Stalin rappresenti la crisi degli ideali del 1917 e l’instaurazione di una classica dittatura che si allontana sempre più dagli ideali primordiali.

Più Stalin prende potere e meno spazio viene dato a Trotskij, che nel frattempo raccoglie sempre più simpatie dai militanti sovietici che sono delusi dal fallimento della rivoluzione e sempre più diffidano della presa di potere di Stalin.

Ai dissidenti Stalin riservava , senza tanti indugi, l’eliminazione . Trotskij si vide costretto a fuggire dalla Russia e rimbalza da stato occidentale a stato occidentale, senza riuscire a trovare asilo politico.

Preoccupati per la situazione precaria del leader sovietico, Diego Rivera si appellò vocalmente all’allora presidente messicano Cárdenas e lo pressionò nel concedere l’asilo politico. A asilo concesso Diego Rivera e Frida Kahlo invitarono Trotskij e la moglie Natalia a soggiornare nella Casa Azul fino a quando ne avessero la necessità e il desiderio.

Tra i coniugi Rivera e Trotskij si formò un forte legame, che scaturì in una liason d’amore tra Frida e Leon. Come dicevamo prima, Natalia finisce per scoprire tutto e pretende di tagliare i ponti con i Rivera e di trasferirsi da un’altra parte.

La casa che occuparono i Trotskij da allora fu personalizzata secondo i bisogni di un esiliato che aveva ancora parecchi problemi di sicurezza, visto che Stalin era risolutissimo nello sbarazzarsi dei suoi avversari, specialmente una persona come Trotskij che rischiava di diventare il leader di un movimento ombra che avrebbe potuto scalzarlo dal suo trono.

Visitando la casa si passa attraverso le stanze adibite all’alloggio delle guardie di sicurezza personale del leader. Si accede poi alla casa principale, una casa dalle dimensioni ridotte ma dignitosa.

Casa di Trotskij a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Casa di Trotskij a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Le due stanze più famose della casa sono la stanza da letto, scenario del primo attentato alla vita di Trotskij da cui però esce illeso. Una notte un gruppo di comunisti infervorati e fedeli alle idee di Stalin tra cui uno dei tre famosi muralisti messicani menzionati ieri , Siqueiros, scaricano una pioggia di proiettili sulla casa del russo. I buchi dei proiettili sono ancora visibilissimi sulla parete.

Casa di Trotskij a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La seconda stanza importante è lo studio di Trotskij, luogo in cui soleva passare anche dieci ore al giorno lavorando incessantemente. Nel 1940 una spia sovietica riuscì ad eludere i controlli di sicurezza e penetrò lo studio, stroncando Trotskij in maniera cruenta mentre sedeva alla scrivania.

Casa di Trotskij a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Casa di Trotskij a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Nel giardino è possibile soffermarsi davanti a una stele con tanto di falce e martello e bandiera rossa sventolante che contiene le ceneri di Trotskij e della moglie Natalia, morta venti anni dopo a Parigi.

Casa di Trotskij a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Casa di Trotskij a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

È ora di concludere la mia giornata dedicata a Frida Kahlo visitando l’edificio- studio che la coppia Kahlo-Rivera occuparono negli anni ‘30, l’auge del loro periodo artistico e anche della crisi del loro matrimonio. Il problema è che la Casa Estudio Museo de Diego Rivera y Frida Kahlo è situata a una certa distanza dalla metro.

Studio la mappa dei trasporti e individuo la metro più vicina, che si trova comunque a due chilometri dal museo. Chiedo ai miei piedi un po’ più di forza e pazienza e mi avvio a passo spedito .

Passo per il quartiere di San Ángel che si rivela ancora un quartiere facoltoso e “ bene” come lo era al tempo dei Rivera. Tanto meglio, avevo qualche timore di finire in una zona desolata e poco frequentabile.

Arrivo alla mia meta stanca ma grata ancora una volta al mio cellulare e a Google Maps, la cui funzione gps funziona anche offline e mi ha salvata innumerevoli volte in questo viaggio dal perdermi.

Casa Estudio Museo Diego Rivera y Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La struttura come accennavo fu progettata da Juan O’Gorman, un discepolo di Le Corbusier, e si compone di tre strutture principali, una per Rivera, una per la Kahlo e una per O’Gorman.

Casa Estudio Museo Diego Rivera y Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mentre le ultime due al loro interno sono state spogliate dell’arredamento usato dai due artisti e sono ora adibite a gallerie d’arte, lo studio di Rivera è stato conservato così come lo utilizzava l’artista e arricchito dalla collezione privata di oggettistica messicana collezionata da Rivera durante la sua vita.
Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tutti e tre gli edifici vennero progettati per essere luoghi perfetti per le diverse creazioni artistiche dei tre, con attenzione allo spazio e alla luce.

La caratteristica più significativa della struttura è un ballatoio che collega gli studi di Rivera e della Kahlo che non può fare a meno di ricordare almeno simbolicamente la relazione tempestosa della coppia, in molti momenti della loro vita separati da interessi e volontà differenti ma sempre connessi l’uno all’altro da un filo che non li separerà mai completamente.

Casa Estudio Museo Diego Rivera y Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Casa Estudio Museo Diego Rivera y Frida Kahlohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lascio il museo e macino altri due chilometri per tornare verso la metto. Il sole sta cominciando a calare e come Cenerentola sento il bisogno di tornare a casa prima della scocco dell’ora in cui voglio essere a casa.

Di ritorno nella mia zona decido di passare per il supermercato poco lontano, faccio un giro un po’ più lungo per raggiungerlo e intravedo una bellissima libreria di quelle all’antica, stipata di libri vecchi. Io non resisto a nessuna libreria, soprattutto a una libreria del genere, vedo alla tentazione e entro.

A mio malincuore non ho intenzione di comprare, davvero lo spazio nello zaino non ce l’ho, ma mentre sto per uscire intravedo un’ammasso di libri sovrastati da un messaggio che spiega che i libri in questione appartengono a un maestro pensionato la cui casa è stata danneggiata dal recente terremoto e, che nel comprare uno dei libri della collezione dell’ex maestro, i soldi spesi andranno direttamente al supporto economico del povero padrone.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I miei occhi cascano su un bel dizionario italiano-spagnolo e penso che sia il destino che mi chiama, pago un euro e cinquanta e me lo porto a casa.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mentre lo sfoglio scopro che è stato stampato nel 1942 a Buenas Aires. Mi chiedo come sia arrivato a Città del Messico dall’Argentina e fantastico sulle mille cose che deve aver visto questo libricino, rallegrandomi nel pensare che la sua avventura non è ancora finita e che ora potrà aggiungere la Norvegia come nuova, avventurosa residenza! Un vero globe trotter.

CDMX parte 1: vagoni speciali, musei chiusi, mariachi annoiati e un’assaggio di muralisti e Aztechi

***CDMX è una delle abbreviazioni piu popolari per Ciudad de México, Città del Messico. Siccome il nome è troppo lungo spesso si adotta questa sigla a livello scritto e a livello orale la citta viene spesso chiamata semplicemente “México” o ” DF”, che vuoldire Distrito Federal ed è il nome dello stato che contiene Citta del Messico ***

L’autobus parcheggia agli arrivi della stazione TAPO di Città del Messico.

Si conclude così il mio ultimo tragitto dopo tre mesi e chissà quanti chilometri macinati a bordo di tanti autobus. Devo dire che un po’ mi dispiace, perché i tragitti in bus mi sono sempre piaciuti, dandomi la possibilità di vedere un po’ di più di ogni paese anche in zone in cui non sarei mai passata ( quando non mi addormento).

Ho avuto la fortuna di viaggiare su molti mezzi confortevoli e lussuosi ma anche col lusso i tragitti lunghi sono sempre un po’ più intensi.

Pian piano, però, la mia nozione di ciò che è lungo e corto raggio è mutata considerabilmente.

Ricordo di essermi resa conto per la prima volta di quando “viziati” siamo noi europei per quanto riguardano le distanze quando vivevo a Lisbona, i primi giorni di lavoro in ostello, quando brasiliani, americani, australiani, insomma chiunque non fosse europeo, mi chiedevano quando distasse una certa meta. Noi europei tendiamo a considerare un tragitto di quattro o sei ore come non necessariamente lunghissimo ma insomma, neanche una gita fuori porta. Per molte persone al di fuori dell’Europa, abitando in paesi che delle volte sono grandi quasi come tutto il nostro piccolo continente quattro o sei ore sono una bazzecola, e quando io spiegavo loro che la tale destinazione era lontanuccia e dicevo loro quanto ci avrebbero messo si mettevano invariabilmente a ridere.

Mai fidarsi di un europeo in fatto di distanze.

Mi riapproprio del mio zaino che comincio a sopportare a malapena e mi caccio dentro a un taxi che mi molla davanti alla mia “ casetta” per i prossimi otto giorni.

Si chiama Capsule hostel e in concetto cerca di imitare appunto i famosi omonimi giapponesi. Le capsule alla fine non sono vere capsule ma letti singoli separati da pareti di cartongesso e dotate di una tendina per avere della privacy, che a me va più che bene.

Sono contenta della mia “ capsula” ma l’atmosfera nel resto dello stabilimento non mi convince. Non esiste una area comune dove potersi rilassare al di fuori del proprio letto, niente cucina, delle docce che sembrano le docce delle carceri e uno staff apparentemente assente.

Entro nel dormitorio e mentre sistemo lo zaino e organizzo le mie cose sento una delle mie compagne di stanza piangere soffocatamente. Un po’ mi dispiace ma non so cosa farci.

Ne approfitto della presenza del sole pomeridiano per mettere un po’ il naso fuori. Per fortuna l’ostello si trova vicino alla “ zona rosa” , una zona un po’ più facoltosa e tranquilla che si traduce in più tranquillità e sicurezza, per quanto possibile in una metropoli come Città del Messico. Trovo un centro commerciale e mi lancio alla ricerca di un paio di pantaloni dato che i miei si sono strappati platealmente e rovinosamente mentre mi sedevo nel taxi preso a Puebla per andare in stazione.

Ho otto giorni qui a Città del Messico e sento che mi serviranno tutti. Più studio il da farsi sulla guida e più scopro che 1) la città è più grande di quello che pensi, ogni spostamento impiega una certa quantità di tempo e 2) ci sono mille cose da fare e da vedere.

Da una parte sono consapevole che la maggior parte della gente che viene a visitare questa città ha molti meno giorni eppure riesce a vedere qualcosa, e dall’altra parte ho quasi il timore che 8 giorni non mi bastino per vedere tutto quello che voglio vedere.

Ciononostante, siccome arrivo la domenica pomeriggio ed è comunque un giorno morto, il primo giorno non faccio nient’altro che girovagare frivolamente per il centro commerciale. Ogni tanto ci vogliono anche questi momenti di monotona mondanità.

Ritorno nel mio dormitorio e la mia compagna di stanza si è rianimata. Parla molto, e parla a voce abbastanza alta. Vorrei darle la sua privacy ma siccome mi sta praticamente strillando nelle orecchie non posso fare a meno di ricavarne una biografia delle volte più dettagliata di quello che avrei voluto. È californiana, ha i genitori divorziati che non si rivolgono la parola, qualche giorno fa ha rischiato di svenire in doccia per via di un’acuta sindrome premestruale e l’altro ieri si è svegliata con una diarrea intensa, ci risparmio il resto. C’è qualcosa di strano nel suo tono di voce, in come articola i suoi pensieri e nei contenuti dei suoi lunghi monologhi. Ripete spesso le ultime parole che ha detto, ride nervosamente e devo ammettere che delle volte ho il sentore che dall’altra parte della linea non ci sia nessuno e che stia semplicemente parlando da sola. Mi ricorda marcatamente il personaggio di Dori in Alla ricerca di Nemo. Appunto, non è piacevole avercela in camera.

Metto i tappi nelle orecchie e spero che a un certo punto si addormenti.

È lunedì e ho dormito profondamente, un sonno indisturbato perennemente patrocinato dai miei favolosi tappi.

Studiando brevemente la guida la sera prima ho potuto constatare che tutti i musei oggi sono chiusi, anche se eccezione sembra fatta per una delle attrazioni che mi hanno fatto decidere di venire in Messico e che sogno di visitare ormai da anni : la casa natale di Frida Kahlo!

Se la guida dice che è aperta io mi fido e non resisto, ci pianifico tutta la giornata attorno.

La casa natale di Frida Kahlo si trova in un quartiere a sud del centro, relativamente fuori mano, chiamato Coyoacan. Ci si arriva prendendo la metro.

Mi dirigo verso la fermata della metro più vicina e compro il mio primo biglietto. Studio brevemente la mappa del circuito e individuo la mia fermata.

Ho subito modo di confermare un fatto di cui avevo sentito parlare già da settimane: nella metro di Città del Messico, soprattutto durante le ore di punta , almeno due vagoni del treno sono dedicati esclusivamente alle donne e ai bambini al di sotto dei 12 anni . Questa è una misura che mira a proteggere soprattutto le donne, molto spesso vittime di attenzioni non richieste, più o meno invadenti.

Chiaramente è il vagone che decido di utilizzare ma non posso fare a meno di sentire una certa tristezza mista a della rabbia vedendo che sostanzialmente , al posto di concentrarsi nel cambiare la mentalità e le attitudini di certi uomini, le autorità messicane abbiano deciso di mollare la spugna sul nascere e di confermare al mondo che non è colpa dell’aggressore ma della vittima. Non è l’uomo che deve cambiare atteggiamento, è la donna che si deve isolare, che deve provare timore e vergogna per essere nata con una vagina.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Osservando il sistema durante la giornata ho modo di constatare che non funziona nemmeno a dovere: nonostante le barriere che separano i vagoni normali, a cui ovviamente hanno accesso anche le donne ma “ a rischio loro” poco o niente viene fatto quando qualche sporadico uomo monta sui vagoni femminili, perfino con la polizia presente.

Arrivo a Coyoacan e, raccapezzatami finalmente della mia posizione sulla cartina, imbocco la via della casa di Frida Kahlo. Quasi d’improvviso dietro a una casa spunta il blu elettrico dell’edificio che cerco e un po’ mi emoziono. Finalmente, dopo anni, eccomi qui!

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La casa sembra tranquilla.

Un po’ troppo tranquilla.

Mi paro davanti all’entrata e ovviamente il portone è chiuso e la mia guida si è dimenticata di aggiornarsi specificando che il lunedì anche la casa di Frida Kahlo è chiusa.

Mando giù il boccone amaro e la frustrazione di aver perso una preziosa ora dei miei scarsissimi otto giorni per niente, faccio per allontanarmi quando un gringo mi ferma.

“ parli inglese?”

“Si” rispondo.

“ e spagnolo?”

“Mah me la cavo”

“ bene. Hai dieci minuti? Ho bisogno disperato del tuo aiuto”

Il gringo è un avvocato di Chicago in visita di lavoro a Città del Messico. La sua giornata lavorativa oggi è finita più presto del previsto e si stava facendo accompagnare da un tassista alla casa di Frida Kahlo per ammazzare un po’ di tempo prima del suo volo pomeridiano per Chicago. Arriva a destinazione e non fa in tempo a scendere che il taxi sfreccia via a tutta birra. Con la sua giacca sul sedile di dietro.

E il portafogli.

E il passaporto.

Ho qualche nano-secondo per capire se questa storia sia una grande balla o no. Decido di seguirlo ma in maniera furtiva, pronta a sbarazzarmene ad ogni secondo. Sono comunque in una zona con persone attorno e mi sembra di avere la situazione sotto controllo.

Troviamo un telefono pubblico e l’avvocato chiama la compagnia aerea.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sentendo che continua con la sua storia mi rilasso capendo che sta dicendo la verità. Il mio spagnolo non gli torna utile perché alla fine ( ma va?) gli addetti della linea aerea parlano inglese , ma riattaccando mi spiega che riuscirà a farsi fare una copia della sua carta d’imbarco solo se qualcuno gli “ presta” un documento di identità.

Aiutarlo con qualche frase in spagnolo mi va bene ma correre all’aeroporto con lui e prestargli un mio documento è totalmente fuori discussione, vorrei aiutarlo ma mi invento che ho un’appuntamento e che comunque, ed è quasi vero, non ho documenti con me. Finisce così la mia bizzarra avventura mattutina con l’avvocato di Chicago a Coyoacan che corre per strada cercando qualcuno che gli presti un documento.

Cammino per una mezzoretta e raggiungo di nuovo la metro. La maggior parte delle cose che voglio fare in questa città sono musei o attrazioni che quindi sono tutte chiuse oggi, così non mi rimane che andare a vedere il Zócalo, ossia la famosa piazza centrale, e il centro storico.

Arrivo alla stazione del Zócalo e mentre risalgo la scalinata che spunta nella piazza faccio di tutto per concentrarmi sugli scalini. Voglio arrivare sulla sommità e aprire improvvisamente gli occhi per trovarmi davanti lo Zócalo.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ta dah. Una piazza enorme, quasi quadrata , 220m da nord a sud e 240m da est a ovest. Una delle più ampie al mondo. Peccato che in questi giorni stiamo allestendo qualche decorazione natalizia e non ci si possa camminare in mezzo.

Ma soprattutto, la storia che trasuda questo posto!

La piazza principale di Città del Messico sorge imponente esattamente dov’era situato il centro della mitica città di Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi.

Rimando la mia piccola introduzione sulla storia degli Aztechi a un prossimo post ma per ora vi basti sapere che Tenochtitlán fu costruita a partire da un piccolo isolotto in mezzo a un lago.

Si, di questo lago ora non c’è più traccia, fagocitato da Città del Messico, ma nelle sue origini tutto questo territorio era pura acqua .

Tenochtitlán si sviluppò e divenne una città sofisticata e grande. Quando arrivarono gli spagnoli la città contava dai 200.000 ai 300.000 abitanti, una delle città più grandi del mondo all’epoca, e ne rimasero così colpiti nel vederla la prima volta che, scrissero, “ a molti di noi pareva di essere in un sogno”.

Ormai sappiamo come reagivano i conquistadores a queste cose: nel giro di qualche anno rasero al suolo la città e ne eliminarono qualsiasi traccia “ pagana”. La nuova piazza principale con annessa mastodontica cattedrale venne costruita esattamente a fianco del centro cerimoniale e religioso più famoso di tutto l’impero azteco, il Templo Mayor , che venne prontamente distrutto dagli spagnoli.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Cortés osò addirittura utilizzare le pietre per pavimentare la piazza!

Alla piazza principale venne dato il soprannome di Zócalo, che significa “base” o “ zoccolo” , nel 19esimo secolo quando venne eretta un’enorme base nel centro che sarebbe servita come appoggio per un’enorme monumento all’indipendenza messicana, mai compiuto. Ad oggi molte piazze messicane hanno adottato lo stesso soprannome proprio per omaggiare l’importante piazza principale della capitale.

Ho modo di avvistare con la coda dell’occhio i resti del mitico Templo Mayor ma faccio di tutto per evitarlo e per potermelo gustare quando potrò effettivamente entrarci, dato che oggi è chiuso.

Passo velocemente davanti alla cattedrale e più che la chiesa ciò che attira la mia attenzione è un vetro sulla pavimentazione dell’entrata che permette di vedere le macerie azteche situate proprio sotto al luogo di culto. Purtroppo la luce del sole non ha permesso che riuscissi a fotografarla decentemente.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mi immetto così in uno dei corsi principali che irradiano dallo Zócalo e seguo la direzione in linea d’aria per raggiungere la Torre Latinoamericana, un alto grattacielo da cui sembra si goda una bella vista. Smog permettendo, avverte la mia guida.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Arrivata alla base raggiungo prima il baretto al nono piano da cui si gode già una vista molto bella sulla vicina Piazza Alameda e il Palacio de Bellas Artes, un’altra delle mie bramate mete che è chiusa oggi e che quindi evito per non rovinarmi la sorpresa. Ho modo di constatare che anche se non sono sulla sommità è abbastanza difficile vedere l’orizzonte, avvolta com’è la città dallo smog. Rimando la visita ai piani superiori magari a un’altro giorno, sperando che non ci sia sempre tutto questo smog .

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mi perdo un po’ per le strade del centro e percorro un bel corso affollatissimo.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Scopro che perfino Città del Messico ha una Chinatown, anche se è in fase di ripavimentazione totale e non c’è niente di attrattivo da vedere.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Passo anche attraverso un bel giardino pubblico, un polmone verde tanto necessario a una città così mostruosamente grande.

Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ritorno verso lo Zócalo e mi siedo dentro alla cattedrale per riposare un po’ le gambe in maniera gratuita e per poter sfoderare la mia guida , che preferisco non consultare troppo vistosamente per strada. Leggendo e rileggendo ho il sentore che una delle mie mete sia visitabile anche oggi e mi ci dirigo.

Apro una piccola parentesi.

Persone.

Persone ovunque.

Le vie del centro trasudano di persone, è come se questa città fosse un grande formicaio di esseri umani. Ormai è da un po’ che non ho più il semi -shock di ritrovarmi in una città, cosa che succede se si vive per quattro anni in Norvegia al di fuori di Oslo, ma Città del Messico supera tutte le città che ho visitato in questi ultimi tre mesi. La mia compagna di stanza a Oaxaca diceva di Città del Messico che con così tanta gente , almeno 22 milioni di persone, sembra vigere un concetto diverso di spazio personale, più ridotto, per necessità vista la marea di persone ovunque, a qualsiasi ora. È solo il primo giorno e già concordo con lei.

Arrivo all’entrata della Segreteria per l’Educazione pubblica, che suppongo sia essere il ministero per l’educazione messicano. Essendo un luogo di lavoro oggi ovviamente è aperto. Parlo con i poliziotti che proteggono l’entrata, capiscono che non sono qua per lavoro, richiedono un documento d’identità e, passato il metal detector, mi prestano un pass da indossare che dice “ turista”.

Ma perché sono venuta qui?

Per dei murales speciali.

Il Muralismo fu un movimento artistico che si sviluppò in Messico negli anni ‘20 del ventesimo secolo con l’appoggio dell’allora ministro dell’educazione, che voleva commemorare le gesta della recente rivoluzione messicana. Attraverso grandi murales gli artisti, e soprattutto i “ grandi tre” Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, puntavano a ritrarre ed esaltare le gesta della rivoluzione e soprattutto temi cari ai rivoluzionari: l’importanza della storia e della cultura messicana e il bisogno di cambiamenti tecnologici e sociali.

Dei grandi tre Rivera era quello che tendeva più a sinistra e soleva enfatizzare il lato indigeno e “ lavoratore” del suo Messico. Forse ne avete già sentito parlare perché era il marito di Frida Kahlo, anche se quando erano in vita Rivera era decisamente più famoso di lei.

Orozco era meno politico e più “ filosofico”, volendosi concentrare maggiormente su emozioni e atmosfere.

Siqueiros infine era un Marxista convintissimo e ritraeva spesso gli oppressi e gli oppressori.

Il bello di essere interessati nel Muralismo messicano e essere a Città del Messico è che praticamente tutte le opere maggiori di questo filone artistico si trovano qui, e alcune di trovano proprio dove me ne sto ora, la Secretaría de Educación Pública.

Entro e mi imbatto subito in un’opera di Siqueiros che mi lascia a bocca aperta. A voi il giudizio.

Murales di Siqueiras a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Murales di Siqueiras a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Murales di Siqueiras a Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Proseguo verso un corridoio e l’edificio si apre in una bellissima corte dominata da dei bei alberi.

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tutt’attorno e per due interi piani si articolano i murales commissionati nel 1923 a Diego Rivera dedicati alla vita del popolo messicano, sempre con l’enfasi sulle difficoltà dei lavoratori e i difetti degli oppressori.

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

In uno di essi è possibile riconoscere un personaggio chiaramente ispirato alla moglie Frida.

Segreteria dell’educazione pubblica, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Purtroppo le foto rendono molto molto poco la bellezza di queste opere dal vivo.

Me ne esco contenta come una pasqua ma mi affretto perché sono già le tre e mezza. Tutte le metropoli sono in grado di essere un po’ intense dopo che il sole scompare oltre l’orizzonte, soprattutto il centro, e non ho di certo intenzione di trovarmi qui la sera e dover poi prendere la metro.

Continuo il mio percorso e mi imbatto nell’antico edificio dell’Inquisizione spagnola, adibito a questo uso fino alla sua chiusura nel 1812.

Palazzo dell’Inquisizione , Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Entro in una zona che, come dire, comincia a sembrarmi un po’ sospetta. Provvedo ad accelerare il passo, sorpasso e mi smarco da chiunque decisa a concludere presto la mia giornata di visita.

Arrivo all’ultima destinazione di oggi, Piazza Garibaldi.

Piazza Garibaldi, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La mia guida ne parla come un posto colorato anche se c’è da guardarsi bene attorno nonostante i miglioramenti in fatto di sicurezza apportati negli ultimi anni. Arrivando nella piazza capisco di cosa parlano. Se da una parte ci sono nuovi interventi moderni e molti localini, segno che qui si viene per divertirsi, la popolazione locale sembra, che dire, un po’ sospetta.

Noto anche un’altra cosa nominata dalla mia guida ossia intere bande di Mariachi, i tipici musicisti messicani che cantano e suonano canzoni tradizionali vestiti di tutto punto, che bazzicano numerosi nella piazza.

L’attività per eccellenza in piazza Garibaldi infatti è bere qualche bicchierino di tequila o Mezcal e farsi serenare da una banda Mariachi. Quando arrivo io però è ancora presto sia per i bicchierini che per le serenate, e mi diverto ad osservare tutti questi Mariachi in fase di riposo: chi fissa il vuoto , chi affina la chitarra, chi chiacchiera con i colleghi e perfino un paio che giocano a carte. Riesco a fare qualche foto ma vengono fuori un po’ incerte perchè non mi sento a mio agio a sfoderare la macchina fotografica in questa zona.

Mariachi annoiati in Piazza Garibaldi, Città del Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il sole sta pian piano calando ed è ora di battere in ritirata. Trotto con passo deciso e con il muso a mo’ di “ nun me disturbà” verso la stazione della metro e osservo una nutrita presenza di forze dell’ordine dentro e fuori dalla stazione, segno che non è solo mia impressione che questa sia una zona poco raccomandabile.

La metropolitana è affollata e mi getto a colpo sicuro nel mio orribile vagone per sole donne e tiro un sospiro di sollievo sapendo che torno in una zona tranquilla nella mia cameretta quasi privata.

Giorno numero uno a Città del Messico: fatto!

Penultima tappa: Puebla e la piramide più grande del mondo

Arrivo a Puebla dopo circa sei ore totali di viaggio in autobus, l’ultimo spostamento più o meno lungo in questo viaggio.

Mollato lo zaino in ostello mi aggiro velocemente per il centro in cerca di cibo e ho già modo di constatare che Puebla sembra proprio una bella città, meno ispanica ma decisamente dal gusto europeo, almeno architettonicamente.

Mi siedo a una taqueria consigliata dalla mia guida e mi sbafo una delle specialità di questa città così famosa nel resto del paese per la sua gastronomia, un “ taco arabe”. Una tortilla (per la prima volta da quando sono in Messico trovo una tortilla fatta di farina di grano e non di mais) avvolge deliziose scaglie di maiale tagliate da un tubo di carne previamente marinata in peperoncino, spezie varie e ananas che viene grigliata a fuoco vivo. Se vi sembra che abbia appena descritto il kebab beh, non avete poi torto. La carne al pastor, così si chiama questo tubo di carne, è uno dei ripieni da taco più popolari in Messico e nasce a partire proprio dall’influenza del cibo portato dalla comunità libanese e più generalmente mediorientale che decenni fa si stabilirono in questa zona del mondo.

Con la pancia piena e l’animo felice torno in ostello dove ozio per un po’ ,addormentandomi poco dopo su un letto incredibilmente comodo.

La mattina mi sveglio alle 8, decisa nello spicciarmi per poter andare all’avanscoperta di Puebla il prima possibile.

Mi aggiro per la griglia di strade del centro, ma è quasi deserto. Sembra un po’ siano le sei del mattino, quando ci si imbatte solo in qualche lavoratore mattutino e i negozi sono tutti chiusi.

Ho sentito parlare di un museo, il Museo Amparo, che ospita una collezione di artefatti pre-ispanici molto interessante e, dopo le meraviglie viste al museo del sito archeologico di Palenque qualche settimana fa, non ho intenzione di perdermelo.

Il museo apre alle dieci, così ho letto, e per fortuna che sono le dieci meno tre quando ne individuo l’ubicazione. Una guardia staziona all’entrata e chiedo se il museo è già aperto: il giovane ragazzo mi risponde educatamente che no, il museo apre alle solo alle dieci . Ringrazio per l’informazione e aspetto qualche minuto in modo che scocchino le dieci, approfittandone per consultare un po’ la mia guida.

Le dieci e due minuti, mi riavvicino all’entrata e il ragazzo gentile è stato sostituito da un’altra guardia, una giovane ragazza. Chiedo se il museo è già aperto, lei mi risponde seriamente che il museo apre solo alle dieci. Capita, penso, qualche minuto per ultimare i preparativi per poi aprire. Mi rannicchio in un angolo e mi rituffo nella lettura della guida.

Alle dieci e quindici non sembra essere cambiato niente e ho paura che si siano dimenticati di dirmi che ormai è aperto. Chiedo alla ragazza giovane se il museo è aperto, lei mi risponde con una nota velatamente stizzita che no, il museo apre solo alle dieci.

Rinuncio a capire che fuso orario adotti il Museo Amparo di Puebla e vado a farmi un giro per il vicinato, che nel frattempo sembra svegliarsi solo un po’.

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Osservo molte chiese e qualche edificio ancora danneggiato dal terremoto circa due mesi fa.

Lavori di ricostruzione dopo il terremoto, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lavori di ricostruzione dopo il terremoto, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Verso le dieci e quaranta ritorno al Museo Amparo sperando che siano finalmente le dieci, ritrovo la giovane ragazza a cui chiedo ormai per la terza volta se il museo è aperto, anche se stavolta un po’ più scettica. Con un tono di velata ovvietà la giovane ragazza mi dice che Certo, il museo è aperto!

Ci manca solo che mi ribadisca che è aperto già dalle dieci.

Nel giro di poco scopro che l’entrata è gratuita e mi compiaccio dei soldi che non devo sborsare.

Il Museo Amparo è diviso su tre piani, uno dedicato all’epoca pre-ispanica, uno all’epoca di dominazione spagnola e uno a esposizioni di arte moderna. Io mi concentro a pieno sull’epoca pre-ispanica.

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Le prime sale sono dedicate a una serie di spiegazioni sul contenuto della collezione, che raccoglie svariati reperti provenienti da tutta la Mesoamerica.

Viene chiarificato il concetto di Mesoamerica per quel che riguarda lo studio delle culture pre-ispaniche in Messico, che comprende l’area del centro e del sud dell’odierna federazione Messicana. Si tende a raggruppare sotto la stessa ombrella di civiltà mesoamericane una serie di culture a se stanti con storie differenti, tratti peculiari e sviluppi in tempi molto diversi, ma che sono tutte accomunate da una serie di elementi che le distinguono, per esempio, dalle culture sviluppatesi nel nord del Messico.

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Già dai primordi la grande differenza fu che nel nord del Messico e sud degli odierni Stati Uniti le popolazioni autoctone erano principalmente cacciatori mentre nella Mesoamerica si prediligeva l’agricoltura.

Le coltivazioni delle civiltà mesoamericane si svilupparono e contribuirono a sfamare società che pian piano si concentrarono in centri urbani. Emersero vari centri abitati che cominciarono a distinguersi tra di loro ma che mantennero sempre forme di contatto, che fosse via immigrazione e emigrazione, via matrimoni misti o anche a causa della guerra, e ovviamente commercio.

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tutti questi scambi, alcuni pacifici e altri meno, contribuirono a formare una sorta di base culturale comune: una mitologia composta dagli stessi dei e leggende, tratti culturali diffusi praticamente in tutte le società mesoamericane come il noto gioco della pelota e i sacrifici umani e l’uso di codici e calendari composti da 260 e 365 giorni.

Il museo raccoglie reperti archeologici di varie culture mesoamericane di epoche molto diverse, dai Maya agli Olmechi passando per varie societá originarie degli odierni stati messicani di Veracruz e Jalisco.

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La varietà di oggetti e la tecnica sopraffina utilizzata per produrli è impressionante. Non posso fare a meno di immaginarmi archeologa dopo giorni e giorni di frustrazioni , scavando e scavando senza trovare nient’altro che pietre, e a un certo punto trovo uno di questi reperti, certi che sembrano davvero essere stati scolpiti l’altro ieri. Che visione, che soddisfazioni!

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Museo Amparo, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Continuo la giornata passeggiando per le belle vie di Puebla, alternando la giacca nell’ombra e le maniche corte sotto il sole.

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Puebla è famosa in tutto il Messico soprattutto per due cose: la sua cucina e le sue ceramiche.

La ceramica era un’arte in cui l’area attorno a Puebla era già rinomata prima che arrivassero gli spagnoli. I colonizzatori, però, portarono nuove tecniche e materiali facendo si che la ceramica poblana arrivasse alla raffinatezza e alla notorietà che gode al giorno d’oggi.

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Per capire Puebla però bisogna includere un’altro posto nella propria visita: Cholula.

Ubicata a una decina di chilometri da Puebla, Cholula si sviluppò come importante centro religioso dall’anno 1 al 600 dopo Cristo, allo stesso tempo in cui l’imponente città-stato di Teotihuacán fioriva solamente 100km più a nord. Dal 600 dopo Cristo, Cholula venne invasa dagli Olmechi e dal 900 al 1300 dopo Cristo cade nelle mani probabilmente dei Toltechi. Per circa cento anni prima dell’arrivo degli spagnoli Cholula passò sotto il controllo degli Aztechi, come un po’ tutto il Messico centrale.

Nel 1519 Cholula contava circa 100000 abitanti, un numero notevole al tempo sia a livello mesoamericano che europeo. La famosa piramide di Tepanapa, le cui basi risalgono alla fondazione di Cholula e a cui vennero aggiunti vari strati di ulteriori mura e decorazioni da parte dei vari dominatori, a mi’ di matrioska, si trovava abbandonata da ormai molto tempo. Era così abbandonata che la natura l’aveva completamente coperta, mimetizzandola alla perfezione.

Hernán Cortés venne a Cholula con un contingente di compari suoi, seguendo la richiesta dell’imperatore azteco Montezuma. Quello che gli spagnoli non sapevano, però, è che Montezuma aveva teso loro una trappola: il piano era di fare i pacifici e simpatici con gli europei e mandarli con una scusa a Cholula , dove li avrebbero attesi degli alleati Aztechi, i Tlaxcala, che li avrebbero attaccato a sorpresa.

L’unica cosa che salvò gli spagnoli fu che i Tlaxcala, che nutrivano da anni dei risentimenti contro gli Aztechi, rivelarono il piano a Cortés, che reagì scatenando la sua ira su 6000 abitanti di Cholula per poi permettere ai Tlaxcala di saccheggiare la città.

Entrata nella sfera di dominio spagnola a Cholula vennero edificate numerose chiese, il gesto tipico degli spagnoli per affermare il proprio potere sulle culture preesistenti. Puebla venne fondata a pochi chilometri di lontananza in modo da diminuire l’importanza di Cholula.

Nel 16esimo secolo si costruì l’ennesima chiesa a Cholula, un bell’edificio giallo e bianco situata su un’imponente collina che domina tutto il centro.

Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Solo che non è una collina normale.

Sotto la folta vegetazione infatti si trova ancora l’enorme piramide di Tepanapa! Si stima che questa sia la piramide più grande del mondo, superando in dimensioni perfino le piramidi egiziane, anche se è difficile rendersene conto perché la maggior parte della struttura è e continuerà ad essere coperta.

Negli ultimi decenni si è proceduto a scavare e portare alla luce delle sezioni di questa piramide.

Piramide di Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Piramide di Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sono stati rinvenuti ed esplorati almeno 8km di tunnel sotterranei, parte di vari strati delle piramidi costruite una sopra all’altra, e ad oggi quasi 800m sono accessibili al pubblico.

Il secondo giorno a Puebla lo dedico alla scoperta di Cholula.

Prendo un bus urbano in centro a Puebla e nel giro di una ventina di minuti mi ritrovo nella piacevole piazzetta principale di Cholula, dagli edifici colorati e decorata da imponenti chiese ispaniche.

Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

A soli due quadre dalla piazza principale si erge questa enorme collina sormontata da una chiesa gialla.

Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Pago l’entrata che mi catapulta immediatamente nel tunnel sotterraneo visitabile, un posto decisamente da incubo per chiunque soffra di claustrofobia. È incredibile pensare che sto camminando all’interno di una piramide di più di mille anni.

Piramide di Cholula, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Piramide di Cholula, Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sbuco di nuovo fuori e cerco il cammino che porti sulla sommità della piramide per constatare se la mia guida , che dice che la gita varrebbe la pena anche solo per le viste mozzafiato che si godono dalla chiesa gialla. Dopo un paio di tentativi falliti e una lunga camminata lungo tutto il perimetro della piramide-collina, scopro che per ora l’accesso alla sommità è vietato.

Osservando la chiesa vedo che ha riportato ingenti danni durante il terribile terremoto che ha affettato questa area quasi tre mesi fa.

Un po’ ( tanto) delusa di non potermi godere la vista, vado a scoprire la parte di piramide riportata alla luce. Capire dove cominci e dove finisca uno strato di piramide, la matrioska dentro la matrioska, è un po’ complicato ma è possibile distinguere motivi e costruzioni in stile differente.

Piramide di Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Piramide di Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Piramide di Cholula, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Dopo qualche ora a Cholula me ne torno a Puebla, approfittandone per un’ultima passeggiatina in centro. Più che lo stile coloniale ispanico qui sembra fare da padrone l’architettura di stile europeo di fine 800/ inizio 900.

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Nonostante stia viaggiando leggera e durante questi tre mesi ho dovuto dire di no all’acquisto di molti magnifici oggetti, siccome sono in dirittura finale questa volta mi permetto di comprarmi due nelle tazze in ceramica fatte a mano. Mentre pago la proprietaria mi suggerisce di andare a vedere la piccola esposizione al piano superiore, dove vengono conservati una serie di teschi zapotechi, originari di Oaxaca e risalenti a quasi 1000 anni fa. Sembra che appartenessero a figure importanti nella civiltà zapoteca e che, dopo la loro morte i sudditi conservassero questi teschi, decorandoli, per poi farli oggetti di venerazione.

Teschi zapotechi decorati , Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Finisce anche la mia avventura a Puebla e con essa la penultima meta del mio viaggio. Domani mi sposto verso l’ultima destinazione che spero culmini alla grande questo lungo viaggio:

Città del Messico.
Puebla, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende e il vino messicano

Il viaggio comincia ad entrare nella sua parabola finale.

Da Guanajuato prendo il bus verso la vicina San Miguel de Allende, così vicina che il trasporto si rivela il più rapido tra città ( un’ora e mezza) di tutto il viaggio .

Dopo aver parlato con qualche viaggiatore che arrivava a Guanajuato dopo San Miguel de Allende ho cominciato a dubitare l’inclusione di questa cittadina nel mio itinerario: carinissima città coloniale, mi dicono, ma un po’ troppo piccola/tranquilla/simile a Guanajuato. Ho come il presentimento che se anche la saltassi non me ne accorgerei poi molto, soprattutto dopo tre mesi suonati di cittadine in stile ispanico coloniale, però mi sento un po’ in colpa ad esserci così vicino e non darle neanche una chance.

Studio le possibilità su internet e in effetti non sembra esserci molto da fare, anche se scopro con piacere che attorno a San Miguel de Allende si trova una delle principali zone vinicole del Messico. Decido quindi di dirigermi a San Miguel de Allende dandomi due giorni completi, uno per la visita del centro e un’altro per la visita a un’azienda vinicola con cui ho preso contatto.

Arrivo a San Miguel de Allende verso le quattro del pomeriggio, camminando verso l’ostello ho modo di intuire quanto concentrato sia il centro. Penso sia meglio rimanere a “ casa” per tutta la sera, così non consumo subito tutto quello che devo vedere. Mollo lo zaino nel mio ostello che sembra un po’ a un hotel economico che prova a travestirsi da ostello, mi annoio all’istante e penso che solo una piccola passeggiata non può farmi male. Solo sulla via dell’ostello, per non rovinarmi la visita del centro domani.

Purtroppo finisce anche la via e sono ancora annoiata, così continuo ancora per un po’. Alla fine non riesco ad evitare il centro ed ecco, mi sembra di avere già visto tutto quello che dovevo vedere a San Miguel de Allende.

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mi rifugio in un baretto pittoresco pregustandomi un bicchiere di vino locale.

Niente vino locale, mi avvisa il cameriere, solo vino argentino. Uffa, e va bene andiamo di vino argentino.

Sfoglio la guida, bevo il mio bicchiere e comincio a rilassarmi. Pago il conto e mi immetto di nuovo nelle stradine di San Miguel de Allende cercando un posto dove cenare. Trovo un ristorante argentino ma la bisteccona va oltre il mio modesto budget di viaggiatrice zaino in spalla, così mi accontento di una deliziosa caprese ( ogni tanto ci vuole il cibo di casa, sorry) e un’altro bicchiere di vino, stavolta messicano.

Ritorno verso l’ostello decisamente…alegrotta, ormai non bevevo vino da secoli, e mi addormento di botto.

La mattina dopo mi sveglio senza fretta sapendo che non mi aspetta una grande visita. Scambio qualche frase con uno dei miei compagni di stanza, un camionista sulla sessantina di Veracruz.

Vi ricordate che dicevo che questo ostello sembra un po’ un hotel travestito da ostello? Non lo dico solo per via della decorazione del posto ma anche visti gli ospiti che attira: metà della clientela sembrano essere viaggiatori zaini in spalla attirati da un paio di foto invitanti su Hostelworld e l’altra metà é composta da messicani di varie tipologie, dalla famiglia con bambini di passaggio a camionisti e lavoratori vari in cerca di una notte di riposo. Io sono finita in un dormitorio di soli lavoratori locali, non so come. All’inizio mi sono un po’ impensierita ma vedendo che nessuno mi fila di striscio mi sono tranquillizzata e ho fatto casetta sul mio letto a castello.

Il camionista di Veracruz mi rivolge la parola la mattina appena sveglia, quando mi vede scendere dal mio letto. “ Chica”, esordisce, “ Quando vai a fare la doccia dimmelo che ti lascio il dormitorio tutto per te, così puoi fare le tue COSE DA DONNA” . Io lo ringrazio, gli dico che non c’è bisogno, e cominciamo a parlare.

Si rivela un appassionato di storia e di arti pittoriche, ascolta alcune storie del mio viaggio, mi chiede dell’Italia e della Norvegia.

Mi chiede quanto sono alti i norvegesi odierni e mi spiega che quando erano ancora vichinghi erano alti “ dai 2metri e 30 ai 2 metri e 70, CIRCA”, lo hanno stabilito gli storici (?) che hanno scoperto che le spade che usavano pesavano ben 7 chili e, è ovvio, solo un individuo così alto poteva maneggiarla con facilità.

Il camionista ha anche numerose teorie sul significato dei copricapi con le corna. Io ascolto, annuisco e uso le parole più utili che esistano in qualsiasi lingua impariate : “ Pues” (= Giá, eh già), “ Claro” e combinazioni varie, “ Si Pues” “ Pues Claro” “Claro,si” “ Pues si” . Evito di fare la guastafeste spiegando che nessun archeologo ha mai ritrovato un copricapo vichingo con le corna e che in realtà il famoso simbolo vichingo fu inventato nel 19esimo secolo sull’onda del Romanticismo.

Riesco a smarcarmi, saluto il camionista e esco alla scoperta del centro. Come mi aspettavo San Miguel de Allende è ovviamente molto carina ma comincio ad avere un surplus di città coloniali, soprattutto constatando che non è poi così diversa da Guanajuato. Riesco comunque a scattare qualche foto carina da mostrarvi, nonostante l’onnipresente sole a picco che rende la fotografia un’impresa.

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Approfitto anche per tornare al baretto pittoresco di ieri perché nel frattempo ho scoperto essere IL posto migliore della città per sbafarsi dei peccaminosi Churros , una pastella dolce fritta a forma di tubo importata in tutta l’America Latina dalla Spagna, abbinati con una bella cioccolata densa in cui i churros vanno tuffati.

Churros e cioccolata a San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il giorno dopo mi aspetta la visita all’azienda vinicola fuori San Miguel de Allende.

Ho trovato il contatto online e l’opzione di organizzare un piccolo tour privato dell’azienda. Piccolo inconveniente, ci vogliono minimo due persone.

Non è la prima volta che mi si preclude l’esperienza solo perché sarei sola, però ci provo lo stesso e li contatto.

L’azienda mi risponde celermente, si dimostrano comprensivi e disponibili a organizzare la visita solo per me. Sono contentissima!

Arrivo alla tenuta , Bodega dos Buhos, leggermente in ritardo per via della poca segnalazione, io e il tassista ci siamo persi per una decina di minuti.

Incontro una giovane ragazza, Julieta, che mi fa da cicerone e mi mostra le vigne, che ovviamente ora sono in fase di “ vacanza invernale” e il bell’edificio addetto alla piccola produzione di vino.

Il paesaggio attorno a me, così come avevo constatato anche osservandolo dal finestrino del bus da Guanajuato a San Miguel de Allende, non può che ricordare incredibilmente ai paesaggi spagnoli. Mi chiedo cosa pensarono gli spagnoli quando arrivarono in queste zone, trovando una casa così lontana da casa.

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il vino in Messico ha una storia molto lunga. Qui, infatti, vennero piantati i primissimi vigneti di tutto il continente americano, ovviamente per mano degli spagnoli che decisero di testare il terreno importando qualche uva dalla Spagna.

Nonostante ciò, però, la produzione di vino cessò quasi completamente con la partenza degli spagnoli e venne riavviata solo negli anni 70 del ventesimo secolo, molto recentemente.

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il paese è grande e ospita vari climi, alcuni adatti alla crescita dei vigneti e capaci di produrre vini di tutta dignità che non hanno paura di confrontarsi coi loro cugini americani, argentini o cileni.

La zona di principale produzione in Messico, circa l’85% , si trova nella zona nord della penisola della Baja California, quel lembo di terra che si estende dal confine con la California americana. Qui il clima è mediterraneo ,soleggiato e beneficia delle fresche brezze che arrivano direttamente dal vicino Oceano Pacifico. È dalla Baja California che vengono i vini più rinomati della scena messicana.

Si produce vino anche nella zona di Sonora, Durango, Coahuila, Zacatecas e Aguas Calientes, zone tendenzialmente aride in cui molta della produzione è destinata a vini liquorosi, fatta eccezione per la Valle de Parras in Coahuila che vanta l’azienda vinicola Casa Madero, la più antica di tutto il Nord America ( 1597 ) e che produce tutt’ora i vini messicani più famosi.

E poi c’è la zona dove mi trovo oggi, lo stato di Guanajuato e il vicino stato di Querétaro.

Mi viene spiegato che il clima in questa zona tende ad essere secco e caldo, ma che San Miguel de Allende specificatamente gode di una certa protezione dagli elementi grazie alle gentili colline che la circondano. Nonostante il sole durante il giorno sia caldo anche ora che siamo nell’epoca più fredda, di notte le temperature scendono considerabilmente. Il suolo composto principalmente di argilla aiuta la ritenzione dell’umidità, così importante nel clima secco, quasi desertico, tipico della zona .

Nella Bodega dos Buhos si coltivano alcune uve classiche come Cabernet ( Franc e Sauvignon), Tempranillo, Sauvignon Blanc e Chardonnay, ma non solo. I proprietari, una coppia californiana-messicana, sperimentano anche con uve meno comuni in questa parte del mondo, come le italianissime Aglianico e Moscato Giallo.

Mi viene spiegato che l’azienda è molto recente e che i primi vintage sono stati prodotti solamente nel 2011/2012. Nonostante i vini prodotti fin ora siano quindi ancora molto giovani, nel provarli è possibile intuirne il potenziale e la qualità dovuta alla grande attenzione che ricevono, essendo questa una produzione davvero limitata.

Dopo varie visite interessantissime a piantagioni di caffè, fabbriche di Mezcal e partecipazioni a workshop di cacao ammetto di sentirmi un po’ più a casa qui, in un’azienda vinicola, dato che di vino non ne capisco tutto ma sono decisamente meno neofita rispetto agli altri prodotti.

San Miguel de Allende, stato di Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Dopo una breve visita allo stabilimento dove avviene la vinificazione e l’imbottigliamento passiamo a una prova di assaggio di quasi tutti i vini prodotti dall’azienda, culminando l’esperienza con un goccio del nuovo arrivato in casa Dos Buhos, un vino arancione fatto di Moscato Giallo assolutamente delizioso.

Finisce anche il mio tempo a San Miguel de Allende e comincio a prepararmi alla penultima meta di questo lunghissimo viaggio, la città di Puebla.

Ci sentiamo presto 🙂

Ritorno in Messico, cominciando da Guanajuato

Mi basta un breve giro in centro la sera del mio arrivo per capire che Guanajuato è una gran bella città, forse la più pittoresca che ho visto fino ad ora in Messico.

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Niente origini millenarie per Guanajuato, né un passato Precolombiano. La città infatti venne eretta dagli spagnoli nel 1558 a seguito della scoperta di una delle riserve di argento più redditizie di tutte le Americhe. Per circa 250 anni Guanajuato fornì il mondo del 20% della produzione di argento.

Gli spagnoli e i criollos, persone di origine spagnola ma nate nelle Americhe, si arrabbiarono non poco quando il re Carlo III di Spagna cominciò a chiedere loro molto più denaro a partire del 1765, un rancore accresciuto ancora di più a partire del 1767 quando i gesuiti, un ordine religioso molto importante nelle Americhe, vennero scacciati da tutto il territorio di influenza spagnola.

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La rabbia contribuisce a creare un sentimento di alienazione al potere centrale della Spagna e sfocia in una guerra per l’indipendenza. Nel 1810 un leader ribelle Miguel Hidalgo, originario dello stato di Guanajuato, dichiara aperte le ostilità verso la Spagna e gli abitanti di Guanajuato città si unirono ai combattenti per l’indipendenza sconfiggendo spagnoli e forse leali alla corona spagnola, aggiudicandosi la prima vera vittoria contro il dominio europeo.

Quando gli spagnoli ripresero il controllo della città inaugurarono una campagna di ritorsione verso chiunque si fosse messo contro di loro: istituirono una vera e propria “ lotteria della morte” , in cui i nomi dei cittadini di Guanajuato venivano pescati a caso e ai malcapitati toccarono torture e impiccagioni.

L’indipendenza del Messico stroncata nel 1810 venne infine raggiunta quasi venti anni dopo ma la memoria di Guanajuato come una delle prime località a ribellarsi rimane salda nell’immaginario messicano.

Ad oggi la città mantiene un aspetto gradevole in stile coloniale.

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sviluppatasi in una valle, quasi una gola, con il centro sviluppatosi tortuosamente a fondo valle e le zone residenziali arrampicate sulle colline circostanti, Guanajuato è una città famosa per la suggestiva architettura e una nutrita popolazione universitaria che le conferisce una grande vitalità sociale e culturale.

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Teatro Juárez, Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ormai comincio a sentire la stanchezza del viaggio, se si può dire. Delle volte mi sento un po’ in colpa di ammettere di essere stanca, non tanto fisicamente quanto “ mentalmente” , di visitare posti nuovi e organizzare attività per conoscere al meglio il posto. Per Guanajuato quindi mi limito a leggere la guida e, siccome sembra che i monumenti da non perdere siano tutti teatri o chiese, preferisco scoprire la città in maniera semplice, senza mappa ne meta, girovagando per le stradine e facendomi ispirare sul momento.

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Come dicevo all’inizio, Guanajuato sembra a mio parere la cittadina esteticamente più bella della mia visita in Messico. Senza niente togliere alle bellezze di Oaxaca o San Cristóbal de Las Casas, Guanajuato è molto pittoresca e una vera e propria miniera di belle foto, non fosse per la forte luce del sole che la rende meravigliosa agli occhi ma un po’ più difficile da catturare a livello fotografico, almeno per me che non sono un’esperta di fotografia.

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il centro è un po’ labirintico, sviluppato così com’è sul fondo di una gola, ma nonostante ciò è possibile orientarsi bene. Esiste un bel corso incorniciato da molti edifici di chiaro stile europeo, costruiti a inizio secolo XX e influenzati dal gusto dell’allora dittatore Porfirio Diaz, a cui piacevano gli edifici pomposi e di matrice europea.

Quest’architettura insieme alle costruzioni in stile coloniale spagnolo contribuisce a dare quasi un senso di casa per noi europei. Il corso in questione potrebbe essere ubicato ovunque in Europa, non fosse poi per i vari venditori di tacos per strada e le bande di Mariachi che intrattengono i commensali nei vari ristoranti chic del centro.

Jardin Union, Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La vivacità universitaria di esprime così come si esprimerebbe in una delle nostre città, la popolazione giovane è ben visibile e grazie a loro Guanajuato pullula di bei locali e attività culturali.

Gli studenti sono anche i fautori di una delle tradizioni più consolidate a Guanajuato, le Callejoneadas, a cui ho avuto modo di assistere brevemente durante il sabato sera.

Sembra che la tradizione arrivi direttamente dalla Spagna, e io aggiungerei che probabilmente viene dalla penisola iberica generale perché ho avuto modo di osservare attività del tutto uguali anche nella comunità universitaria portoghese, soprattutto nella città universitaria per eccellenza di Coimbra ma anche a Lisbona o Porto.

Durante le Callejoneadas gli studenti girano il centro vestiti in abiti tradizionali suonando e cantando canzoni tipiche e spostandosi da un punto all’altro del centro invitando la folla che si dimostra interessata a seguirli, in una sorta di concerto ambulante.

Passeggiando per la città incappo in un edificio che si rivela essere la casa natale di Diego Rivera, un artista del ventesimo secolo di importanza mondiale e famosissimo quando era in vita, senza dubbio più famoso della moglie Frida Kahlo la quale diventerà veramente l’artista sulla bocca di tutti solo dopo la morte.
Casa natale di Diego Rivera, Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

In questi giorni il corso principale ospita anche un festival dedicato ai madonnari, gli artisti di strada che disegnano sui marciapiedi con i gessi.

Mi sembra di capire che ci sia un tema comune, qualcosa che abbia a che vedere con figure storiche messicane, ma ognuno sviluppa la propria opera nello stile che più piace.

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Festival dei Madonnari a Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Festival dei Madonnari a Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Festival dei Madonnari, Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Festival dei Madonnari a Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Festival dei Madonnari a Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il secondo giorno prendo una funicolare che porta a un terrazzo panoramico da cui si può ammirare la città con tutti i suoi colori e la sua particolare posizione a fondo valle.

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Guanajuato, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il resto della giornata ammetto non faccio molto altro, mi dedico alla scrittura di questo articolo e a un po’ di sana lettura. Poche parole oggi, ma spero di essermi rifatta con tutte le foto 🙂

Con calma, gringos. Traversata da Atitlán a Guanajuato

Arriva anche il momento di salutare il lago di Atitlán e il Guatemala.

L’ultimo giorno nel paese lo dedico al tragitto dal lago alla capitale.

Siccome ho un volo alle 6 del mattino da Città del Guatemala per Città del Messico, non voglio rischiare di perderlo e preferisco pernottare in un ostello a fianco dell’aeroporto con servizio shuttle incluso.

Google Maps sostiene che da San Marcos la Laguna all’aeroporto ci vogliono circa cinque ore di auto ma è palese che non abbia mai messo piede in America Latina, dove quello che succede in realtà è che c’è sempre un autista in ritardo, stradine contorte e/o contrattempi vari lungo il percorso.

Google Maps però non è l’unico a non aver capito come funzionano le cose.

Mentre aspetto lo shuttle per Città del Guatemala, parlo con una coppia di canadesi di mezza età che stanno passando una settimana e mezza nel paese. Lo shuttle dovrebbe passare a prenderci alle 10:30 e loro poi prenderanno un volo per Flores, per andare a visitare Tikal l’indomani.

“ Il nostro volo è alle 7. È probabile che avremo del tempo libero in aeroporto senza niente da fare. E va bene, leggeremo un po’ “

Io non dico niente ma sotto sotto spero per loro che non ci sia nessun contrattempo, anche se a loro sembra di avere parecchio tempo io non mi fiderei del margine di tempo a disposizione.

Sono le 10:30 e non c’è traccia dello shuttle. C’era da aspettarsi qualche minuto di ritardo, no?

Le 10:45. Beh dai, il normalissimo ritardo latino.

Le 11 . Mah, speriamo che si ricordino di noi?

Le 11:15. Incrociamo le dita.

Le 11:30 e finalmente arriva lo shuttle direttamente da San Pedro, il villaggio a fianco. Consegniamo i nostri zaini al autista che procede a stiparli sul tettuccio del minivan come fossero sacchi di patate.

Entriamo e il minivan è già pieno zeppo, ma ovviamente secondo la logica locale “ c’è sempre posto, basta crederci” .

Mentre partiamo la gente di San Pedro ci racconta che a loro è stato detto che il trasporto sarebbe partito alle 10:30 e noi di San Marcos ci chiediamo perché mai sia stato richiesto anche a noi di trovarci nel punto prestabilito alla stessa ora sapendo che a quell’ora il minivan non sarebbe mai e poi mai stato a San Marcos. Ma va bene, benvenuti in America Latina, relaaaax gringos.

Neanche venti minuti sulla stradina piena di buche che collega San Marcos alla superstrada principale che lo shuttle si ferma. Come al solito l’autista comunica a monosillabi e non ci spiega i motivi della fermata, in fin dei conti siamo solo l’ennesimo carico di bestiame gringo da portare da un lato all’altro.

Pian piano capiamo che ci sono dei lavori in corso sulla stradina, vorrei pensare che sia per risolvere i buchi/crateri sulla strada ma non ne sono così convinta.

Davanti a noi c’è un pick-up adibito a trasporto di bestiame umano guatemalteco, i poveri contadini che sono stati stipati dietro la cabina del conducente non hanno spazio per sedersi e stanno in piedi tenendosi come meglio possono.

Passano 15 minuti. I canadesi cominciano ad alterarsi, iniziando a chiedersi se ce la faranno mai a raggiungere l’aeroporto. Suvvia, tra poco si ripartirà.

Passano 40 minuti.

Gli autisti dei vari mezzi di trasporto bloccati si riuniscono sul ciglio della strada e cominciano a chiacchierare e a scherzare.

Noi bestiame gringo stiamo seduti nel minivan o ci sgranchiamo le gambe lungo la stradina e l’adiacente piantagione di caffè, il bestiame guatemalteco non demorde e sta in posizione, in piedi sul pickup.

Passa un’ora.

I canadesi cominciano a sviluppare una nuvoletta cupa e minacciosa sopra il capo, potrebbero farcela e arrivare in aeroporto in extremis ma non c’è nessuna certezza.

Noi bestiame gringo passiamo il tempo come possiamo, chi ascolta un podcast come me e chi ne approfitta per fare amicizia con nuovi viaggiatori.

Il bestiame guatemalteco continua stoicamente in piedi, fatta eccezione per un adolescente che cede e trova una scomodissima posizione per sedersi ( da notare che tutti gli altri, per maggior parte señoras con fili bianchi e grigi tra i capelli non accennano a cedere) .

Gli autisti si sono ormai trasformati in un branco coeso, le risate si fanno più grasse e comincia un concorso per capire chi presenta più testosterone degli altri con piccoli scherzetti e prestazioni di forza maschia.

Passa un’ora e quindici e i canadesi sono al telefono con i tizi dell’hotel a Flores, il call center della loro assicurazione di viaggio, la linea aerea Avianca e la loro banca in Canada. La moglie continua a prendere la situazione con una certa grazia ma il marito ormai da mezz’ora ha il volto paonazzo.

Il bestiame gringo e guatemalteco e gli autisti continuano con le proprie attività: noia, stoicismo e gara di testosterone.

L’attesa infinita per lasciare il lago di Atitlánhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Finalmente a un’ora e mezza di stop qualcosa si muove e gli autisti di disperdono, tornando ognuno al proprio mezzo. Finalmente ripartiamo e tiriamo tutti un sospiro di sollievo, tutti tranne i canadesi che ormai devono dire addio alla prospettiva di visitare Tikal il giorno dopo.

Nonostante le due ore e mezza di ritardo, a metà strada l’autista decide di fermarsi in un’area di ristoro e ci da 15 minuti di libertà mentre lui si sbafa un piattone enorme di carne e tortillas.

Il canadese ormai sta per sbottare.

Poco fuori Antigua il minivan si ferma in una pompa di benzina. Parcheggiamo a fianco di un altro minivan, l’autista spegne il motore, scende senza dire niente e comincia a trasferire i nostri zaini da un mezzo all’altro. Intuiamo che forse dobbiamo cambiare mezzo, non ci viene mai confermato ma di istinto seguiamo i nostri zaini.

Arriviamo ad Antigua verso le 5, l’orario che , mi era stato assicurato dall’agenzia, sarei dovuta essere in ostello a Città del Guatemala. Il bestiame gringo viene scaricato nella piazza principale senza troppe cerimonie, il nuovo autista annuncia l’arrivo in inglese e procede dicendo “ Purtroppo ci sono stati dei ritardi lungo il percorso ma cosa vi aspettate, prezzo basso vuol dire cattivo servizio”. Siamo troppo stanchi per obiettare che in realtà il costo del trasporto non è così irrisorio, esistendo altre opzioni più avventurose ed economiche col trasporto pubblico locale. Vorrei anche dire che non ho trovato altri shuttle che partissero da San Marcos quindi non saprei che altro servizio avrei potuto prenotare, ma non c’ho le forze.

Chi resta ad Antigua è giunto a destinazione ma quattro di noi hanno prenotato per Città del Guatemala. Al momento della prenotazione mi era stato detto che ci saremmo brevemente fermati ad Antigua per scaricare chi volesse stare lì per poi procedere verso la capitale. Ovviamente solo ora scopro che non solo devo cambiare minivan, ma che devo aspettare un’ora. Nel frattempo, viene detto a me e a una ragazza americana ( Perché gli altri due erano i canadesi che nel frattempo hanno rinunciato a Flores e Tikal e si sono fermati ad Antigua) di aspettare in un’agenzia di viaggi poco lontano dal centro.

Entriamo nell’agenzia e un giovane ragazzo ci accoglie un po’ sorpreso.

Gli dico che ci hanno detto di aspettare in sala d’attesa il prossimo pulmino, chiedo conferma che ci sarà un pulmino per noi tra un’ora. Sorridendo il ragazzo risponde timidamente che non ne ha idea, in fin dei conti lui lavora lì solo in regime di part time. Gli faccio notare educatamente che se non lo sa lui figuriamoci noi, ci sediamo e speriamo arrivi qualcuno.

Mezz’ora dopo arriva l’ultimo autista, quello del prezzo basso cattivo servizio, e ci dice che ha brutte notizie per noi. Il sangue mi si gela nel corpo ma alla fine la brutta notizia era un ritardo di mezz’ora del nostro prossimo pulmino, io e l’americana tiriamo un grosso respiro di sollievo.

Ovviamente il pulmino finirà per arrivare non mezz’ora in ritardo ma un’ora in ritardo, ma che ci volete fare, la puntualità è un concetto volatile.

Arrivo nell’ostello di Città del Guatemala con quattro ore di ritardo rispetto al previsto.

Andatelo a dire a Google Maps.

Ho deciso di non mettere nemmeno piede nella capitale. Sembra non ci sia niente di speciale da fare tranne venire scippati o farsi puntare una pistola o un coltello addosso, preferisco passare grazie.

Il mio ostello per la notte lavora esclusivamente con persone che lo usano come base da/per l’aeroporto, è situato in un complesso residenziale protetto da alte mura con filo spinato e cancello con tanto di guardie armate.

Sto in un dormitorio da sei letto, entrando sono sollevata nello scoprire che oltre a me sembra esserci solo un altro letto occupato, anche se non so ancora da chi .

Subito fuori dal dormitorio c’è una sala tv occupata da un guatemalteco che, stravaccato sul divano in velluto marrone, guarda un film americano tradotto in spagnolo. Spero non sia lui il mio compagno di stanza.

Mi preparo per andare a dormire e mi corico a letto, pregustando una notte breve ma tranquilla.

Si apre la porta e entra il mio compagno di stanza esordendo con qualche suono gutturale, forse un colpo di tosse smorzato sul nascere.

Il guatemalteco della sala tv.

Un personaggio che non da l’impressione di aver mai lasciato il Guatemala. Forse non ha mai nemmeno lasciato il paesino rurale da cui sembra venire. Non riesco a dargli un’età, lo colloco tra i 40 e gli 80 anni, diciamo un uomo consumato dalla vita.

Insomma, non è il compagno di stanza ideale. Soprattutto perché siamo solo io e lui. Penso però che sono talmente stanca e frustrata dalla giornata che se mai provasse qualcosa ho tutte le energie di assestargli un bel gancio sul naso.

Lui sembra non fare caso a me e si corica.

Io ho la certezza matematica di essere in stanza con un possente russatore , ne ha tutto l’aspetto, e mi armo di tappi per le orecchie che mi isolano perfettamente.

Durante la breve notte, nonostante i tappi, lo sento parlare. Penso “ che grezzo, che maleducato, stare al telefono mentre io cerco di dormire”.

Mi sveglio alle 3 del mattino e preparo le ultime cose in velocità . Non mi curo di far silenzio visto che il mio caro compagno di stanza sembra fregarsene altamente del concetto di silenzio, sotto sotto mi dispiace un po’ constatare che il mio casino non lo distoglie dal suo beato russare.

Ho quasi chiuso lo zaino quando finalmente sbotta a voce alta in una serie di frasi senza senso, qualcosa a che fare col lavoro.

“ @€*#£%trabajo%{+^%trabajo!”

Finalmente capisco: il mio compagno di stanza è uno che parla, o meglio, pontifica nel sogno.

Arrivo in aereoporto, faccio il check in, attendo il mio volo e finalmente sorvolo il cielo guatemalteco.

Città del Guatemala dall’altohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mi ci vuole poco tempo e mi addormento a bocca aperta appoggiata al finestrino.

Mi sveglio in tempo per vedere infinite colline marroni ovunque guardi.

Il pilota annuncia l’inizio della discesa , che tipicamente impiega mezz’ora finì all’atterraggio. Neanche un minuto dopo comincia Città del Messico e si rivela ai nostri occhi in tutta la sua vastità.

Città del Messico dall’altohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Pensate che dagli anni ‘70 del ventesimo secolo questa città si trova ad accogliere sempre più messicano in cerca di opportunità di alloggio e di lavoro e che continua ad ingrandirsi in maniera esponenziale. Ad oggi Città del Messico di per se fa circa 8 milioni di abitanti ma la città e la sua area metropolitana, che nel frattempo è trasbordata fuori dai propri confini e ha cominciato a dilagarsi nel vicino stato di Mexico ( da non confondere gli Stati Uniti del Messico, il nome ufficiale del paese, con uno dei suoi stati che fatalità anch’esso si chiama Messico) , conta ben 22 milioni abitanti. Dei cittadini documentati ovviamente. Nessuno sa quanta gente non documentata viva a Città del Messico, e nei quartieri più poveri nessuno è documentato.

Città del Messico dall’altohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Questa volta il controllo passaporti procede rapido ed efficiente.

Anche stavolta non mi fermo ( ancora) nella capitale, che sto tenendo per gli ultimi giorni del mio viaggio. Ho intenzione di dirigermi un po’ più a nord per visitare una zona del paese un po’ diversa, più coloniale, più ispanica, più “ tequila e mariachi”. Voglio cominciare dalla città di Guanajuato, che però dista ancora circa quattro ore da Città del Messico.

Ci sono due opzioni per raggiungerla, entrambe prevedono un bus e uno scalo tecnico nella città di Querétaro.

Potrei provare a prendere l’autobus direttamente in aereoporto, però su internet non trovo connessioni da Querétaro a Guanajuato. O potrei andare in una delle stazioni di autobus di Città del Messico, da cui ho la certezza che il bus per Querétaro poi proceda per Guanajuato, significando però che devo immettermi nel gran casino di traffico e persone ovunque che è una città da 22 milioni di abitanti. Preferirei evitare.

Prima di gettare la spugna mi dico che tentar non nuoce e chiedo a vari addetti dell’aeroporto se c’è un trasporto diretto a Guanajuato. Come una caccia al tesoro nessuno ha la risposta completa ma mi indirizzano verso qualcuno che ne sa di più, e finalmente arrivo all’addetta che mi vende il biglietto per l’autobus dall’aeroporto a Querétaro e da Querétaro a Guanajuato, orari e posti assegnati per rendere il tutto ufficiale e confermato. Sono felice come una pasqua per aver evitato il casino di Città del Messico e il costo di un taxi verso la stazione degli autobus.

Il tragitto procede tranquillo e senza grandi colpi di scena, cambio autobus a Querétaro e arrivo a Guanajuato verso le cinque del pomeriggio. Localizzo il mio ostello e passo la serata parlando e scherzando con le mie compagne di stanza, troppo stanca per dedicarmi a una vera e propria visita della città che riserbo per il giorno dopo.

Caffè e lago vulcanico, ultimi giorni di Guatemala

L’ultimo giorno ad Antigua lo dedico a una visita di una piantagione di caffè locale.

Fino a qualche anno fa il Guatemala era il maggior produttore e esportatore di caffè centroamericano del mondo, anche se nel 2011 ha perso lo scettro in favore del vicino Honduras.

Il caffè guatemalteco cresce in varie zone del sud del paese, dove l’altitudine è più elevata e le condizioni per la crescita della pianta del caffè sono ideali. L’area e quindi la denominazione più rinomata della produzione di caffè in Guatemala è senza dubbio quella di Antigua, e non potevo perdere un tour per vedere dove cresce e come si lavora il caffè in questo paese.

Trovo un tour organizzato da una cooperativa chiamata De La Gente che riunisce una serie di piccoli produttori locali, subito fuori Antigua. Ad ogni tour confermato ( c’è un minimo di un paio di persone) il gruppo viene affidato a un determinato produttore, facendo in modo che ci si ruoti i gringos e il relativo profitto del tour con equità tra produttori.

Mi viene detto di farmi trovare davanti alla chiesa gialla del villaggio di San Miguel Escobar, subito fuori Antigua, alle 10. Io mi organizzo con un Uber e arrivo davanti a quella che spero sia l’unica chiesa gialla del paesino quasi dieci minuti prima.

So che ci sono quattro americani confermati per il mio tour quindi aguzzo gli occhi per individuare le loro facce gringhe che si avvicinano, confermandomi quindi che sto aspettando nel luogo giusto.

Sono le 10:15 e non c’è segno ne del produttore di caffè, ne dei gringos con il ragazzo che teoricamente dovrebbe aiutarci nella comunicazione col produttore che parla solo spagnolo. Il ritardo non mi sorprende ma mi chiedo semplicemente se sono nel posto giusto, ma non faccio in tempo a contattare l’organizzatore semi-allarmata che arriva Fredy, il produttore di caffè, che mi spiega che stava aspettando poco lontano ma che si aspettava che il gruppo fosse più nutrito. In quel momento viene contattato dall’organizzatore a confermare che gli americani e il traduttore sono in ritardo e stanno arrivando, ma io sono già contenta di non aver sbagliato punto di incontro.

Io e Fredy parliamo un po’: di Italia, di Guatemala, di caffè e di come questi tour contribuiscano economicamente a un migliorato tenore di vita per Fredy e la sua famiglia.

Finalmente arrivano anche i quattro americani e il loro traduttore, comincia la visita.

Camminiamo per circa venti minuti dal centro fino all’inizio della piantagione di Fredy, improvvisamente si apre una meravigliosa vista sulla valle incorniciata dai grandi vulcani che dominano Antigua.

piantagione di caffè a Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Fredy coltiva soprattutto caffè negli ultimi anni ma ci sono anche appezzamenti con mais e fagioli, per sostentare la famiglia.

In Guatemala, così come era in Colombia e come sospetto sia in tutti i paesi produttori di caffè, il caffè di buona qualità viene esportato e ai locali rimangono solo i chicchi di infima qualità che mai riuscirebbero a passare i controlli di qualità per l’esportazione.

Piantagione di caffè, Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Anche qui, di conseguenza, il pubblico non è abituato a pagare molto per del caffè e soprattutto non è abituato a bere caffè di qualità decente. Ovviamente in Guatemala c’è ancora molta povertà e , davanti alla scelta di 100 grammi di caffè di qualità e un chilo di caffè solubile della peggiore qualità allo stesso prezzo, il consumatore medio non ha dubbi e predilige il caffè solubile.

piantagione di caffè a Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Fredy procede a spiegarci come si coltiva e si lavora il caffè, un po’ come mi è stato spiegato il processo durante la mia visita alla piantagione di caffè a Salento in Colombia.

piantagione di caffè a Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La piantagione di Fredy è decisamente più grande di quella che ho visitato a Salento e sono contenta di aver visitato anche questa appunto per vedere il caffè crescere in un ambiente diverso rispetto a quello che avevo già visto.

Vulcano attivo visibile dalla piantagione di caffè a Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Finiamo la visita a casa di Fredy, una costruzione molto umile che mi ricorda quanto lavoro estenuante fanno questi produttori e quanto poco ci si guadagni: ma lo sapevate che di circa 100 grammi di chicchi raccolti a mano e controllati uno per uno per giudicarne la maturità non una ma varie volte durante il processo , a fine lavorazione e torrefazione circa l’86 per cento verrà scartato? Pensateci la prossima volta che comprate del caffè, io di sicuro lo farò.

Caffè pronto per essere tostato, Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Incluso nel tour ci viene offerto un pranzo semplice ma gustoso preparato dalle donne della famiglia. Mi innamoro del guacamole preparato con gli avocado cresciuti a pochi metri di distanza e delle tortillas fatte in casa e cucinate su una specie di piastra di argilla posata sulla stufa.

Cibo guatemalteco casalingohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il giorno dopo è ora di salutare Antigua e di dirigermi verso l’ultima meta di questa breve scappatella in Guatemala, il lago di Atitlán.

Circondato da vulcani e di fatto situato in un cratere vulcanico, il lago di Atitlán è una delle attrazioni principali del paese.

Molte guide si concentrano sulla meta generalizzandone le caratteristiche, e sembra quasi che sia un piccolo lago con solo un paio di paesini dove alloggiare.

La realtà è che il lago di Atitlán è relativamente grosso e, soprattutto, ha molti paesini dalle identità ben definite. Ce n’è uno, Santiago, che è maggiormente abitato dagli abitanti locali, discendenti dei Maya, ma c’è anche un paesino-cittadina , Panajachel, che fa un po’ da hub per tutta la zona. Per i viaggiatori zaini in spalla vengono spesso consigliati i paesini di San Pedro e San Marcos, il primo ha la fama di avere molti stranieri, molte feste e i prezzi migliori del lago mentre il secondo sembra sia la meta per chi vuole rilassarsi e magari fare qualche terapia o massaggio.

Sentite le descrizioni non ho dubbi e prenoto lo shuttle che da Antigua va a San Marcos, sperando di evitare orde di giovani americani ubriachi e avendo invece intenzione di rilassarmi.

Il minivan contrattato per portarci ad Atitlán non è dei più moderni ne confortevoli ma va bene , che ci posso fare.

Percorriamo la strada che separa Antigua dal lago in relativa scioltezza nonostante il traffico. Finalmente giriamo a sinistra, segno che il lago non dista molto ormai.

Ci imbattiamo in lunghi tratti di lavori in corso, quindi il minivan è costretto a fermarsi spesso e procede lentamente.

Finalmente la strada comincia a scendere, segno che ci dirigiamo verso la costa del lago, e dire che la strada sia dissestata è dire poco: l’impressione è che ci sia appena stata una pioggia di meteoriti, localizzata esclusivamente lungo la stradina che percorriamo.

Mentre saltello sul mio sedile ho modo di osservare qualche bello scorcio sul lago e numerose piange di caffè che crescono lungo la strada un po’ ovunque.

Prime viste sul lago di Atitlán , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Poco prima di sentire le ossa della mia schiena deformarsi per sempre a forma di sedile, arriviamo a San Marcos.

Per la prima volta in questo viaggio e in vita mia, non ho prenotato nessun tipo di accomodazione. Ho trovato ben poco di disponibile e decente online, e tutti a Antigua mi assicuravano che il lago è pieno di soluzioni ma pochi sono online quindi la cosa migliore è presentarsi e cercare alloggio.

Mi appiccico a un gruppo di canadesi che ho sentito vanno verso l’ostello che mi è stato raccomandato dall’ostello di Antigua e pochi minuti dopo siamo in reception. Cerco di farmi notare dalla receptionist sbrigativa e maleducata e quando finalmente ricevo le sue attenzioni mi viene detto che c’è posto solo in un dormitorio da dieci. Tendenzialmente sto in dormitori più piccoli, più perché così mi immagino ci sia meno possibilità di avere in stanza gente che fa casino o gente che russa, ma da quel poco che ho visto San Marcos sembra minuscola e dubito che ci siano molte altre soluzioni. E poi ho uno zaino pesante in spalla e la schiena deformata dal minivan, così accetto e prenoto due notti.

A pagamento effettuato mi portano nel dormitorio, che non solo ha i 10 letti che mi aspettavo ma sembra un vero e proprio tugurio. Di quelli che sono sicura che se avessi costruito io l’edificio avrei fatto un lavoro migliore. Di quelli coi letti dai materassi fatti di spugna e le lenzuola di Batman e Superman.

Mollo lo zaino e vado alla scoperta di San Marcos, che si rivela più piccola di quel che pensavo. Il centro di fatto consiste in una piazzetta dominata da un campo da basketball e un sentiero in mezzo al verde punteggiato da capanne e strutture in legno adibite a ristoranti, bar o negozietti.

La via principale di San Marcos La Lagunahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il peggio è che la fama di San Marcos si rivela vera al 100%. Centri di salute, massaggi esoterici, terapie spirituali per ritrovare se stessi e mettersi in contatto coi nostri Io passati, centri di yoga e meditazioni. E tanti gringos in cerca del proprio lato spirituale in questo paesino Maya a bordo lago.

San Marcos la Laguna, terapie spirituali variehttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Fosse tutto natura e spirito sarebbe una cosa, ma quello che personalmente non mi piace è che nonostante tutta la spiritualità del posto le strade e molti edifici sono comunque fatti del cemento più grezzo della storia e la costa è piena di bottiglie di plastica e immondizia varia.

Il peggio per me però è la chiara divisione tra Maya e gringos. Da una parte il gringo dai capelli scoloriti dal sole che si preoccupa di entrare in contatto con tutti i suoi chakra mentre sorseggia il suo frappé di latte di mandorla e curcuma e dall’altra la popolazione locale, vestita con bellissimi abiti locali ma che chiaramente hanno un tenore economico astronomicamente diverso e che stazionano lungo la strada principale cercando di vendere qualche souvenir o cioccolato locale. E i due gruppi sembrano separatissimi e quasi ignari dell’esistenza dell’altro. Il tutto stride.

Comunque, aggirandomi per San Marcos mi rendo conto che c’è veramente poco da fare in città, e che non ho bisogno di meditazioni per entrare in contatto col mio subconscio. Mi viene un po’ di panico pensando che sono nel posto sbagliato e nel l’ostello sbagliato, e siccome il luogo non posso proprio cambiarlo mi viene in mente che potrei cercare un’altra accomodazione per le due notti successive.

Torno in ostello e, con un po’ di faccia tosta, riesco a convincere la nuova receptionist di rimborsarmi la seconda notte. Torno in centro e trovo un hotel con poche pretese ma con una camera singola solo un euro più cara del mio tugurio da dieci persone. Decido che se devo stare nel posto sbagliato, almeno che stia nella stanza giusta, e prenoto per le notti successive.

Torno al mio ostello da cui, comunque, si gode una vista strepitosa sul lago dalla reception che da direttamente sull’acqua.

Lago di Atitlan , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lago di Atitlanhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lago di Atitlan , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lago di Atitlan , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La notte,devo dire, passa in maniera più pacifica di quello che avevo previsto.non ringrazierò mai abbastanza i nuovi tappi per le orecchie che ho comprato a un prezzo irrisorio a Flores e che non farebbero passare nemmeno il boato di una bomba atomica.

La mattina dopo faccio colazione e vado ad occupare la mia nuova reggia.

Passato lo “shock” iniziale in realtà comincio a vedere dei pregi in San Marcos. Ovunque è possibile trovare cibo salutare, un vero toccasana dopo tanto tempo “ on the road” con cibo di strada e da ristorante, e ovviamente la vista sul lago è impareggiabile.

Lago di Atitlan , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mollato lo zaino prendo l’essenziale e vado verso il molo da cui basta prendere una lancia come se fosse un bus e si può andare in qualsiasi altro paesino del lago. Decido di visitare quello che era in lizza per essere l’altro posto in cui volevo stare, San Pedro.

Tragitto in barca da San Pedro a San Marcoshttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Dopo una veloce sfrecciata sulle acque azzurre arriviamo a destinazione San Pedro, arroccata sulle pendici di uno dei due vulcani che sovrastano il lago. Innanzitutto noto che la vista sullo specchio d’acqua sembra essere più suggestiva da San Marcos che da qui, e mi basta uno sguardo sulla via principale per rendermi conto che in realtà preferisco l’ambiente rilassato di San Marcos.

San Pedro è più grande, ci sono più turisti e le strutture , se possibile, più fatiscenti.

Poco fascino a San Pedro la Lagunahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Dopo aver girovagato per una mezzoretta per le vie di San Pedro decido di fermarmi a un chiosco gestito da un giapponese che propone cibo casalingo nipponico, e mentre divoro il mio delizioso pranzo sono circondata da clienti giapponesi che chiacchierano col proprietario, facendomi sentire più in Oriente che in Centro America e penso che alla fine è questo il bello di avere una grande comunità di stranieri che vivono qua, l’arricchimento culturale che ne scaturisce.

Cibo giapponese casalingo a San Pedro la Lagunahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Prendo di nuovo la lancia che mi riporta a San Marcos e passo il resto della giornata nel dolce far niente, gustandomi la calma e la camera privata.

Il giorno dopo è il mio ultimo vero e proprio giorno in Guatemala, dato che domani prenderò uno shuttle per Città del Guatemala dove ho prenotato un ostello a fianco dell’aeroporto. Vi chiederete , e una visita alla capitale?

Ho deciso di saltarla in tronco per due motivi: Città del Guatemala , così come tutte le capitali centroamericane ha la fama di essere un posto abbastanza pericoloso, cosa che magari si potrebbe risolvere esercendo la dovuta cautela se ci fossero cose interessanti da vedere e fare in città, ma più sento opinioni a riguardo e più sembra che non ci sia proprio un bel niente da visitare.

Ritornando da San Pedro ieri ho notato che poco lontano da San Marcos sembra esserci una zona naturalistica in cui è possibile fare passeggiate e rilassarsi lungo il lago. Oggi vado in cerca del posto e lo trovo.

Lago di Atitlan , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lago di Atitlan , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Non esistono spiagge ma trovo un luogo isolato proprio sul lago e bagnato dal sole, mi siedo su qualche pietra coi piedi vicino all’acqua e ne approfitto per stare un po’ sotto al sole, gustarmi il panorama e le onde che ogni tanto mi bagnano i piedi e studiando la guida del Messico per capire come organizzare l’ultima parte del mio viaggio, circa due settimane a Città del Messico e dintorni.

Lago di Atitlan , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lago di Atitlan , Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Continuo la mia “ cura di disintossicazione alimentare” mangiando cibi salutari che in Norvegia mi costerebbero un occhio della testa mentre qui, nonostante il Guatemala non sia il paese più economico di questo lungo viaggio anzi forse è il più costoso, hanno prezzi accessibili.

Saluti così il Guatemala, un paese che non sapevo fino all’ultimo se sarei riuscita a includere nel mio itinerario e che si è rivelata una gran bella destinazione piena di cose da fare, persone gentili e panorami mozzafiato, dalla giungla calda e umida attorno a Tikal e Flores al fascino di questi grandi vulcani attivi che sovrastano il placido lago di Atitlán e le bellezze coloniali di Antigua.

Vulcani attivi, chiese a cielo aperto e introduzione sul cacao

Antigua Guatemala, una cittadina nel sud del Guatemala sulla quale dominano due alti vulcani così attivi che uno di loro emette regolarmente fumate grigie dalla bocca, viene fondata dagli spagnoli nel 1543.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Per circa 200 anni venne utilizzata come capitale della colonia spagnola del Guatemala, che allora comprendeva non solo l’odierno territorio guatemalteco ma anche l’Honduras, il Belize, El Salvador, il Nicaragua, la Costa Rica e lo stato messicano del Chiapas, ed era considerata una delle più belle città dell’intera Mesoamerica ispanica.

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La sua importanza si riflette nella qualità della costruzione dei tanti edifici coloniali, tutti meravigliosi e decorati in maniera sopraffina.

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsAntigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I tanti vulcani attivi presenti in questa zona sono la ragione per cui le terre circostanti ad Antigua sono molto fertili, ma sono anche collegati ai frequenti terremoti che piagano la zona ormai da millenni. Uno di questi terremoti, nella prima metà del ‘700, fu così devastante da radere al suolo la cittadina coloniale. La distruzione fu così ampia che gli spagnoli si videro costretti a spostare la capitale a circa un’ora di distanza, dove tutt’ora sorge e funziona come capitale Città del Guatemala.

Il risultato di questo trasferimento è che non si sentì l’obbligo di ricostruire tutta Antigua e certi edifici, soprattutto chiese, vennero abbandonate e si ergono tutt’ora mezze distrutte. Dovrebbe essere un peccato ma in realtà queste numerose chiese scoperte e danneggiate esercitano un grande fascino, soprattutto perché nonostante la distruzione è ancora possibile apprezzarne il valore artistico.

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsAntigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsAntigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsAntigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsPer il resto, Antigua non è decisamente un luogo dimenticato dall’umanità. Il fascino coloniale e il fatto che il centro storico non presenti nessuna struttura moderna ( Per fortuna tutte le cose brutte e “ moderne” le hanno relegate a Città del Guatemala!) fanno si che la cittadina venga regolarmente visitata da viaggiatori di tutto il mondo e sia in assoluto l’attrazione maggiore dell’intero Guatemala.

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsAntigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsAntigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsAntigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.jsAntigua attualmente ha molti localini moderni ed è possibile mangiare in una bettola locale tanto quanto è possibile cenare con cibo giapponese o coreano. La popolazione locale che in molti casi si veste ancora in maniera tradizionale si mischia in maniera armoniosa con i tanti visitatori e con la comunità di stranieri che qui vivono.

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il centro non è molto grande ed è possibile girarlo comodamente a piedi.

Prendo un caffè in un locale consigliato dall’ostello che offre buon caffè coltivato a pochi chilometri da Antigua e che offre viste mozzafiato sui due vulcani, uno dei quali emette regolarmente fumate grigie.

Vulcano visibile dal centro di Antigua che, ogni giorno, emette fumohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Nei giorni successivi mi dedico a scoprire Antigua con calma, senza una mappa e senza una meta specifica. Il piano a griglia fa si che a ogni incrocio mi guardi attorno , scelgo di imboccare la stradina che sembra più pittoresca, e scopro sempre più scorci e negli edifici. La cittadina da un senso di sicurezza e pace, e la temperatura che si aggira sui 25 gradi rende la camminata gradevole.

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ho ancora qualche giorno a disposizione e le tante agenzie di viaggi in giro per Antigua suggeriscono collegamenti con molte località al di fuori del Guatemala. Oltre a ritornare a San Cristóbal de Las Casas, sarebbe possibile raggiungere le rovine Maya di Copan in Honduras, le spiagge salvadoregne e perfino il Nicaragua. Sarebbe tutto allettante, soprattutto il Nicaragua di cui continuo a sentir parlare così bene, ma alla fine non ho abbastanza tempo per far tutto e tornare a Città del Guatemala da cui il 24 ho un volo per tornare in Messico. Decido quindi di prendermela con calma ad Antigua e progettare una gita di qualche giorno al vicino lago di Atitlan, insieme ad Antigua e Tikal la grande attrazione che ha da offrire il Guatemala.

Oggi approfitto per approfondire un aspetto del Guatemala che mi interessa, ossia la produzione di cacao.

Ad Antigua è possibile comprare del cioccolato guatemalteco di buonissima qualità e prendo parte a un workshop per capire di più quello che è il mondo del cacao.

La pianta è probabilmente originaria del Sudamerica e in qualche modo arrivò molto presto in Mesoamerica. Fonti storiche ci permettono di sapere che il cacao viene consumato in questa zona del mondo da millenni e che veniva altamente riverito a causa delle sue proprietà eccitanti.

I Maya furono probabilmente i primi a ricavare quello che oggi intendiamo come cacao dal frutto della pianta del cacao, che coltivavano nei propri giardini. Dopo la lavorazione ne ricavavano una bevanda spumosa e molto amara che veniva consumata solo dalle élite più facoltose della società.

Qualche secolo dopo gli Aztechi, durante la loro espansione verso sud e entrando in territorio Maya, scoprirono la bevanda e se ne dichiararono subito grandi fans.

Workshop sul cacao, Antigua Guatemala. La storia del cacao e le sue preparazioni in territorio Maya e Azteco.https://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il problema è però che il loro territorio natale, in zona Città del Messico, ha un l’altitudine e un clima decisamente non adatti alla coltivazione delle piante da cacao. Essi si videro quindi costretti ad importare il prezioso frutto dalle nuove zone acquisite, che avveniva attraverso la donazione forzata del frutto da parte delle popolazioni locali come tributo ai nuovi dominatori Aztechi.

Anche gli Aztechi consumavano il cacao in versione liquida, anche se rispetto ai Maya loro la bevevano fredda e arricchita da spezie quali il peperoncino, pepe della Giamaica, vaniglia, miele e/o petali di fiori.

Il cacao occupava una parte importantissima delle cerimonie Aztechi perché veniva associato all’importante dio mesoamericano Quetzalcoatl il quale, secondo la leggenda, venne ripudiato dagli altri dei per aver condiviso il frutto del cacao con gli umani. I famosi sacrifici Aztechi che vedevano la rimozione del cuore durante i riti religiosi stavano a simboleggiare appunto l’eradicazione del frutto dalla pianta e la successiva donazione a Quetzalcoatl.

E poi arrivano gli spagnoli, che provarono la bevanda e non ne rimasero proprio convinti.

Questo strano gusto, questa amarezza!

Ciononostante ne apprezzarono le proprietà, si diceva fosse buono per la digestione ed era evidentemente una sostanza eccitante.

Cristoforo Colombo portò qualche frutto del cacao di ritorno dai suoi viaggi di avanscoperta ma in realtà non riscossero un gran successo. ‘Na roba strana con dei chicchi dai semi grossi e insipidi e una polpa difficile da succhiare. Pensare gli gli Aztechi uccidono per ‘sta roba!

Ci volle qualche anno e il ritorno di Cortez con la ricetta per preparare la bevanda a base di cacao per cominciare ad attirare i palati ispanici al nuovo prodotto.

Quasi da subito però gli spagnoli decisero di migliorare, a dire loro, la ricetta con l’aggiunta di un ingrediente: lo zucchero. Questa innocua aggiunta cambierà il mondo del cacao per sempre, perché dopo lo zucchero il cacao cominciò a riscuotere un enorme successo in tutta Europa. Per secoli venne consumato esclusivamente come bevanda e esclusivamente da chi se lo poteva permettere, ossia ben pochi.

Nel 1815 un chimico olandese chiamato Van Houten riuscì ad introdurre dei sali alcalini al cacao, riducendone l’amarezza.

Dieci anni dopo inventò una speciale pressa che separava la pasta di cacao dal burro di cacao, rendendo così possibile produrre più cioccolato a costi più contenuti, ma non solo. La separazione dei due ingredienti e la successiva ricombinazione ( scoperta da Joseph Fry nel 1847) creò per la prima volta le barre solide di cioccolato, cambiando l’uso della sostanza per sempre.

Il 1875 è un’altra data importante nella storia del cioccolato: a un certo Henri Nestlé venne l’idea di aggiungere del latte in polvere al cioccolato, creando di fatto le prime barre di cioccolato al latte. Infine nel 1879 un certo Rudolphe Lindt inventò una macchina che, lentamente ma regolarmente, mescola il cioccolato per ore migliorandone il gusto e la consistenza.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ma come si produce il cioccolato? Vediamo di esplorarne brevemente la lavorazione da frutto a barra.

Innanzitutto la pianta del cacao, che ha bisogno di un clima specifico per crescere. Il cacao infatti predilige altitudini molto basse, meglio ancora se a livello del mare, e gioisce in ambienti umidi. Appena la si porta in ambienti più alti e secchi, inesorabilmente perisce.

Il fiore viene impollinato non dalle api ma da un tipo specifico di moscherino e finisce per produrre un frutto grosso e dalle belle tonalità rosse, gialle o arancioni.

I Maya raccoglievano il frutto strappandolo dal ramo ma attualmente i coltivatori tagliano con cura il frutto separandolo dal ramo, perché lo strappo di fatto danneggia la pianta che eventualmente non produce più frutti.

Il frutto si presenta ricoperto da un guscio resistente che va tagliato. Al suo interno ci sono dei chicchi dal cuore duro e insapore ricoperti da una polpa commestibile dal gusto che ricorda il mango o i litchi.

Workshop sul cacao, Antigua Guatemala. Il cacao fresco che al suo interno presenta chicchi dal cuore viola e insipido ricoperti da una polpa il cui sapore ricorda i litchi e il mango.https://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Seme di cacaohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I produttori di cacao procedono a svuotare manualmente ogni guscio e i chicchi ancora ricoperti dalla polpa vengono conservati in casse di legno e lasciati fermentare per circa una settimana.

A fermentazione avvenuta, i chicchi vengono stesi su grandi superfici piane e vengono fatti seccare al sole per qualche giorno, venendo rigirati ogni tanto per fare in modo che si secchino regolarmente.

Mentre quando si assaggia il chicco in versione cruda c’è veramente poco nel gusto che ricordi il prodotto finale, il chicco a questo punto comincia ad avere un gusto più familiare anche se molto, molto amaro, decisamente non dolce. La fermentazione in particolare impartisce l’acidità tipica del cioccolato nella sua versione più pura.

Una volta seccati per bene si passa alla tostatura che funziona in maniera non troppo dissimile dalla torrefazione del caffè. Anche con i chicchi di cacao è possibile tostarlo in grandi forni specifici o in maniera rudimentale, con un copal ( un piatto di ceramica Maya che tradizionalmente si usa a contatto con un focolare) o anche con una normalissima padella. Come con i chicchi di caffè, la tostatura impiega una decina/quindicina di minuti e finisce quando i chicchi cominciano a scoppiettare stile popcorn.

Workshop sul cacao. La fase di tostatura del chicco di cacao, che lo rende da duro a lavorabile. Dopo la tostatura la “ buccia” si rompe facilmente rivelando il cuore da cui si produce il vero cacaohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I chicchi tostati vanno raffreddati e inseriti in un macchinario che separa i gusci dal chicco interno, oppure si può fare a mano schiacciando il chicco con il palmo delle mani. Il gusto del chicco interno è decisamente vicino al gusto che conosciamo come cioccolato, un po’ come era prima della tostatura ma ora con più carattere, anche se appunto sempre molto amaro.

Workshop sul cacao, Antigua Guatemala. Strumenti per la lavorazione del chicco di cacao dopo essere stato fermentato, seccato e tostato.https://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Questi chicchi interni vengono quindi triturati da un macchinario o, nella versione mesoamericana tradizionale, con una specie di mortaio.

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La frizione, aiutata da un certo olio di gomito, fa si che si formi una specie di pastella di cacao. Se questa pasta venisse inserita in quel famoso macchinario che separa le sostanze, otterremmo la separazione tra pasta e burro e da lì potremmo creare le nostre barre ricombinando i due ingredienti e aggiungendo dello zucchero( =cioccolato fondente), dello zucchero e polvere di latte ( =cioccolato al latte) oppure potremmo creare del cioccolato bianco che, nella sua versione più rudimentale, altro non è che burro di cacao misto zucchero e polvere di latte.

Workshop sul cacao, Antigua Guatemala. Una barra di cioccolato e i pochi ingredienti che servono a crearla artigianalmente: pasta di cacao, burro di cacao e zuccherohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
Ma diciamo che vogliamo farci una cioccolata calda in stile preispanico .

La pastella che ho ricavato può essere formata a mo di dischetto e lasciata seccare, così ogni volta che mi va una cioccolata posso scioglierla nell’acqua aggiungendo qualche spezia come menzionato prima.

“ pastiglia” di pasta di cacao che viene fatta seccare e poi serve come base per le bevande a base di cacaohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Posso anche usare lo stesso dischetto per farmi una cioccolata come la facevano gli spagnoli, sostituendo il latte al posto dell’acqua, aggiungendo dello zucchero e utilizzando un apposito paletto per mischiare il tutto.

Noi finiamo il corso proprio così, con un assaggio di cioccolata spagnola, una preispanica e un the fatto con i gusci del cacao, che sembra sia un eccellente digestivo.

Bevanda al cacao utilizzando la ricetta che usavano gli antichi Mayahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Workshop sul cacao, Antigua Guatemala. Preparazione di bevande a base di cacao: tostatura dei chicchi come ai tempi dei Maya e assaggio di infuso fatto con le bucce, bevanda di cacao in stile Maya e in stile spagnolo.https://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

E oggi vi lascio con un piccolo cameo mentre preparo una barra di cioccolato 🙂

Workshop sul cacao, Antigua Guatemala. Preparazione di una barra di cioccolato. La mia l’ho lasciata metà al naturale e metá l’ho “ condita” con del peperoncino e amaranto soffiatohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Esplorando Flores e scoprendo Tikal

Pensando che Flores serva solo come base di appoggio per una visita veloce all’antica città Maya di Tikal, non ci si aspetta molto dalla località in se. Dopo aver constatato la bruttezza di Aguas Calientes, il paesino satellite per le visite a Machu Picchu, e la relativa inutilità della cittadina di Palenque, pensare che anche Flores non serbi niente di interessante sarebbe facile. 

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

A differenza delle altre sue località, però, Flores esiste da molto più tempo e ha una storia a se stante rispetto a Tikal, da cui dista comunque circa 70km. 

Lungolago a Floreshttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Flores venne fondata dagli Itzá sullo stesso isolotto che occupa tutt’ora. Gli Itzá erano un gruppo di Maya che originalmente abitava la penisola dello Yucatán e che costruirono la famosa piramide di Chichen Itzá, forse la costruzione Maya più famosa ai giorni nostri. A causa di scontri interni gli Itzá si videro costretti ad abbandonare lo Yucatán e scapparono verso le giungle dell’ovest, nell’odierna regione del Petén in Guatemala. Arrivando al lago di Petén Itzá giudicarono l’isolotto situato nel mezzo un buon posto per fondare la loro nuova patria e li ci si stabilirono chiamandola Tah Itzá, “ il luogo degli Itzá.

Flores Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Flores Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Hernán Cortés passò per di qui nel 1525 mentre era in viaggio per l’Honduras e l’incontro tra spagnoli e locali fu sorprendentemente pacifico. Cortés donò al re degli Itzá un cavallo, un animale che ispirò loro ammirazione e riverenza sin dal primo momento. Il cavallo di Cortés venne elevato a figura divina e, in quanto tale, gli si offrivano fiori e oro da mangiare. Quando il povero animale morí di fame gli Itzá elevarono una statua a sua memoria che, quando passarono i successivi spagnoli nel 1618, veniva venerata come la manifestazione del dio della pioggia Chac. Un po’ come il gioco del telefono in cui si parte con una frase e, passate varie persone e interpretazioni, finisce per assumere nuovi significati e ci si dimentica del significato originale.

Flores Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Fu solo nel 1697 che gli spagnoli riuscirono a dominare totalmente Flores e gli Itzá, che fa di loro l’ultimo impero Maya a cadere. Gli europei procedettero a distruggere ogni traccia degli Itzá dall’isola e ad oggi non rimango tracce del passato Maya di Flores. 

Tikal invece è tutto un altro discorso. 

Situata a 70km da Flores questo enorme gruppo di rovine Maya rimase per secoli coperto dalla folta giungla che prese il sopravvento sulle strutture dopo l’improvviso e misterioso abbandono. 

Tikal, Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tikal venne fondata dai Maya circa 700 anni prima della nascita di cristo ma fiorí circa 500 anni dopo, età in cui vennero costruiti molti degli edifici più importanti del sito. 

Essa era una città di enorme importanza, famosa tanto per gli avanzi scientifici tipici della civiltà Maya quanto per la temibile forza militare che, nella costellazione di Città-stato dell’Impero Maya, la rese una delle più rinomate e potenti almeno fino al 900 dopo Cristo, quando venne misteriosamente abbandonata così come furono misteriosamente abbandonate tutte le città Maya prima dell’avvento dell’anno 1000. 

Tikal, Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Senza qualcuno che la tenga a bada, la fitta giungla circostante cominciò a divorare Tikal, mimetizzandola alla perfezione con la natura circostante fino al punto di trovarsi davanti a enormi colline ripide ricoperte di vegetazione e alberi e non rendersi quasi conto che sotto c’è una grande piramide Maya. 

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Senza dubbio gli Itzá, quella popolazione di affiliazione Maya che arrivò in Guatemala ben dopo l’abbandono di Tikal, sapeva dell’esistenza delle rovine e anzi, forse venerava i suoi templi. Perfino qualche sacerdote spagnolo che venne ad abitare nel Petén dopo la conquista ne sentì parlare, ma non se ne fece mai niente. 

Fu solo nel 1848 che il governo guatemalteco organizzò una spedizione per visitare il sito. Successive spedizioni e il lavoro di alcuni archeologi portarono alla luce una serie di edifici finalmente ripuliti da secoli di rivestimento verde, ma i lavori vennero decisamente rallentati dal 1979 in poi quando Tikal venne ufficialmente riconosciuta Patrimonio dell’Unesco. Da allora, mettere le mani sugli innumerevoli edifici ancora sotto la vegetazione è diventato un affare burocraticamente più complesso, e i lavori procedono a rilento. Si stima che solo il 10% del sito archeologico sia stato messo a posto, lasciando un incredibile 90% nel mistero. 

Tikal, Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Passo il primo giorno a Flores rilassandomi e visitando la piccola isola, che veramente impiega 15 minuti della propria vita. Nonostante ciò, come dicevo, perché non ci si aspetta proprio niente alla fine Flores finisce per sorprendere un po’. Il centro è gradevole, le casette colorate e gli scorci con vista lago estremamente affascinanti. 
Ne approfitto anche per organizzare la gita per Tikal l’indomani. Mi informo su cosa propone l’ostello e mi dicono che organizzano solo programmi che prevedono l’arrivo la mattina presto, per godersi l’albeggiare sul sito archeologico. 
Oh oh, qua mi puzza da Machu Picchu. 
Per chi non si ricordasse o non avesse avuto modo di leggere la mia esperienza a Machu Picchu, anche lì mi convinsero che l’alba era un’esperienza incredibile. “ Meno persone! Solo tu e Machu Picchu col sole che spunta dai monti e illumina il sito!”. Ci si alza alle tre del mattino, ci si mette in fila per lo shuttle che porta all’entrata DUE ore prima sotto le intemperie e si arriva davanti a Machu Picchu verso le sei/ sei e mezza che immancabilmente è coperta dalla nebbia che si alza dalla giungla e che copre il sito almeno fino alle nove del mattino. Altro che alba, ci si trova davanti a Machu Picchu senza nemmeno rendersene conto! 

Passo tutta una giornata in fase di relax e preparo il necessario per la levataccia. 
Dopo un’ora e mezza di pisolino…ehm viaggio in minivan verso Tikal finalmente arriviamo all’entrata immersa nella giungla.

Tikal, Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

È umido e il cielo è coperto dalle nuvole come mi aspettavo, altro che alba. Spero comunque che il cielo di apra un po’ durante la mattinata. 

Tikal, Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Faccio amicizia con una ragazza tedesca e girovaghiamo per il sito archeologico con pochi altri visitatori: siamo noi, la giungla, alcune scimmiette appese ai rami dei grandi alberi e perfino qualche tucano che vola da fronda a fronda. 

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il sito di Tikal è spettacolare per le sue strutture ma soprattutto per questa sua ambientazione selvaggia.

Tikal Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

L’unico lato negativo sono le tantissime zanzare che banchettano sulla nostra pelle. 

Durante la maggior parte della visita il cielo è coperto dalle nuvole ma finalmente, un’ora prima del nostro ritorno in paese, qualche raggio penetra le nubi e finalmente riusciamo a fare qualche bella foto. 

Tikal, Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tornando a Flores ne approfitto per mangiare qualcosa e preparare per bene lo zaino perché la sera mi aspetta un bus notturno per Antigua, l’antica capitale del Guatemala e ad oggi una cittadina coloniale molto popolare tra i turisti. 

La notte nell’autobus passa relativamente veloce e la sistemazione è moderna e confortevole, e alle sei e mezza mi ritrovo nella stazione degli autobus della capitale, Città del Guatemala. 

Io e un’altra coppia aspettiamo la nostra connessione per la vicina Antigua che alla fine passa a prenderci un’ora e mezza dopo. 
Arrivo finalmente in ostello ad Antigua e ho modo di dare una sbirciata alla cittadina che sembra molto carina e soprattutto ai due enormi vulcani attivi che dominano il centro abitato, che emettono regolarmente fumate scure. 

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Antigua promette bene e avrò modo di raccontarvi di più tra qualche giorno dopo averla visitata meglio! 

Strade bianche in mezzo alla giungla e fiumi da guardare: la frontiera Messico/Guatemala

Strade bianche in mezzo alla giungla e fiumi da guardare: la frontiera Messico/Guatemala

É sera a Palenque e me la prendo con comoda. Il trasporto che ho prenotato per il giorno dopo parte alle 9 del mattino quindi ho tutto il tempo di fare lo zaino domani mattina. 
Sono le nove e mezza di sera e mentre cerco di usufruire del flebilissimo segnale di Wi-Fi che offre il mio ostello nella reception intravedo il tizio da cui ho prenotato il trasporto per domani. Lo saluto in maniera vaga ma quando lui mi vede gli si accende lo sguardo. 
“.. Gina? Giorgina?” 
Non so perché ma all’estero sono quasi sempre Giorgina, non ho mai capito cosa ci sia di difficile nel nome Giorgia ma va bene. 
Confermo che se cerca Giorgia allora si, sono io, lui annuisce e conferma, Giorgina per fortuna ti ho trovata. 
Giorgina, mi viene annunciato, c’é un problema per il trasporto domani. Il servizio più confortevole che avevo prenotato, che passa per una frontiera più diretta tra Messico e Guatemala, é da rimandare a tempo indeterminato perché la frontiera attraverso cui si passa sembra sia chiusa per qualche motivo sconosciuto. 

Non sapendo quando questa frontiera riapra l’unica soluzione sembra quella di prendere l’altro trasporto, quello che mi é stato presentato come un po’ meno confortevole, che passa per una frontiera chiamata Corozal. Non ho molta scelta e ovviamente accetto. 
Ah, Giorgina, ricordati però che questo servizio parte alle sei del mattino. 

Hasta luego! 
Mierda, ora me lo dici? 
Cerco di accelerare il caricamento delle foto per l’articolo precedente ma non c’è modo di spicciarsi , nonostante i giochi da saltimbanco che creo pur di finire e pubblicare l’articolo si sono comunque fatte le dieci e mezza di sera. 
Corro verso il mio dormitorio per fare lo zaino a tutta velocità ma metà dei miei compagni di stanza sta già dormendo. Mi vedo costretta a preparare le cose al buio e in silenzio, sperando di non dimenticare niente. 
Dormo per qualche ora ma ho il sonno leggero e mi sveglio ogni ora. 

Finalmente arrivano le 5:30 e mi alzo come una molla cercando di prepararmi nuovamente al buio e controllare ripetutamente di avere tutto appresso.
Alle sei mi trovo pronta e aspetto il furgoncino che dovrebbe venire a prendermi. 
Mi raccomando Giorgina, alle 6 puntuali fuori dall’ostello eh! 

E poi passano alle 6:30. E va bene ormai sappiamo come funziona. Spero solo non mi abbiano dimenticata perché non ho nessun contatto. 
Già dal giorno prima sento un certo malessere albergare nel mio corpo. Non so bene cosa sia, forse il cambio repentino di temperatura, la mancanza di cibo semplice, la stanchezza accumulata o forse un insieme di tutto, mi sento debole e leggermente febbricitante. La sera mi consolavo che almeno non avrei avuto una levataccia da fare il giorno dopo e in fin dei conti avrei viaggiato in modalità “ lusso” , ma con queste prospettive sfumate comincio a preoccuparmi che non sia la giornata giusta per passare una frontiera, un passo che richiede sempre una certa prontezza di testa per sapere dove andare e cosa fare e il tratto che, ammetto, mi ha messo sempre un certo timore quando progettavo questo viaggio. 

Oltre a ciò, oggi sarò praticamente l’unica del minivan che passerà la frontiera. Tutte le altre persone stanno andando a visitare un sito Maya vicino la frontiera e io verrò “ mollata” un po’ prima contando che sappia attraversare il confine più o meno per conto mio. 
Passo tutto il tragitto fino alla frontiera in stato narcolettico, mi addormento in qualsiasi posizione e nonostante qualsiasi scomodità. Le volte in cui mi sveglio sento il malessere presente e debilitante, sono sconcentrata e distante. 

Incrociamo le dita. 
Finalmente arriviamo alla frontiera Corozal dopo quasi cinque ore di sonnellin… ehm, di tragitto. 

Giorgina! Mi chiama l’autista. Vai a farti stampare il passaporto per l’uscita dal Messico mentre io porto gli altri a destinazione, ci vediamo tra cinque minuti vicino all’insegna col giaguaro, ciao!”. E così, senza tante cerimonie, vengo scaricata davanti alla casetta adibita al controllo passaporti della parte messicana. 

Dietro al bancone siede una gioviale guardia messicana tutti scherzi e sorrisi. Mi chiede i documenti che mi sono stati dati all’arrivo in Messico in modo da evitare di pagare una multa, io presento tutto. “ Muy bien. Ahora , 500 pesos” . 

Cosa?? Venti euro per USCIRE dal paese? 

Non so se sia una cifra ufficiale o se sia stata gonfiata o perfino inventata dalla guardia, che siede da solo al bancone e immagini possa fare il bello e il cattivo tempo, ma sono mezza malata e che faccio se non pago, non passo? E il mio zaino che è ancora sul minivan e il trasporto che mi aspetta in Guatemala? 

Toh tieni sti maledetti 500 pesos e comprati qualcosa di bello, che ci posso fare. 
Ancora imbambolata dal sonno cerco di raccapezzarmi e prendo le mie cose. 

L’autista mi affida a un messicano baffuto e tarchiato e mi dice che basta seguire lui. Io prego di non dimenticarmi il suo faccione rotondo e mi precipito al suo seguito. 

Convergo in un gruppo di altri cinque/sei viaggiatori che stanno facendo lo stesso mio percorso, anche se nessuno viaggia da solo e quindi nessuno ha voglia di parlarmi o di fare squadra con me. Ci viene segnalata una lancia di legno e ci viene fatto capire che per andare in Guatemala bisogna passare così il fiume. 

Frontiera “ Corozal” tra Messico e Guatemala.https://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Montiamo sulla scialuppa e, imbarcati tutti, navighiamo verso il Guatemala. 
Poggiamo il piede in territorio guatemalteco e veniamo assaliti da giovani che cercano di convincerci a cambiare i nostri pesos messicani coi loro quetzales, non essendoci nessun cambio in vista ne approfitto e cambio un po’ di soldi.
Il faccione rotondo che mi è stato comandato di seguire trotta a passo deciso e sta a noi riuscire a stargli dietro. Si introduce in una specie di capanna e comincia a discutere ad alta voce con un guatemalteco che urla ancora più forte, scoprirò a breve che si tratta dell’autista che mi porterà a Flores col suo sgangheratissimo bus. 

Mi viene fatto segno in maniera sbrigativa che devo precipitarmi dentro a suddetta catapecchia su quattro ruote se voglio arrivare a Flores. Veloce però! 

Io protesto un po’ e dico che non mi è ancora stato stampato il passaporto per l’entrata in Guatemala. Ho letto di viaggiatori che sono riusciti a passare senza trovare la postazione per lo stampo del passaporto dalla parte guatemalteca e che poi hanno dovuto pagare una multa alla loro uscita dal paese e vorrei evitare questo scenario. 

“ Tra mezz’ora! Ci arriviamo tra mezz’ora” mi viene spiegato in tono di ovvietà. Decido di fidarmi , butto lo zaino e me stessa dentro al bus e per fortuna sono stata veloce, perché poi siam partiti … quindici minuti dopo. 

Comincia un tratto di strada bianca… che dico.. candida!… che percorreremo per circa due ore. 
Mentre vengo shakerata dai mille sassi e buche presenti sul tragitto ho modo di osservare i miei unici compagni di viaggio, due coppie di francesi che suppongo essere in età da recente pensionamento. Ridono spensierati tra di loro e sembrano non accorgersi delle condizioni della strada, parlano bene lo spagnolo e colgono ogni occasione per attaccare bottone sia con me che con i due o tre guatemaltechi che imbarchiamo durante il tragitto. 

Ad ogni mio lettore che è convinto che per fare questo tipo di viaggio bisogna avere meno di trent’anni e dosi sovraumane di coraggio, vorrei tanto aveste visto queste due coppie per rendervi conto che veramente, basta solo un pizzico di coraggio e spregiudicatezza e nella vita si può fare di tutto, anche viaggiare allo sbando come stiamo facendo io e questi francesi. 

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Passiamo per la postazione che ci timbra i passaporti. 

Frontiera guatemaltecahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Untitledhttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Finalmente dopo quattro ore, di cui due di strada bianca , due di un tratto che sembra sia stato asfaltato per l’ultima volta venti anni fa e quasi la totalità del tempo in modalità sonnellino ( a un certo punto mi sono addormentata della grossa col busto in versione verticale e la testa a penzoloni, impossibilitata nell’appoggiare il capo sul sedile per via della strada selvaggia. Ormai posso davvero addormentarmi in qualsiasi condizione) arriviamo nella capitale della regione guatemalteca del Petén, Flores. 

Flores, Guatemalahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il centro storico si sviluppa su una piccola isola in mezzo al lago collegata alla costa e alla Flores più moderna attraverso un ponte. Tutti gli hotel e le attrattive turistiche sono sull’isola ma io ho scelto un ostello raggiungibile dall’isola con una lancia gratuita disponibile a qualsiasi ora del giorno previo messaggio via Whatsapp. 

Mi imbarco sulla lancia e tutte le ore di tribolazione vengono ripagate da una vista a dir poco sensazionale e quel mini senso di avventura dato dallo sfrecciare sull’acqua con la mia “ personale” barchetta. 

Arrivo a Floreshttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il giorno dopo è dedicato al riposo più completo per poter riprendere le energie necessarie alla continuazione di questo viaggio e all’acclimatazione al calore e all’umidità del posto, che temevo fosse debilitante come lo fu a Cartagena ma che invece si rivela comunque sopportabile. 

Flores la serahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Prossima tappa, l’attrattiva che fa si che Flores figuri negli itinerari di chiunque metta piede in Guatemala: Tikal, le rovine Maya più importanti del Guatemala e senza dubbio di tutto il centro America! 

Rovine Maya perse nella giungla, benvenuti a Palenque

Un po’ di silenzio stampa in questi ultimi giorni, una combinazione di Wi-Fi scarsi e un’incipiente malessere generale. Per rifarmi, però, oggi vi porto niente popò di meno che a Palenque!
Ma retrocediamo un po’ . Il mio ultimo giorno a San Cristóbal de Las Casas l’ho dedicato a un workshop sul cacao prodotto localmente. È stato molto interessante e ho avuto modo di provare cose mai provate prima, come del cacao puro al 100%, il te fatto con i gusci dei chicchi di cacao seccati e il burro di cacao nella sua forma più pura.

 Corso sul cacao San Cristóbal de Las Casas//embedr.flickr.com/assets/client-code.js
 

Contavo però con un po’ più di spiegazioni basiche per chi, come me, non sa molto di cacao. Diciamo che il ragazzo che mi ha impartito il mini corso è sicuramente un ottimo conoscitore del suo prodotto ma non è nato coi geni del formatore. Ho però intenzione di partecipare a più corsi del genere andando avanti, quindi rimandiamo il discorso cacao a una prossima volta.

 

Arriva anche il mattino in cui lascio San Cristóbal, fa abbastanza freddo durante la notte e il mattino presto quando il sole non innonda ancora la cittadina coi suoi raggi.

Un taxi mi porta alla stazione degli autobus, il tassista cordiale mi chiede da dove vengo e se viaggio da sola, io rispondo che certo che no, i miei amici mi aspettano in stazione. È sempre un peccato dover mentire a una persona che magari è totalmente innocua, ma il mondo è fatto così e di fatto non ci si può mai fidare, di sicuro non quando si viaggia da sole.

Monto sull’autobus, uguale a quello notturno preso da Oaxaca a San Cristóbal, e mi metto comoda. Essendo un bus giornaliero non sono così preoccupata di avere un buon vicino, e mi capita un messicano dal viso bruciato dal sole e solcato dalle rughe che non mi rivolge la parola. Bene!

A venti minuti dalla partenza, visto che il bus è meta vuoto, il mio vicino si sposta nei sedili vuoti di fronte e procede a stravaccarsi manco gli si fosse sciolta la spina dorsale tutto d’un tratto.
Dopo poco ci fermiamo a Tuxtla Gutiérrez, la capitale dello stato del Chiapas, per imbarcare più persone. Il mio vicino é costretto a farsi ricrescere la spina dorsale e torna mestamente a sedersi al mio lato, scommetto che gli dispiace tanto quanto dispiace a me.

Dopo qualche ora ci fermiamo in quello che fondamentalmente è la versione sud-messicana di un autogrill, una baracca coperta da un tetto in laminato che vende tacos e cianfrusaglie varie.
Stiamo passando nello stato del Tabasco, eh si esiste uno stato chiamato come la salsa e sospetto che non sia un caso ma non vi so dire molto. La temperatura qui è molto diversa rispetto a San Cristóbal, ci saranno 24/25 gradi ed è iniziata l’umidità.

Dopo l’esperienza devastante a Cartagena con l’umidità ho un certo timore di affrontare questo prossimo passo del viaggio, tutto immerso com’è nella giungla. Mi hanno detto che c’è umidità, che ci sono zanzare, che c’è caldo. Aiuto!
Arrivo nella cittadina di Palenque quando il sole è calato da un’oretta. Per fortuna la stazione è attaccata alla zona della cittadina designata ai turisti, un’area con una bella pavimentazione immersa in un lussureggiante verde tropicale e piena di hotel e locali.

Non impazzisco all’idea di camminare la notte con lo zaino sulle spalle in un posto nuovo ma per fortuna l’ostello è davvero vicinissimo alla stazione. Essendo l’ultimo ostello disponibile purtroppo ho dovuto accontentarmi e, nonostante sia confortevole e pulito, non offre ne la colazione ne il Wi-Fi nelle stanze nonostante il costo relativamente esoso. Purtroppo va detto, rispetto al Perù, la Bolivia e la Colombia il Messico sembra avere alloggi leggermente più costosi.

Con la mancanza di internet a distrarmi mi addormento subito come un sasso e la mattina mi sveglio riposata ma potrei dormire per molte altre ore. Ma non c’è tempo, oggi mi aspetta una delle attrattive maggiori a questo viaggio, il mitico sito archeologico di Palenque.

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palenque fu costruita tra il 600 e l’800 dopo Cristo dalla civiltà Maya, che durante secoli abitò la zona del Centro America che ora designiamo come gli stati messicani del Chiapas, del Tabasco e i tre che costituiscono la penisola dello Yucatan, gli attuali paesi indipendenti del Belize e Guatemala e una piccola parte del odierno Honduras.

Untitled//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

È importante tenere conto che la civiltà Maya non era un gruppo omogeneo di persone. Esistevano delle vere e proprie città stati che rivaleggiavano tra di loro per esercitare più potere nonostante poi tutti fossero Maya per via della cultura e della lingua che condividevano.

Palenque era una di queste città stato, una delle più importanti. Venne costruita e usata come centro nevralgico di potere per circa duecento anni e venne successivamente abbandonata, non si sa bene il perché.
Quando arrivarono gli spagnoli l’impero Maya era già in fase di netto declino, nonostante godesse ancora del passato prestigio. Come potrebbe essere altrimenti:la civiltà Maya, infatti, durò per molti secoli ed era incredibilmente avanzata, soprattutto quelli del periodo auge, i cosiddetti “ Maya Classici” ( 250-900 dopo Cristo).

I Maya Classici raggiunsero un livello di alta sofisticazione a livello mondiale in campi come l’arte e l’architettura e, come diremmo in Veneto, “ mangiavano gli gnocchi in testa” a tutte le civiltà americane preispaniche in campi quali l’astronomia, la matematica e l’astrologia.

Essi usavano un alfabeto di loro creazione, una sorta di incrocio tra fonemi e disegni, che nonostante non sembri minimamente al nostro funziona in modo non troppo dissimile ( a ogni disegno corrisponde una sillaba o una serie di esse).

Alfabeto Maya, Museo di Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Fortunatamente lo abbiamo decifrato e la lettura dei lunghi testi scolpiti sulle facciate degli antichi palazzi ci raccontano moltissimo sugli usi e i costumi delle classi alte dell’Impero Maya.

Oltre a un alfabeto totalmente funzionante i Maya raffinarono il concetto di calendario, già presente in altre civiltà preispaniche. Non lasciavano niente al caso: i templi venivano tutti costruiti secondo direttive precise che permettesse di utilizzarli nello studio degli astri, nella registrazione e soprattutto nella predizione di eventi cosmici quali le eclissi e i movimenti del Sole e della Luna.

Essi riuscivano perfino a misurare il tempo, ore, giorni, mesi e anni, e credevano di vivere in un ciclo della vita parte di una sequenza di cicli passati e futuri. Erano convinti che un giorno anche il loro attuale ciclo sarebbe finito e che insegnamenti importanti potevano essere tratti nell’osservazione dei cicli precedenti, aiutando eventualmente nella predizione del futuro.

I Maya credevano in molti dei che cercavano di ingraziarsi attraverso elaborate cerimonie di danza, banchetti e perfino sacrifici umani, anche se sembra che i Maya Classici ne facessero davvero pochi e che fu una pratica che, così come in quasi tutte le civiltà mesoamericane del tempo fu crescendo in uso solo dopo l’anno 1000dc, ossia quando i Maya già non erano più i “ grandi Maya”.
Qualcosa successe poco prima dello scoccare dell’anno 1000dc : troppe guerre tra città-stato e una serie di periodi di siccità combinati con una crescente pressione della popolazione sono quelle che gli storici teorizzano essere le ragioni del cataclisma della civiltà Maya.

Troppa guerra, troppe temperature che si innalzano, troppa gente da sfamare. Suona familiare?

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

I Maya cessarono di esistere come grande civiltà ma non come etnia: i loro discendenti occupano tutt’ora le zone dell’antico impero e continuano a parlare la lingua dei loro avi, che si sente per le strade più dello spagnolo.
Quindi, eccoci alle porte Palenque.

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Pago 32 pesos per l’entrata nel parco nazionale di Palenque ( non ci sono solo rovine qui ma anche un sacco di bellissima natura e fauna tropicale) e 70 pesos per l’entrata alle rovine e al museo connesso.

Sembrano grandi cifre, ma parliamo di poco più di 4 euro. 4 euro per vedere una delle meraviglie architettoniche del passato! Andatelo a dire a Machu Picchu che, nonostante valga sempre la pena di visitare qualsiasi sia il prezzo, tra una cosa e l’altra viene a costare più di 60 euro a persona!
Assieme ai turisti entrano anche molti venditori di cianfrusaglie e souvenir vari che passeranno la giornata a tentare di vendere qualcosa e in generale a contribuire a rovinare la potenziale atmosfera “ Io da sola in mezzo alle rovine nella giungla”. Meno snervante di Machu Picchu ma anche qui le rovine sono un vero e proprio business avviato.
Nonostante il lato commerciale le rovine rimangono, come Machu Picchu, un luogo da visitare che vince su ogni fastidio.

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Le rovine sono in eccellente stato, ovviamente ristrutturate ma presentano ancora intricati bassorilievi e perfino le vestige degli antichi colori. Bisogna infatti sforzare l’immaginazione e cercare di vedere Palenque così come era ai tempi d’oro, ossia con gli edifici dipinti totalmente di rosso e coi bassorilievi decorati nei toni del blu e del giallo, un’immagine così diversa dai toni grigi che dominano al giorno d’oggi la città.

Gioco della Pelota, Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Leggo certe guide che invitano a immedesimarsi nei primi conquistadores quando si imbatterono in ciò che era una Palenque già abbandonata e in rovina, quasi inghiottita dalla folta giungla che cresce rigogliosa in questa zona che è una delle più piovose del Messico. Tutte balle perché Palenque rimase nascosta dal verdeggiare circostante fino al 1746, quando un locale rivelò la sua esistenza e ubicazione a un prete spagnolo, che poi fu quello che le diede il nome di Palenque ( che vuol dire palizzata in spagnolo. Il nome originale Maya può essere stato Lakamha ma non lo sappiamo con esattezza).
Più tardi alcuni esploratori credettero di essersi imbattuti nella mitica civiltà di Atlantide. Un eccentrico Conte tedesco arrivo a stabilirsi in uno dei templi dal 1831 al 1833 e li ci visse per quasi tre anni per studiarne il passato.

Qua sotto la piramide su cui visse.
Mi aggiro tra le rovine affascinata e graziata da una temperatura calda e umida ma più mite di quello che mi aspettavo.

Seguo a intervalli intermittenti una guida con un gruppo tedesco e riesco a captare un po’ di informazioni sul sito. Poi mi siedo sotto un albero dove una guida ha intavolato una vera e propria conferenza con la povera coppia che porta in giro circa l’origine dei Maya, che lui è sicuro al 200% provenire direttamente dalla civiltà egizia che in qualche modo arrivò nelle Americhe e colonizzò tutto. Loro e pure i cinesi. Ora non dibatto che i contatti tra l’America e altre civiltà prima dell’arrivo degli spagnoli siano effettivamente esistiti, per esempio ormai sempre più fermamente si comincia ad accettare l’idea che i vichinghi siano arrivati nell’attuale Canada ben prima di Cristoforo Colombo, ma la teoria dell’origine egizia delle grandi civiltà mesoamericane è, come dire, decisamente ancora una concezione sperimentale basata su ben poche prove fisiche. Alla guida che sto ascoltando però non importa, lui ne è sicuro ed è sicuro che la storia che ci beviamo su Cristoforo Colombo e compari siano tutte frottole. Rifletto sul potere che ha una guida di dire ciò che gli pare e piace e farlo passare per storia.

Sento il rumore di uccelli esotici cantare e scimmie urlare, mi sento una vera esploratrice finché non scopro che i versi in realtà vengono da dei flautini in vendita nelle bancarelle improvvisate e mi sento un punta delusa!
Esploro l’antica piazza e i suoi grandi palazzi e finisco la visita prendendo un sentiero che porta all’uscita attraverso un sentiero in mezzo alla giungla e ad alcune rovine non ristrutturate di antichi complessi residenziali.

A fine visita decido di dare un’occhiata al museo che si rivela un’ottima idea visti i meravigliosi rilievi conservati.

Rilievo Maya, Museo di Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Rilievo Maya, Museo di Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Rilievo Maya, Museo di Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Rilievo Maya, Museo di Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Rilievo Maya, Museo di Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Rilievo Maya, Museo di Palenque, Chiapas, Messico//embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mi riprometto di cercare un buon Museo di archeologia preispanica una volta arrivata a Città del Messico ma ora torno a casa e riposo per tutto il pomeriggio e la sera visto che non mi sento benissimo e l’indomani ho l’ennesimo trasporto da prendere. Passerò la frontiera verso sud e mi introdurrò in Guatemala per passarci circa una settimana e mezza.

Chiapas: la cittadina coloniale e il canyon navigabile 

San Cristóbal de las Casas, 170.000 anime. Si trova nello stato del Chiapas, il più meridionale del Messico, proprio a confine col Guatemala. 

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Fu fondata dagli spagnoli nel 1528 e fu capitale del Chiapas per quasi tutto il diciannovesimo secolo, passando poi la torcia all’attuale capitale Tuxtla Gutiérrez. 
Nonostante sempre più persone proveniente dal Chiapas rurale si trasferiscano nella sua povera periferia, il centro di San Cristóbal de las Casas mantiene un’impronta coloniale che la rende molto graziosa.

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Questa sua bellezza l’ha aiutata ad attirare sempre più visitatori e il turismo qui è cosa di casa , nonostante il Chiapas abbia una certa reputazione di luogo irrequieto a causa delle attività del movimento Zapatista, di stampo marxista e anti-global, che soprattutto negli anni 90 entrarono in conflitto diretto con il potere centrale a Città del Messico. 

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il Chiapas è lo stato più etnicamente variegato di tutto il Messico, il che non è cosa da poco visto che questo è un paese davvero molto vario. 

Passeggiando per le viuzze di San. Cristóbal de las Casas si sentono con regolarità più le lingue indigene locali che lo spagnolo, e molte donne si aggirano per la cittadina vestite coi loro meravigliosi abiti fatti con tessuti tradizionali ricamati a mano, di stile diverso già rispetto a la non troppo lontana Oaxaca. 

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Cristóbal de Las Casas si trova nell’area affettata maggiormente dal terremoto registratosi al largo della costa chiapaneca solo due mesi fa. Con una magnitudo di 8,2 è stata ufficialmente l’oscillazione della terra più violenta del 2017 fino ad ora e ha superato di 0,2 il famoso terremoto di Città del Messico registrato nel 1985. 

Mi aggiro per le strade aspettandomi la distruzione ovunque ma non ne vedo così tanta come pensavo di trovare. Nel centro, gli unici edifici che sembrano aver risentito molto delle scosse sono le chiese, quasi tutte inagibili e tutte in fase di ristrutturazione.

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Assisto a una messa domenicale ” accampata” fuori dalla chiesa. 

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Arrivo a San Cristóbal de Las Casas la domenica mattina dopo una notte trascorsa in autobus. Dopo essere sorprendentemente riuscita a dormire piuttosto bene, ne approfitto per fare una prima ricognizione del centro. La mattina presto e la notte fa abbastanza freddo, costringendomi a rispolverare il maglione ficcato in fondo allo zaino da Bogotá, ma durante il giorno il sole batte forte e si può tranquillamente lasciare il maglioncino a casa. Sono necessari gli occhiali da sole per via della forte luce. Come sempre mi stupisce che , sia qui come in Perù, Colombia e Bolivia, i nativi del posto non indossino mai occhiali da soli e gli unici pivelli che ne hanno bisogno siamo noi gringos. 

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Passo la domenica e il lunedì ad esplorare il centro, senza molte cose da fare o da vedere, mi godo un po’ la tranquillità del posto. Metto spesso il naso nelle varie botteghe di articoli artigianali, un po’ per passare il tempo e un po’ perché c’è un sacco di bella roba e già diversa rispetto ai prodotti che si trovavano a Oaxaca. Comprerei tutto, ma il mio zaino è già abbastanza stipato così com’è. Così com’è ormai da due mesi, a malincuore rinuncio a comprare certe bellezze. 

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Per il martedì decido di mettere un po’ il naso fuori dalla città e mi iscrivo a un tour proposto dal mio ostello verso il Canyon del Sumidero, poco fuori San Cristóbal. Effettuo il pagamento e prometto di farmi trovare pronta all’ora prestabilita. Avendo programmato un po’ i prossimi giorni vado anche a comprare il biglietto dell’autobus per la mia prossima meta, Palenque, che partirà giovedì mattino per arrivare giusto la sera presto. 
Vado a letto guardando un po’ di tv sul cellulare, ogni tanto fa proprio bene tornare un po’ al noioso trantran quotidiano e isolarsi un po’. Prima di ritirarmi nella mia stanza la simpatica proprietaria tutta timida mi avverte che l’indomani gli organizzatori del tour verranno a prendermi alla reception chiamandomi Gloria. Si scusa ma quando ha dato loro il mio nome non si ricordava più come mi chiamassi e pensava fossi Gloria, quindi è questo il nome con cui dovrò identificarmi l’indomani. 

Metto la sveglia per le 8:30, per avere tutto il tempo di svegliarmi con calma, fare una colazione abbondante e trovarmi pronta per le dieci quando verranno a prendermi. 
Suona la sveglia alle 8:30. Mi trastullo a letto controllando le notizie sul cellulare, tanto ho tempo. Mi rotolo tra le coperte sonnecchiando e socchiudendo gli occhi, verso le 8:55 però mi forzo ad alzarmi: voglio avere abbastanza tempo per una doccia e per prendermela con calma a colazione. Ho intavolato un grande dibattito con me stessa nel mio cervello: meglio mangiare solo dei cereali e la frutta o mi permetto anche una piccolissima pancake? E prendo il caffè qua o vado al baretto qua vicino che serve caffè esclusivamente locale e organico? 
” Gloria? Gloria? Para el Canyon del Sumidero, Glooooria?” 
Mierda! Ho confuso gli orari. Le dieci è l’orario in cui partirà l’autobus per Palenque il giovedi, mentre il tour oggi comincia alle nove! 

Gloria è a malapena vestita e si precipita fuori dalla sua stanza correndo verso la reception. Col cuore in gola chiede se si può darle cinque minutini, per fortuna l’autista dice che va bene e io mi precipito nella mia stanza cercando di mettermi le lenti, finire di vestirmi e preparare la borsa per la giornata sperando di non dimenticare niente. 

Lascio l’ostello avendo risolto il mio dilemma interiore: cereali o pancake? La risposta è nessuno dei due, colazione saltata. 

Nel giro di un’oretta siano arrivati al porticciolo dal quale prenderemo una lancia che ci porterà navigando lungo il canyon del Sumidero, una profonda gola rocciosa in mezzo alla quale fino agli anni 70 passava un fiumiciattolo e che da allora, grazie alla costruzione di una vicina diga, si è trasformato in un vero e proprio fiume completamente navigabile. 

Sumidero Canyon, close to San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Mexicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Lungo il fiume avvistiamo parecchi coccodrilli in fase di tintarella, delle scimmiette locali decisamente disinibite e molti uccelli, tra cui grandi gruppi di cormorani e molti pellicani che normalmente vivono nei Caraibi ma che ogni anno vengono qua a passare qualche mese di villeggiatura. 

Sumidero Canyon, close to San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Mexicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sumidero Canyon, close to San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Mexicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Passiamo lungo un tratto del Canyon che è rappresentato nello scudo ufficiale dello Stato del Chiapas. 

Sumidero Canyon, close to San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Mexicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js
Sumidero Canyon, close to San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Mexicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Abbiamo una guida simpatica che adora scherzare in continuazione, perdiamo il conto degli scherzetti ( avvicinandoci ai coccodrilli: ” Eh vedete che loro sanno che gli ho portato il dessert!”, oppure ” Eccoci vicini ai coccodrilli. Ora chi non sa nuotare, questa è l’occasione giusta!”).

Sumidero Canyon, close to San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Mexicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sumidero Canyon, close to San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Mexicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sumidero Canyon, close to San Cristóbal de las Casas, Chiapas, Mexicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ritorno in ostello un po’ indebolita, una combinazione di una colazione saltata e un po troppi sbalzi di temperatura, dal sol leone del canyon alla ridicola aria condizionata versione polo nord del minivan. Ne approfitto per rilassarmi e staccare la spina dal mondo. 

San Cristobal de Las Casas, Messicohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Vecchie glorie arroccate sui monti e rotolando verso Sud

L’ultimo giorno a Oaxaca culmina con la visita a Monte Albán , il principale sito archeologico della regione e uno dei più importanti di tutto il Messico. 
Ci arrivo prendendo un bus che fa la spola tra il centro e Monte Albán. Il ragazzo alla reception mi aveva detto che era possibile anche farla a piedi dall’ostello, ma per fortuna oggi non mi sono svegliata tirchia e ho deciso di concedermi il bus. Durante il tragitto constato che il sito è decisamente fuori mano e si, è fisicamente possibile arrivarci a piedi in una giornata ma no, non mi va di camminare per tre ore per raggiungerlo. 
La giornata è soleggiata e calda come ogni giornata passata fino ad ora qui a Oaxaca, è difficile credere che sia novembre. 

Gli archeologi ci dicono che la zona occupata da Monte Alban comincio ad essere edificata già 500 anni prima della nascita di cristo, ai tempi cioè in cui l’antica Roma era ancora un regno. 

Monte Albán, rovine Zapoteche , stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Le strutture tutt’ora visibili però risalgono a un periodo compreso tra il 100 avanti cristo e 200 dopo cristo e sono un retaggio dell’epoca d’oro di Monte Albán . 

Monte Albán, rovine Zapoteche , stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Non sappiamo molto sulla vita e gli usi a Monte Albán, ne sappiamo così poco che non conosciamo nemmeno il suo nome originale e ci tocca chiamarla così come la chiamarono gli spagnoli quando ci si imbatterono. Attraverso i ritrovamenti archeologici però sappiamo una città molto grande, una delle più grandi dell’America Centrale nella sua epoca e perciò uno dei primi grandi centri urbani delle Americhe. Sappiamo che era una città importante e manteneva contatti stabili con un super potere dell’epoca come Teotihuacan, la mega città-stato costruita dall’omonima civiltà che, più avanti nel tempo, finirà per venir adottata nell’immaginario azteco come luogo di nascita della loro civiltà. 

Monte Albán, rovine Zapoteche , stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

All’epoca dell’arrivo degli spagnoli la civiltà zapoteca esisteva ancora, così come esiste tutt’ora, ma Monte Alban era già stata abbandonata, non sappiamo il perché. 

Monte Albán, rovine Zapoteche , stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Dopo essere stata rimessa a posto dagli archeologi Monte Alban divenne patrimonio dell’Unesco ed è oggi uno dei siti archeologici principali di un paese che ne conta di davvero imponenti e importanti. 

Monte Albán, rovine Zapoteche , stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il sole batte sulla pelle e nella piazza di Monte Alban non c’è mezzo riparo. Per fortuna è possibile trovare rifugio qua e la sotto la fronda di qualche albero. 
Il luogo è molto suggestivo e dalle cime delle piramidi si godono viste incomparabili sulle valli circostanti e le alte montagne che abbracciano il luogo. 

Torno in città e visito l’ultima volta il mercato per l’ennesimo Mole, la complessa salsa che è poi il piatto più famoso di Oaxaca, e qualche fotografia all’incredibile varietà di peperoncini in vendita. 

Specialità culinarie di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La missione per oggi è stancarsi il più possibile per arrivare alla sera senza energie e piena di sonno. Tutta strategia, perché mi aspetta un bus notturno verso San Cristóbal de las Casas. Ho comprato l’ultimo sedile disponibile, per l’orario che non lasciasse Oaxaca troppo tardi ne arrivasse troppo presto a San Cristóbal, purtroppo è un sedile verso il corridoio e non ho mai provato a dormire su un sedile che non fosse verso la finestra. Oltretutto per San Cristóbal esistono solo bus moderni ma normali, non quelli super lusso col sedile a mo di trono soffice che trovavo in Perù. 

Monto sull’autobus con un po’ di timore, alleviato solo dalla consapevolezza che ho le gocce di sonnifero nello zainetto che mi porto a bordo.
Autobus Oaxaca- San Cristóbal se las Casashttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mi siedo e non ho ancora un vicino, spero irrazionalmente che il mio compagno di viaggi si sia dimenticato del trasporto prenotato. Squadro ogni nuovo passeggero che sale, sperando dentro di me di non aver come vicino un contadino con una cesta di frutta o, scusate, un turista dalle dimensioni abbondanti. 

Quando sale a bordo una giovane coppia messicana con un bambino che avrà avuto si e no un anno prego che uno di loro non sia il mio vicino. Tiro un sospiro si sollievo quando, controllando il numero del sedile a fianco al mio distolgono lo sguardo e spero si siedano il più lontano possibile, e finalmente individuano i loro posti. Quelli a fianco a me dall’altra parte del corridoio. 
Mierda.
Il bambino mi scruta con lo sguardo scettico, io gli rispondo con qualche faccia buffa e gli occhi che gridano Per favore fai sogni d’oro, sogni profondi, di quelli che durano ore, dieci ore per l’esattezza, te ne prego perché non c’è tappo per le orecchie che mi possa salvare da un marmocchio che strilla al mio fianco. 

Nel frattempo sale anche l’ultima passeggera che mancava all’appello. La mia vicina, un’americana alta e magra, tiro un sospiro di sollievo per il contadino mancato ma continuo a temere il poppante al mio fianco che continua a guardarmi con uno sguardo torvo di quelli che dicono che a lui la notte piace rimanere attivo e comunicativo. 
L’autobus si mette in moto e presto lasciamo Oaxaca dietro di noi. Calano i due schermi che ci delizieranno con un film che non possiamo scegliere di non guardare. Io ho solo voglia di dormire il più possibile, e comincio a pensare a quante ore vorrei dormire come minimo. Prego il Dio che non ho: cara entità spirituale non ben definita, mi basta non passare la notte in bianco, mi accontento di poco. Con quattro ore di sonno più o meno profondo io mi accontento, non mi basta molto, mi basta solo sopravvivere la mattinata mentre non posso ancora accedere alla mia stanza in ostello. 
Verso le undici prendo le gocce e mezz’ora dopo sento i muscoli distendersi e le palpebre farsi pesanti. Mi pento di non aver preso la pastiglia di sonnifero più potente che mi sono portata dietro da prendere in casi estremi, penso ( troppo tardi) che forse era questo il caso estremo che mi immaginavo quando li ho messi nello zaino. 
Il film è terminato, il silenzio è calato e dopo aver sistemato la sciarpa e il maglione che mi sono portata dietro per colmare le eventuali lacune di comfort del sedile che mi sarei trovata provo a dormire. 
Sonnecchio per un’ora, o almeno credo di aver dormito. Il comfort non è il massimo ma le gocce aiutano a farci meno caso. 
A mezzanotte e mezza ci fermiamo in un parcheggio, il conduttore accende le luci e annuncia a tutto volume nell’altoparlante che ci siamo fermati in un posto dove possiamo comprare qualche rinfresco o usare il bagno. E grazie tante, ora la possibilità di passare la notte in bianco si fa sempre più reale. 
Provo a mantenere lo stato di dormiveglia in cui sono, sperando che il mio piccolo vicino faccia lo stesso visto che al momento sembra dormire della grossa. 
Finalmente ripartiamo e io ricreo la posizione più o meno confortevole che mi ero trovata. 
E puf, quando riapro gli occhi fuori dai finestrini è l’alba, siamo arrivati alla stazione del primo scalo dell’autobus, la città di Tuxtla Gutierrez.

Alcune persone scendono, nessuno sale a bordo e ripartiamo. 

Vedo due sedili lasciati vuoti dalla gente che è scesa e decido di adottarli per le successive due ore di viaggio. Mi sistemo in una posizione decisamente poco ortodossa a mo’ di scarafaggio a pancia in su e ritorno nel mondo dei sogni. Dormo così profondamente che mi risveglio solo quando l’autobus parcheggia nella stazione degli autobus di San Cristóbal de Las Casas. 
Smonto ancora intontita dal sonno ma sorprendentemente riposata, in stazione ho modo di scambiare un ultimo sguardo col mio piccolo vicino anche lui sveglio e riposato. Gli lancio uno sguardo di ammirazione e caloroso ringraziamento per aver dormito senza mai fiatare per dieci ore di fila, lui ricambia con uno sguardo sufficiente che sembra dire, E che cosa ti aspettavi, Gringa? 

Raggiungo il mio ostello a piedi e la fortuna vuole che il mio letto sia già disponibile. Invece di riposare però decido di uscire per dare una prima ispezione al paese. 
Mi trovo ora nello stato del Chiapas, il più meridionale del Messico e quello che conta la presenza indigena più grande e variegata del paese. Questa diversità etnica ha portato più volte a degli scontri con il potere centrale di Città del Messico, l’ultima delle quali nel 1994 con la rivolta Zapatista, un gruppo rivoluzionario , politico e di guerrilla, di stampo comunista che pretesero ( ed ottennero) più diritti per le popolazioni indigene del Chiapas. 

Il gruppo, attivo dal ‘94, è ufficialmente in guerra con lo stato messicano e si dichiara contro interventi militari e paramilitari in Chiapas, così come è contro le incursioni di grandi compagnie capitaliste. Nonostante il movimento sia più supportato e diffuso nelle comunità rurali, non manca l’appoggio anche nelle cittadine più grandi. 
Il gruppo prende il nome da Emiliano Zapata, una figura importantissima durante la rivoluzione messicana del 1910-1920. Egli era un riformatore agrario e comandante dell’esercito di liberazione del sud, un’entità che lottò contro il regime di Porfirio Díaz e che richiedeva più diritti per le classi più povere. 
Nonostante la chiara influenza socialista di stampo marxista, l’ideologia centrale dei Zapatisti è un mix di marxismo e forte supporto all’ identità culturale Maya delle popolazioni locali. Essi sono contro la globalizzazione, contro il neoliberismo e promuovono una partecipazione maggiore degli indigeni nelle decisioni locali.
Al giorno d’oggi lo scontro tra l’esercito messicano e gli zapatisti è molto meno intenso rispetto agli anni ‘90 ma ancora oggi si sconsiglia ai visitatori, per esempio, di viaggiare in Chiapas da una città all’altra di notte. 
San Cristóbal de Las Casas è un paesino pittoresco con una lunga storia di turismo ed è lontana dall’essere un luogo pericoloso per gli stranieri. Molti infatti ci vivono felicemente, soprattutto quelli che simpatizzano con l’ideologia di base anti-imperialista e anti-globalizzazione degli Zapatisti. Qua si incontrano gli hippie e i guevaristi ma in generale si incontra anche tanta gente politicamente arriva e dedita alla cultura e al commercio equo solidale, facendo di San Cristóbal deLas Casas un posto con un sacco di bei bar e ristoranti, librerie fornite, workshop di yoga e meditazione eccetera.
Sono felice di essere qua anche perché sono tornata in una delle zone di produzione di caffè, la più importante del Messico.
Cafe chiapanecohttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Durante la giornata ne bevo tre quasi di seguito, avevo paura che mi tenessero sveglia ma ora che è sopraggiunta la sera sono sollevata di sentire che invece il sonno bussa alle mie porte. 
A domani un resoconto più dettagliato di come mi sembra San Cristóbal de Las Casas! 

Nel regno dei Zapotechi e del Mezcal

Giornata di visite fuori città ieri. 
Ho prenotato un tour che in un giorno dovrebbe portarmi in quasi tutti i luoghi da visitare nelle vicinanze. 
Il minivan passa la mattina verso le dieci a prendere me e altri ospiti del l’ostello, ci viene chiesto di presentarci in reception alle 10 puntualissimi. 
Ormai pensate di sapere cosa dirò ora, no? E invece no, il minivan parte con noi a bordo neanche due minuti dopo le dieci. 
Però non cantiamo vittoria. Dopo qualche minuto il minivan parcheggia sul bordo di una strada e rimaniamo in attesa, di cosa non riusciamo a capirlo. 
Passati una ventina di minuti fermi e senza informazioni ripartiamo, finalmente si parte! 
Giriamo l’angolo e parcheggiamo di nuovo sul bordo della strada. Aspettiamo per una quindicina di minuti, ancora senza informazioni, sembra sempre di essere in partenza imminente e po li niente. 
Ci muoviamo di nuovo, tiriamo tutti un sospiro di sollievo e ci mettiamo comodi. 
Percorriamo un paio di strade e parcheggiamo nuovamente a bordo strada. Altri venti minuti di attesa, aspettiamo ( Godot?) qualcuno, qualcosa, non sappiamo, sappiamo solo che siamo già stufi di questo minivan senza finestre e stretto, stipati come dei polli. 
Finalmente sopraggiunge una signora accompagnata da un uomo che la aiuta a salire, vorrei dare la colpa a lei per il ritardo ma la sera, finito il tour, una ragazza inglese nel mio dormitorio mi racconta che il giorno prima, durante lo stesso tour, si erano dimenticati di venire a prenderla e finalmente dopo un’ora di attesa nella hall dell’ostello sono venuti a raccattarla. 
Finalmente lasciamo Oaxaca e cominciamo la gita. 
La prima fermata la facciamo visitando brevemente a El Tule, un piccolo paesino costruito attorno a uno degli alberi più grandi del mondo. Appartenente alla specie Ahahuete, anche detto cipresso di Montezuma, ha il diametro più grande del mondo , quasi 14 metri. Altro fatto incredibile di questo albero è che sembra avere più di 2000 anni! 

Albero di El Tulehttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il posto è estremamente affollato e l’albero è decisamente più suggestivo da vedere che da fotografare, essendo difficile includerlo tutto in una singola foto. 
Un breve tragitto stradale ci porta nel bel mezzo delle piantagioni di agave, piante succulente originarie del nord e centro America e molto diffuse in Messico dove servono alla produzione dei famosi distillati messicani, la Tequila e il Mezcal. 

Lo stato di Oaxaca è uno dei maggiori produttori di Mezcal ed è appunto verso una piccola fabbrica di questo distillato che ci stiamo dirigendo.

Fabbrica di Mezcal tradizionale fuori Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Innanzitutto: qual’è la differenza tra Tequila e Mezcal? Nonostante tutti e due siano distillati prodotti a partire dalla pianta dell’agave, essi differiscono tra di loro per regione di produzione ( come si diceva, a Oaxaca per esempio si produce solo Mezcal e non Tequila, che si produce più a nord), tipo di agave usato nella lavorazione e metodo di distillazione. 

Fabbrica di Mezcal tradizionale fuori Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sorvolando sulle varietà di agave esistenti, quasi 200, e quelle che si possono effettivamente usare per produrre alcol, circa una ventina ( Quelle a più alto contenuto di zuccheri), e i nomi delle varietà utilizzate esclusivamente nella produzione del Mezcal invece che della Tequila, la distillazione è veramente lo stadio in cui le due bevande diventano diverse. 

Fabbrica di Mezcal tradizionale fuori Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Mentre la Tequila viene distillata in grandi forni industriali in un processo di produzione di massa il Mezcal resta una produzione più piccola e artigianale.
Fabbrica di Mezcal tradizionale fuori Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Per fare il Mezcal si cuoce la piña, il cuore della pianta dell’agave, la si trita per bene, la si lascia fermentare per circa dieci giorni in contenitori di terracotta e infine si procede a far bollire il liquido fermentato in contenitori di rame a contatto con un forno a legna. Il vapore che fuoriesce dalla bollitura viene incanalato in un contenitore separato e quando il vapore si ritrasforma in liquido Ta dah, ecco il Mezcal. 
Il Mezcal appena prodotto si può già bere direttamente, è una bibita già molto alcolica ma delicata nel gusto, trasparente nel colore e viene chiamato Mezcal Joven, ” giovane”. Eventualmente si può lasciarlo invecchiare in barili per qualche mese ( Mezcal Reposado) o per qualche anno ( Mezcal Añejo) , e più passa il tempo più esso assume note gustative più complesse e sviluppa un retrogusto affumicato. 

Fabbrica di Mezcal tradizionale fuori Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Fabbrica di Mezcal tradizionale fuori Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

La piccola fabbrica che visitiamo offre delle prove gratuite alle orde di visitatori che si sono riversati nel loro stabilimento, io provo un bicchierino di añejo, un joven e anche un Mezcal unito a del succo di pompelmo molto buono.
Fabbrica di Mezcal tradizionale fuori Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Per l’añejo mi viene offerta un’arancia ( che però viene chiamato limón, non ho capito se fosse un’arancia, un limone o un’altro agrume che non conosco, sta di fatto che come sapore era un po’ un misto dei due) spolverata con del sale e peperoncino.

Fabbrica di Mezcal tradizionale fuori Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Noto con una punta di stupore che possiamo servirci quante volte vogliamo, io mi fermo molto prima che la bevuta diventi un problema ma vedo che certi visitatori in buona compagnia ne approfittano alla grande! 

Procediamo la visita poco lontano a Teotitlán, un villaggio che conta poco più di 500 anime tutte specializzate nella lavorazione dei tappeti. 

Tappeti zapotechi a Teotitlán, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Ci vengono spiegate le tecniche per creare questi bei tappeti e come si ottengono i colori sgargianti a partire da piante e insetti locali, senza l’uso di nessun ingrediente chimico, e osserviamo i figli del proprietario del piccolo atelier , 3 e 8 anni, creare con mani già esperte i loro tappeti. 

Tappeti zapotechi a Teotitlán, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tappeti zapotechi a Teotitlán, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tappeti zapotechi a Teotitlán, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Tappeti zapotechi a Teotitlán, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Continuiamo la visita verso Mitla, forse una delle località fuori Oaxaca più famose. Trattasi di un sito archeologico costruito circa 800 anni fa dalla civiltà dei Zapotechi e quasi totalmente distrutto dai conquistadores. 

Sito archeologico zapoteco di Mitla, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Un po’ come abbiamo visto in Perù, dove prima degli Inca fiorirono per secoli moltissime altre civiltà molto avanzate e complesse che durarono molto più tempo rispetto ai quasi 150 anni di vita dell’impero Inca, anche in Messico la storia preispanica non è tutta Azteca. 
Tra Inca e Aztechi ci sono una serie di affinità: 

– entrambi ebbero una civiltà che durò molto poco, neanche duecento anni di vita.

– sono due civiltà di cui abbiamo un certo livello di informazione e che sono diventati famosi in Europa soprattutto perché furono le civiltà che incontrarono gli spagnoli quando arrivarono nelle Americhe, molti resoconti ( anche errati) sui loro usi e costumi infatti ci arrivano proprio scritti dalle penne spagnole e ovviamente delle civiltà che al loro arrivo già non esistevano non sappiamo molto, ci dobbiamo affidare alle scoperte archeologiche in mancanza di resoconti di prima mano. 

– Entrambi arrivarono sul palco delle civiltà americane molto tardi e seguendo le orme di altre civiltà preesistenti ugualmente importanti e. avanzate, ma che magari erano in epoca di declino quando gli Inca e gli Aztechi invece si stavano imponendo sul territorio che volevano controllare. Famoso è l’esempio dei Maya, una civiltà millenaria che occupava l’odierna penisola dello Yucatán, il Guatemala e il Belize che non si trovava nel suo momento di auge quando gli Aztechi si imposero nelle loro zone. 
Detto questo, anche in Messico c’è da aspettarsi una storia complessa e piena di partecipanti interessanti, ognuno con le proprie culture e esistenze. 
Una delle civiltà più importanti del Messico preispanico fu appunto quella dei Zapotechi, gli antenati degli abitanti odierni dello stato di Oaxaca. I reperti archeologici trovati ci permettono di capire che questa cultura nacque almeno 2500 anni fa e sappiamo che esistevano ancora come civilizzazione quando arrivarono gli spagnoli. Essi utilizzavano una forma di calendario e un alfabeto per scrivere la propria lingua, uno dei primi a svilupparsi in tutta l’America Centrale, più antico di quelli Azteco e Maya. 

Mitla era un centro religioso della cultura Zapoteca e quando arrivarono gli spagnoli non ebbero dubbi: edifici del genere, dedicati a dei sconosciuti, erano sicure minacce alla salvezza delle povere anime locali.

Sito archeologico zapoteco di Mitla, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Fecero venire un ordine di monaci domenicani in fretta e furia e , così come fecero in praticamente tutti i luoghi religiosi dell’America Latina, costruirono chiese cattoliche usando le fondamenta dei templi Pagani distrutti.

Sito archeologico zapoteco di Mitla, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Immaginate che potere simbolico potesse avere un gesto del genere! Oggi rimaniamo inorriditi dal saccheggio e la distruzione di opere d’arte del mondo antico da parte di gruppi estremisti come i Talebani o l’Isis, ma tendiamo a dimenticarci che 600 anni fa erano i civilizzatissimi europei ad arrivare in un nuovo luogo, rifiutare di capire gli usi locali e imporre il proprio stile di vita, cercando di eliminare ciò che era venuto prima di loro. 

Ciò che sopravvive a Mitla sono le fondamenta di un centro religioso, non il più importante perché quello si trova a qualche metro di distanza ed è ora una chiesa costruita in stile coloniale. 

Sito archeologico zapoteco di Mitla, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sito archeologico zapoteco di Mitla, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Nonostante i frequenti terremoti in questa zona altamente sismica gli edifici costruiti dai zapotechi continuano ad ergersi imperterriti, originali al 90%, ancora completi delle raffinate decorazioni di pietra che ornano le pareti. 

Anche la visita a Mitla è terminata, è tardo pomeriggio e ci aspetta l’ultima tappa della nostra visita: Hierve el Agua. 
Dopo circa un’ora di tragitto arriviamo a tramonto inoltrato ( fa un po’ rabbia pensare al ritardo di un’ora di questa mattina , fossimo stati in orario avremo visto tutto il tramonto) . 

Hierve el Agua al tramonto, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Hierve el Agua, che in spagnolo significa ” L’acqua bolle” sono delle formazioni rocciose create dall’acqua locale mischiata con un’alta concentrazione di minerali come il carbonato di calcio. I minerali in eccesso vengono depositati, un po’ come le stalattiti. 

Hierve el Agua al tramonto, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Sembra che queste acque abbiano poteri benefici ma non ho tempo di farci il bagno, una combinazione di poco tempo disponibile e troppa, troppa gente ovunque.
Hierve el Agua al tramonto, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Il luogo è chiaramente magico ma è difficile gustarselo vista la quantità di gente presente! 

Hierve el Aguahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Hierve el Agua al tramonto, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Hierve el Agua al tramonto, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Hierve el Agua al tramonto, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Oggi prendo tutta la giornata libera per organizzare il resto del viaggio e risolvere le noie col blog. A domani con nuove avventure! 
Tappeti zapotechi a Teotitlán, stato di Oaxacahttps://embedr.flickr.com/assets/client-code.js

Polvere sei e polvere tornerai ad essere: Dia de Muertos a Oaxaca

È il giorno 31 e sulla tarda mattinata mi precipito per strada aspettandomi un sacco di movimento. 
Vado verso il centro, poco lontano dal mio ostello, e incontro una piccola compagnia di bambini vestiti per la festa dei morti e una banda che suona per loro e per i passanti, ma oltre a ciò non vedo molta altra attività.
Mi convinco che probabilmente ho sbagliato posto, che di sicuro la festa è da un’altra parte, così sfodero il foglietto illustrativo con tutti gli eventi presenti a Oaxaca in questi giorni e individuo una piazza non troppo lontana che dovrebbe avere un po’ di movimento. Cammino sotto il sole caldo, la città pullula di persone ma non so, sento di non aver ancora trovato l’anima della festa. 
Arrivo alla Piazza della Danza, così si chiama una piazzetta davanti a una bella chiesa ornata in stile coloniale e non sono ben sicura cosa dovrei trovarci ma non ci trovo proprio niente. 
E va bene, la mattinata andrà così, niente di particolare da vedere oltre a Oaxaca di per se. 
Dopo aver trottato ulteriormente per il centro vado al mercato per pranzo decisa a provare un’altro dei sette Mole di Oaxaca, però ordino sbagliato e mi arriva una zuppa liquida e piccante che non è niente di speciale e non si abbina di certo alla giornata calda che perversa fuori. 
E va bene anche questa, il pranzo è andato così, mi rifarò nei prossimi giorni. 
Il pomeriggio torno un po’ in ostello per ricaricare le batterie, sia mie che della mia macchina fotografica, e cerco di studiare ancora un po il programma degli eventi, anche se molti sembrano essere concerti o pezzi teatrali a cui non sono molto interessata. 
Oggi ricevo una nuova compagna di stanza nel dormitorio, una vedova americana di origine guatemalteca che sta passando le vacanze tra Città del Messico e Oaxaca. Una volta avviata la conversa è difficile fermarci, se pensate che io sia una chiacchierona allora non avete mai incontrato la signora Carol. 
Tra le tante cose parliamo di cosa faremo questa sera, che poi sembra essere il discorso più popolare tra i viaggiatori attorno a me. 
Il punto alto della festa dei morti in Messico è visitare un cimitero la sera sul tardi, quando molte famiglie di locali ci si recano attrezzati di seggioline, copertine, cibo e alcol con il piano di ” accamparsi” attorno alla tomba del proprio familiare defunto e tenergli compagnia per qualche ora se non per tutta la notte. 
A Oaxaca ci sono un paio di cimiteri, chiamati Panteónes, vicino al centro. La grande scelta per stasera è la seguente: attenersi ai cimiteri cittadini, come quello principale chiamato ” General” o quello del quartiere di Xochimilco subito fuori il centro storico, o prendere un mezzo di trasporto e visitare il cimitero della vicina cittadina di Xoxocotlán, famosa per essere un luogo suggestivo per vivere l’evento? (Prima che vi scoppi la testa, il primo si legge ” Socimilco” e il secondo ” Hohocotlán”, soprannominato Xoxo, ossia “Hoho”)

La grande questione è capire se vale la pena spingersi fino a Xoxo o se è possibile vivere un’esperienza ugualmente memorabile anche al vicino Panteón General. Ad ascoltare le tante agenzie di viaggi che offrono tour completi di trasporto, guida, fiori di Cempasúchil, cioccolato caldo e bicchierini di Mezcal da offrire ai defunti, Xoxo è il posto migliore dove godersi l’evento. Non riesco però a capire se sia davvero così o se sia l’ovvio interesse delle agenzie a far sembrare Xoxo più speciale degli altri Panteones. 
Dibatto la scelta per tutto il pomeriggio e, dopo aver parlato con il ragazzo alla reception che conferma che si, Xoxo è una bella esperienza ma che il Panteón General è ugualmente suggestivo, decido di non prenotare nessun tour e farmi una visita fai da te al cimitero principale. 
Cala la sera e faccio un giro per la città che ne frattempo si è animata. Le persone si sono riversate per strada, messicani e stranieri tutti. Molte persone sono in maschera: chi è vestito da scheletro in abiti tradizionali, chi in figure mitologiche preispaniche,  chi da vampiro o altri costumi più associati a Halloween che al Dia de Muertos.


Quando tu ti credi un pericoloso giustiziere della notte ma la mamma ti costringe a posare per l’ennesima foto



Ci sono anche alcune Catrine. La Calavera Catrina è il simbolo per eccellenza del Dia de Muertos. È un personaggio basato su una litografia pubblicata su un giornale messicano a inizio ‘900 e consiste in uno scheletro femminile vestito secondo la moda europea in voga a inizio secolo. 

Il fumettista che la creò al tempo volle criticare l’emergente classe media messicana di allora, così concentrata ad atteggiarsi a europei “civilizzati” ( i vestiti moderni e così dissimili da quelli tradizionali messicani) ma che sotto sotto rimangono messicani nell’anima ( lo scheletro) e che quindi stanno mentendo a se stessi. Questo movimento intellettuale di ricerca di una messicanità più autentica e meno europeizzata che si sviluppa a inizio ventesimo secolo e di cui la Catrina è un famoso simbolo culminerà nella famosa rivoluzione messicana che scosse il paese per quasi un decennio tra il 1910 e il 1920, che portò alla fine del regime del capo di governo oaxaqueño Porfirio Díaz e che rimarrà un forte perno culturale nella costruzione dell’identità nazionale messicana negli anni a venire. 

Tutt’attorno a me svariate scuole, dalle elementari a gruppi di studenti universitari, sono vestiti a puntino e sfilano dietro a una banda che suona scatenata. 

Una giovane Catrina



Spesso i vari cortei scolastici si imbattono l’uno nell’altro per le strade del centro, nessuna banda demorde e ognuno balla e canta le proprie canzoni causando un effetto cacofonico inebriante. Noi stranieri rimaniamo estasiati ad osservare e fare foto, e c’è chi si unisce alla confusione ballando con il volto dipinto qualche ora fa da qualche artista di strada a mo di teschio. 
La festa impazza , devo ammettere che mi sento un po’ sola: questa è una di quelle occasioni in cui viaggiare da sola non è il massimo, in cui la compagnia farebbe davvero la differenza. E si, potrei unirmi a qualcuno, potrei sforzarmi e fare conoscenze ed essere sociale, lo so, ma non è sempre facile e naturale, stasera semplicemente non è successo e che ci posso fare. 
Forse questo fattore e anche il fatto che con la luce presente e il movimento continuo, è difficile fare delle foto fatte bene con la mia umile macchinetta fotografica. Resto ancora un po’ per osservare l’evento ma verso le otto me ne torno in ostello perché voglio prepararmi per la visita al cimitero. 
Una doccia veloce, un cambio d’abiti, la macchina fotografica sotto una larga maglietta e il cellulare ben nascosto in una tasca interna dei pantaloni perché ancora non so quanto sia sicuro andare in giro di notte e la mappa di Oaxaca in mano e mi rituffo nelle strade della città in festa. 
Cammino per una ventina di minuti in un’area in cui non sono ancora stata, è buio ma nonostante ciò non mi sento in particolare pericolo. Se c’è una cosa che ho imparato in questo lungo viaggio è sentire l’energia attorno a me, anche se teoricamente sto camminando di notte per una stradina poco illuminata in America Latina e mi imbatto in poche persone, per la maggior parte uomini da soli, non mi sento in pericolo. Non so come spiegarlo ma è davvero una questione di energia: a Bogotá , la città che perfino nel centro storico che pullula di turisti ha strade in cui si sta al sicuro e subito a fianco una strada in cui ti si ammonisce di non metterci nemmeno piede ( Il grande dilemma della Candelaria a Bogotá per il visitatore è appunto questo: sono su una strada giusta o sbagliata?), l’energia si sente bene e per (piccola) esperienza posso dire che quando si è nella strada sbagliata, prima di rendersi conto di dove si è si avverte qualcosa attorno che ci dice che non si dovrebbe essere lì dove siamo. Ora magari dico questo e poi domani casco come un pollo in qualche ” trappola” e mi fregano tutto, lungi da me atteggiarmi da esperta, ma da qualche parte bisogna pure iniziare e seguire l’istinto in questi casi non è mai una brutta idea. 
Finalmente arrivo al Panteón General. 
L’entrata è chiusa, un messaggio avvisa che a causa dei danni riportati durante il terremoto per ora si entra da una porta laterale, verso cui mi dirigo prontamente. 
Anche questa entrata è chiusa ma c’è di peggio. Un messaggio appeso al cancello mi avvisa che il Panteón General rimarrà chiuso per tutta la notte perché i danni causati dal terremoto non permettono un accesso sicuro di sera.
Rovinati i piani. 

Un ragazzo messicano mi dice che potrei provare il cimitero di Xochimilco, a nord del centro storico. Io che non mi ero proprio preparata per una lunga camminata devo cambiare idea se voglio vedere qualcosa stasera e, dopo aver spiegato la situazione a due ragazzi stranieri appena giunti sul luogo e rimasti anche loro a bocca asciutta comincio la lunga camminata verso Xochimilco. 
Mi appiccico ai ragazzi stranieri per un po’ di compagnia, sono portoghesi con residenza lussemburghese quindi comincio a chiacchierare facilmente con loro. 

Parliamo un po’ ma sempre più avverto che nonostante la cortesia sotto sotto sono interessati a starsene per conto loro. 

Questa è un’altro dei lati del viaggiare soli: a volte si cerca della compagnia che si instaura naturalmente e che eventualmente si trasformano in amicizie più o meno profonde in cui un paio di ore sembrano giorni, così come è capitato con i due ragazzi che ho incontrato a Medellín, e delle volte va buca e il legame non si instaura. Non c’è tempo però per farsi mille problemi, trovo una scusa e li lascio gentilmente al loro destino. 
Finalmente dopo 40 minuti buoni di camminata e dopo essermi quasi persa un paio di volte arrivo a Xochimilco. Sono vicina alle porte del cimitero e pregusto l’esperienza unica che mi ha motivata a venire in Messico in questo periodo dell’anno! 
Entro dentro al cimitero e non c’è nessuno. 
Le tombe sono disadorne, c’è forse una famiglia o due riunita attorno a delle tombe ma è decisamente diverso da quello che mi aspettavo. 


Rimango parecchio delusa e comincio a pensare che forse l’idea che mi sono fatta non corrisponde alla realtà. 
Sono le dieci di sera, non so cosa fare e sono un po’ amareggiata da tutta la giornata, la grande giornata che pregustavo! 

Decido di tentare l’ultima carta: Xoxo. 
È troppo tardi per unirmi a un tour e devo arrangiarmi da sola. Ho sentito dire che ci si può andare in taxi e per essere sicura di prendere un taxi autorizzato torno in ostello, anche per chiedere consiglio alla reception sul costo previsto e come muovermi a Xoxo. 
Un’altra camminata non prevista, stavolta a tutta velocità perché comincio ad avere sonno e non voglio andare a letto troppo tardi. È tutto il giorno che trotto per la città cercando eventi che non trovo o che mi lasciano delusa e comincio ad essere di malumore. Le gambe, i piedi e la schiena cominciano a farmi male ma non demordo: chissà quando tornerò in Messico per il Giorno dei Morti, sono determinata ad andare a fondo alla questione! 
Arrivo in ostello alle 10:40 di sera e il taxi mi molla a Xoxo verso le 11. Al mio arrivo mi imbatto in file di bus e minivan turistici, comincio ad aver paura che sia tutta una gran trappola turistica ma ormai ci sono e devo andare a vedere com’è. Cammino ancora per un po’, l’entrata è piena di mezzi e persone e il taxi non riesce a lasciarmi giusta all’entrata. 
Finalmente arrivo al Panteón di Xoxocotlán e c’è un mare di gente, messicani e stranieri. Fuori dalle porte del cimitero c’è un palco con una banda che suona una salsa scatenata e la gente balla davanti al palco. Ovunque pullulano venditori di qualsiasi cosa, da tacos a torce elettriche. 

All’entrata ” Polvere sei e Polvere tornerai ad essere”
Entro nel cimitero e mi si para davanti lo spettacolo. 

Il cimitero è grande ed è affollatissimo. Esiste una stradina principale, stipata di persone, e le tombe sono sistemate fitte fitte una a fianco dell’altra. La mancanza di passaggi tra una tomba e l’altra e la folla tutt’attorno significa che è quasi difficile non pestare una tomba qua e là mentre ci si muove. 



Quasi ogni tomba è decorata nella maniera più elaborata: fiori di Cempasúchil, ornamenti tipici per il Dia de los muertos, un’infinità di candele e ogni sorta di cibo o bevanda che piaceva in vita alla persona defunta. Tutt’attorno alle tombe stanno i familiari, diverse generazioni appollaiate su delle seggioline di legno o di plastica che chiacchierano, ridono, sono assorte nei loro pensieri, condividono cibo e bibite e chiacchierano di ogni cosa, dalle disavventure con la vicina di casa a episodi della vita del defunto. 



Ci sono molti turisti ma l’evento è così intenso che è come se non esistessero. Le famiglie messicane non sembrano importunate dalle mille macchine fotografiche che quasi febbrilmente scattano una foto dietro l’altra, di loro e della tomba del loro caro. 


Spuntino di mezzanotte al cimitero



Ci sono un paio di bande formate da chitarre e voce che si aggirano per il cimitero e offrono la loro musica alle famiglie. Non ho avuto modo di vedere se ci fosse una ricompensa monetaria dietro al servizio, ma non ho visto scambio di denaro tra musicisti e famiglie. Ho invece assistito alle bande che arrivano davanti alla tomba e chiedono con cortesia che canzone si voglia sentire. 
Mi colpisce vedere tutte le generazioni presenti: bambini ,a cui tutto ciò deve sembrare una grande festa, che giocano a nascondino tra le tombe, preadolescenti accovacciati sul proprio cellulare che controllano Facebook e di sicuro vorrebbero essere altrove, tardo adolescenti che invece hanno capito che c’è festa e c’è alcol quindi non perdono tempo e si scatenano, adulti che chiacchierano, mangiano, bevono, sistemano le decorazioni della tomba, ridono sguaiatamente o guardano con solennità le tombe dei propri cari, ancora chiaramente toccati dal lutto recente. 
Non è necessario far festa. Mi da l’impressione che come familiare si abbia la libertà di fare quel che si vuole: se ci si vuole divertire, anche per uscire dalla tristezza che magari si portano dietro tutto il resto dell’anno, lo possono fare senza essere giudicati, se invece si vuole essere assorti nei propri pensieri e intristirsi si può fare anche questo. 
Oggi parlavo con Carol, la vedova americana nella mia stanza. Riflettiamo sul lutto e su come lo si affronta nei nostri paesi e in Messico. Lei mi parla di tanta solitudine avvertita negli anni successivi alla morte improvvisa del marito, mi dice che si, ha avuto compagnia durante il funerale, ma che a tutti gli anniversari successivi si è irrimediabilmente trovata sola. O almeno si è sentita sola, a dover trattare del suo lutto da se. Le piace invece come fanno le cose qui, le piace che in una data potenzialmente così delicata si sia quasi forzati ad avere così tanta compagnia, così tanta vitalità attorno. Che poi si torni alla tragedia di sempre durante il resto dell’anno, ma che ci sia almeno un giorno in cui far festa, fare casino, mangiare fino a non poterne più, alzare un po’ il gomito, senza negare il lutto, senza far finta che la persona defunta non ci sia. No, il defunto c’è ed è presente, e festeggia con noi.